Narrator in fabula – 10

dove Vincent Spasaro incontra Gordiano Lupi (*)

Editore amato e odiato. Gordiano Lupi è odiato dalle grandi case editrici perché ha scoperto, spesso al posto loro, autrici e autori divenuti poi famosissimi; odiato dai colleghi per l’assoluta mancanza di peli sulla lingua. Amato da autori e lettori per la sua umiltà, spesso riscoperto dai detrattori per la capacità di tornare sui suoi passi, ragionare, non abbracciare cause per pura ideologia. Chi lo conosce non può che ammirarlo.

Definirlo è quasi impossibile. Ha creato dal nulla una casa editrice che in barba ai grandi oligopoli ha spedito autori allo Strega. Lui stesso scrive horror e mainstream. E’ saggista di cinema underground, traduttore dallo spagnolo di autori importantissimi. Innamorato di Cuba, ha scoperto e denunciato le contraddizioni politiche dell’isola e ne ha ricevuto in cambio ostracismo e maldicenze. Scopritore – primo al mondo – del fenomeno Yoani Sanchez che ha avuto il coraggio di abbandonare una volta intuiti i lati oscuri del personaggio.

Potrei continuare. Ma è meglio far parlare questo piombinese verace: ne ha fin troppe da dirvi.

Tua moglie è cubana, nell’isola anche tu hai lasciato molti affetti: un rapporto tormentato. Cosa ti attira di quest’isola?

«Cuba è la sua gente, soprattutto. Molto diversa da noi, più aperta, solare, insomma, niente a che vedere con la fredda Europa. Un italiano che ci arriva per la prima volta – almeno questo accadde a me nel 1998 – si trova a fare un tuffo nel passato. La mia Cuba ricorda la mia Italia dell’infanzia, quella dei primi anni Sessanta».

Mi piacerebbe sapere come si è evoluto nel tempo il rapporto con Cuba.

«Il rapporto con Cuba si è evoluto in diverse direzioni, non tutte positive. Una grande delusione è stata Yoani Sanchez. Ho dedicato alla blogger sette anni della mia vita, trascurando progetti personali, solo perché credevo in lei. Ho sbagliato valutazione. Capita. In ogni caso, vedo che almeno in Italia sono sempre meno i giornali che le danno credito. Di positivo ci sono molti altri scrittori che traduco come Alejandro Torreguitar, Virgilio Pinera, Heberto Padilla, Guillermo Cabrera Infante, ma anche tanto cinema cubano che vedo in lingua originale da quando ho imparato la lingua. Cuba mi manca e, se penso che l’ho perduta per combattere una battaglia al fianco di chi non meritava la mia passione e il mio impegno, mi manca ancora di più».

Cosa pensi delle recenti aperture?

«Hanno scelto il giorno di San Lazzaro per lo scambio dei prigionieri: Alan Gross contro tre spie (o eroi). Hanno scelto un giorno importante per i cubani per annunciare al mondo, a reti unificate, che i rapporti fra Cuba e Stati Uniti cambieranno, andranno verso una normalizzazione. Yoani Sánchez si è affrettata a dire: “È una vittoria del castrismo, ma c’è di buono che Alan Gross è uscito vivo di galera”. Ha poi aggiunto: “Finisce un’era. Adesso speriamo che diventi protagonista la società civile”. Yoani Sánchez viene ascoltata sempre meno, almeno a queste latitudini: il suo ruolo in questa storia ancora non mi è chiaro. Pedina del governo cubano per favorire questa mossa? Personaggio costruito dagli Stati Uniti per creare le condizioni di un avvicinamento? Figura costruita da entrambi per arrivare a compiere questo passo? Non lo sappiamo e in fondo non interessa più di tanto saperlo. Invece, molto importante è stato il ruolo della Chiesa cattolica che si impegna da anni in questa operazione di avvicinamentoftra due nazioni storicamente nemiche. L’assenza di Fidel ha fatto il resto, perché Raúl ha cambiato molto Cuba – tutto sommato in meglio – e ha compiuto passi storici che il fratello non avrebbe mai osato fare. Infine Obama, è chiaro: un presidente repubblicano avrebbe reso tutto più difficile. Per quel che riguarda i cubani solo notizie positive. Prossima fine di embargo e sanzioni, Cuba fuori dal novero dei Paesi canaglia, prospettive di viaggi e commerci fra due mondi separati da un braccio di mare ma per anni così distanti. Finiranno le vacche da mungere per troppi finti dissidenti. Soltanto per loro arrivano le cattive notizie».

Come ti sei avvicinato alla letteratura ispanoamericana e cubana in particolare?

«Ho cominciato da Alejandro Torreguitart, di cui ho tradotto l’opera omnia e continuerò a farlo. Lui è un emulo del ben più famoso Pedro Juan Gutierrez: realismo sucio (sporco) avanero, sesso e vita quotidiana, embargo e comunismo. Molto critico ma soprattutto interessato a raccontare il quotidiano. Il più grande scrittore cubano che ho tradotto è Guillermo Cabrera Infante (“La ninfa incostante” per Sur/Minimum Fax) ma anche Virgilio Pinera (“La isla in peso”, il teatro e i racconti) non è da meno. Heberto Padilla con il suo fondamentale “Fuera del juego” mi ha fatto vincere il Premio Camaiore. Poi ci sono le poesie di un esiliato come Felix Luis Viera, che in libreria non vende ma che io pubblico lo stesso. “La patria è un’arancia” è un libro da Nobel per la letteratura. Gli scrittori cubani contemporanei mi ricordano il nostro cinema neorealista, il realismo magico di De Sica e Zavattini. Alcune opere le ho tradotte e pubblicate come e-book (edito dal Foglio) nel caso di Virgilio e Viera scaricabili gratis da Amazon».

Non è strano che alcuni importanti autori sudamericani vengano lasciati da parte dalle grandi case editrici?

«Non è strano perché in Italia non si legge niente, soprattutto letteratura. Vanno di moda i fenomeni da baraccone, inventati dai grandi gruppi editoriali. Ma è un discorso vecchio. Non me lo far rifare…».

Parliamo della tua scrittura. Come hai iniziato?

«Ho sempre scritto e non è una frase fatta. Sin dalla scuola elementare ho amato scrivere: soggetti per fumetti, raccontini, storie, parodie di personaggi fantastici. Credo di non averlo mai detto a nessuno, è una primizia: avevo inventato un supereroe di nome Dardel (un Devil italiano) e scrivevo le sue avventure a puntate. Con un mio amico, purtroppo scomparso, facemmo pure alcuni fumetti. Avevo 14/15 anni, credo. Poi ho vergato quaderni e quaderni di poesie che fortunatamente ho perduto, roba pascoliana, leopardiana, adolescenziale. Ho letto molto, valanghe di romanzi italiani, soprattutto Moravia, Cassola, Pasolini. Ho visto migliaia di film. Ho cominciato a scrivere professionalmente nel 1997 pubblicando i primi racconti e romanzi. Un libro intitolato “Lettere da lontano” (che fra l’altro fu la base per il futuro “Calcio e acciaio”) è stata la mia prima uscita. Sono seguite molte cose horror e noir ambientate a Cuba, saggi su Cuba e le sue tradizioni culturali, lavori sul cinema italiano».

Calcio e Acciaio” è un’opera di grande respiro. E’ un punto d’arrivo e di ripartenza nella tua scrittura?

«Si tratta di un romanzo completamente diverso dai miei precedenti lavori, tutti più o meno di genere, anche se l’attenzione al sociale c’è sempre stata ed era proprio il limite dei miei horror, thriller e noir, perché giudicati né carne e né pesce. Forse aveva ragione la critica. Un romanzo di genere dev’essere genere puro e non un mix indefinibile di critica sociale e suspense. Invece “Calcio e acciaio” vorrebbe essere letteratura. Non so se ci sono riuscito ma l’ambizione – alta – era quella. Cosa mi ha spinto a scriverlo? L’amore per la mia terra e per le mie radici, la voglia di raccontare il tempo perduto e di andarlo a ricercare nei meandri della memoria. “Calcio e acciaio” racconta molte storie d’amore. C’è l’amore ritrovato per una città, l’amore perduto per una donna del passato, l’amore che sta nascendo per una donna del presente e l’amore per il calcio. Volendo c’è anche l’amore per il padre, per la madre, per i nonni, infine per un figlio mai nato, ma che il protagonista vede riflesso nel giovane calciatore marocchino che sta aiutando a diventare grande.

Un tema sociale importante è la crisi dell’acciaio, le difficoltà attuali per una città che ha sacrificato la bellezza del suo paesaggio alla monocultura dell’acciaio e che adesso stenta a trovare una via d’uscita da una crisi irreversibile. Poi c’è l’integrazione “razziale” perché il bomber del Piombino, il golden-boy che risolve tutto è un giovane marocchino che è approdato in Italia per fare fortuna, proprio come il nonno di Giovanni che alla fine del 1800 era andato in America per lavorare».

Hai fondato da più di 15 anni una casa editrice undeground capace di mandare tre libri allo Strega e battere in qualità case editrici potenti e blasonate.

«Mi sa che i libri portati allo Strega sono quattro, ma non è questo l’importante. Parlare del Foglio Letterario in poche parole è difficilissimo. Tutto nasce da una rivista di quattro pagine formato A4 stampata dal Comune di Piombino nel 1999. Nel 2003 diventiamo casa editrice ma la rivista non l’abbiamo mai lasciata e ancora oggi esce in forma gratuita come bollettino associativo. L’idea di partenza era ricordare le figure di Aldo Zelli e Maribruna Toni, due scrittori piombinesi del 900: l’abbiamo fatto a lungo, anzi continuiamo a farlo. Le dimensioni adesso sono diventate nazionali rispetto ai tempi in cui con Andrea Panerini e Maurizio Maggioni fondammo questa bella realtà. Siamo passati dalla stamperia comunale a quella della parrocchia per finire alla Digital Print di Milano. Dalla distribuzione porta a porta siamo finiti in Pde. Insomma, le cose sono cambiate, ci sono cresciute sotto gli occhi, ma noi andiamo avanti con umiltà e alterniamo la distribuzione alta con i mercati di paese».

Cos’è l’editoria? Perché fai l’editore?

«Passione pura. Certo non lo faccio per denaro. Con questi chiari di luna vendere libri di nicchia, come facciamo noi dal 1999, è soltanto un rischio. Se non c’è amore per la materia è un mestiere (e per me non lo è) che non si può fare. Il Foglio Letterario rispecchia le passioni di chi ci collabora: si va dal fantastico alla narrativa giovanile passando per Cuba, cinema e saggistica musicale, dedicando attenzione a fumetto e poesia. Certo, non facciamo quello che già fanno i grandi editori. Non avrebbe senso».

Cinema: il tuo amore per la commedia italiana ti ha portato a scrivere monografie oggi molto apprezzate. Questa passione dove nasce e dove ti sta portando?

«In questo periodo scrivo solo di cinema, uno dei miei grandi amori. “Calcio e acciaio” è stato il mio ultimo romanzo, poi magari mi contraddico e ne scrivo un altro, ma per ora sento di aver detto tutto e di non avere nessuna voglia di mettermi a scrivere ancora narrativa di lungo respiro. La passione per il cinema italiano viene dal Sempione, il mio “Nuovo Cinema Paradiso” di quando ero bambino che ogni domenica passava due film: peplum, spaghetti western, Totò-movie, Franco & Ciccio. Mia nonna ha contribuito portandomi al cinema ogni giorno e pure mio padre che amava Sordi e Manfredi. Seguo il cinema italiano, non solo commedia, anche horror, melodramma, noir, musicarelli, lacrima movie, basta che sia italiano.

Posso aggiungere che a mia firma è appena uscito “Soprassediamo – Franco & Ciccio Story”. Altri progetti di cinema sono sul lacrima movie e sul cinema di Pierino».

I progetti di Gordiano Lupi sono vulcanici come la sua personalità. Probabilmente, fra un mese ne rivelerà di nuovi. Lo potete seguire anche su www.ilfoglioletterario.it vedrete che, fra l’altro, continuerà a scovare nuovi talenti.

(*) Un bel 10 per Vincent Spasaro che sta intervistando per il blog autori-autrici, editor, traduttori, editori del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che in “qualche altra realtà”… alla ricerca dei misteri anche del loro mondo interiore: Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi e oggi Gordiano Lupi… E poi? Nelle più accreditate sfere di cristallo c’è chi ha intravisto i nomi di Silvia Castoldi, Lorenzo Mazzoni, Angelo Marenzana, Giuseppe Lippi e altri ancora. Qui in blottega (cioè il blog diventato bottega) però gliela abbiamo cantata chiara a Spasaro: “un ottimo lavoro ma sia chiaro, a quota 99 ci si ferma”. Voi che dite? D’accordo, facciamo 132 ma poi basta. (db)

Redazione
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