Narrator in fabula – 12
Dove Vincent Spasaro dialoga con Lorenzo Mazzoni (*)
E’ un reporter vecchio stampo inviato nei luoghi caldi del pianeta, uno che vuole conoscere davvero le culture di cui racconta. Ha scritto per «Il Fatto Quotidiano», «il manifesto» e molte altre testate. Ma Lorenzo Mazzoni è anche un romanziere, autore di noir sui generis come quelli che hanno per protagonista lo sbirro anarchico Pietro Malatesta e di coraggiosi romanzi mainstream di denuncia. È insomma autore ideale per spezzare la nostra fame di fantastico facendoci abbeverare alla fonte di un sano realismo. Seguiteci nei bassifondi di Istanbul e fra le sabbie dello Yemen.
La tua storia di scrittore: come si cresce e ci si avvicina alla lettura, il rapporto con la città natale.
«Il mio rapporto con i libri è iniziato molto presto, grazie a mia madre che ha cominciato a comprarmi libri di avventura, Salgari in particolare, quando avevo 6 anni. Poi sono venuti i fumetti di Tex e Ken Parker letti in balcone con mia nonna, gli atlanti geografici e a quattordici anni la scoperta di Pasolini, Kerouac, Bukowski e la poesia francese. Prima di tutto però è nato il mio rapporto con le storie. Mio nonno, un uomo che faceva il bibliotecario nel dopoguerra nonostante la sua quinta elementare, era un grande inventore di storie: ho passato intere giornate ad ascoltarlo mentre apriva libri illustrati di pittura e dava il via a mondi fantastici fatti di principesse, serpenti innamorati, scimmie affamate, contadini burloni. Era la Ferrara dei miei tre, quattro, cinque anni, un piccolo mondo antico dove c’erano ancora i partigiani, le feste de l’Unità, i bambini che giocavano in strada, il mercato con gli animali vivi, la Spal in serie B. Un mondo magnifico per un bambino a caccia di storie e avventura, e con una propensione a perdersi in mondi colorati. Ho iniziato a scrivere in prima superiore: poesie, un mucchio di poesie orribili, esaltato dall’eccesso adolescenziale e dai Doors. Non ho più potuto farne a meno. Tutte le volte che sono arrivato vicino alla morte (psicologica), la scrittura mi ha sempre salvato e ormai è diventata il più bello dei lavori. L’unico totalizzante».
All’università le idee politiche si formano, poi l’approccio al giornalismo. In questo ambito il tuo amore per le culture, il desiderio di immedesimarti, non guardare tutto da lontano, non giudicare per slogan.
«La politica è entrata presto nella mia vita. Provengo da una famiglia con una tradizione libertaria e antifascista. Da bambino si può dire che sia stato un bimbo dentro al Movimento: zii, parenti, amici di casa hanno accompagnato la mia crescita e molti di loro erano importanti figure intellettuali di quegli anni di lotta. A quattordici anni è stato dunque naturale per me entrare in un partito per poi uscirne qualche anno dopo, avvicinarmi al circuito dei centri sociali. Ho iniziato così a combattere una battaglia che porto avanti tutt’oggi armato della mia scrittura: credo fermamente che la letteratura debba essere di liberazione e non di evasione. I miei eroi, ieri come oggi, rimangono, oltre a Emilio Salgari, antimperialista per eccellenza, Ho Chi Minh, il generale Giap, Thomas Sankara, Camilo Cienfuegos, Buenaventura Durruti.
L’approccio al giornalismo è nato per caso ed è legato al viaggio. Ho iniziato a viaggiare da solo alle scuole superiori in treno e autostop, prima in Italia e poi in Europa. Poi c’è stata l’università, il viaggio in Marocco con il mio amico fotografo Tommy Graziani, i primi esperimenti di reportage, le prime collaborazioni con giornali e testate giornalistiche, i lunghi viaggi in Asia, i trasferimenti a Londra, Parigi, in Egitto, nello Yemen e infine a Istanbul, da dove sono stato espulso come persona non gradita dopo i fatti di piazza Taksim. Ovunque ho letto, mi sono documentato, ho parlato con le persone e ho scritto cercando di far conoscere i problemi quotidiani, di dare connotazioni non turistiche e il più possibile coerenti con le mie idee e non con il pensiero dominante. Mi attirano i fatti marginali, i quartieri periferici, il popolo. Ecco perché in questo periodo, dopo i fatti tristi di Parigi, mi arrabbio così tanto: troppe persone si elevano su un piedistallo per pontificare su culture e società che se hanno visto è stato dall’interno di un villaggio turistico. Per esempio, non è certo facile vivere in Paesi come lo Yemen, ma è anche un’esperienza straordinaria di umanità. Eppure quello che leggo in questi giorni è: tutti gli yemeniti sono jihadisti. Vorrei sapere quanti di queste persone si siano mai fermate a parlare cinque minuti con un venditore di qat nel suq di Sana’a, o con un tassista di Maʾrib».
Nel tuo cuore che Paese occupa lo spazio maggiore?
«Mi è rimasta nel cuore Istanbul più che la Turchia. Lavoravo con persone magnifiche, vivevo in un quartiere straordinario lontano dai flussi turistici, a stretto contatto con la vita di strada e la classe popolare – un tempo si diceva sottoproletariato. I ritmi della vita erano molto vicini alle mie corde e ho trovato il popolo istanbuliota pieno di una vitalità e un altruismo completamente scomparsi in Italia, nella decadente Lombardia dove sopravvivo. Anche Sana’a è rimasta nel mio cuore».
Come vive un cronista in zone considerate difficili? Come ti approcci?
«Lo Yemen è una nazione incredibile abitata da persone semplici e generose: insomma vive. Questo secondo me è molto importante. Quando guardo i pendolari in metropolitana ogni mattina mi rendo conto che non uccidersi è molto più difficile qui, in questa patetica società dei consumi globalizzati, che in qualche sperduto borgo curdo o nello Yemen del nord, dove il sequestro è lo sport nazionale. Se non hai come mito quello dei confort da hotel cinque stelle, la necessità di un McDonald’s e il bisogno di persone che parlano la tua lingua 24 ore al giorno, vivere o viaggiare in un cosiddetto “Paese difficile” è un’esperienza impagabile. Per me l’importante (parlo della mia emotività: non la reputo una regola universale) è allontanarmi dai turisti, se ci sono, alloggiare in mezzo alle persone che vivono quel particolare luogo, frequentare i posti dove loro mangiano, usare solo i mezzi pubblici o camminare. Studiare, studiare e studiare la cultura del posto. Non sarà mai abbastanza, ma, se non ci provassi, mi sentirei ancora più estraneo».
Se potessi, in che parte del mondo vorresti andare?
«Vorrei essere ancora a Istanbul, perché come dicevo prima avevo trovato una dimensione in cui stavo molto bene umanamente. Mi piacerebbe avere la possibilità di ritornare senza aspettare il 2018 e portarci tutta la mia famiglia».
Nei tuoi romanzi poliziotti e anarchia. Come si è evoluta la tua scrittura?
«Malatesta è nato quasi per caso. Mi stavo documentando sui Nar e sull’eversione nera di fine anni ’70 quando quei 4 poliziotti hanno ucciso Federico Aldrovandi. E’ successo a pochi metri da casa mia, a Ferrara, in un luogo, l’Ippodromo, a cui sono molto legato: lì è racchiusa buona parte della mia infanzia felice, lì vado a scrivere quando torno in città. La cosa mi ha colpito profondamente perché quei 4, oltre ad aver ammazzato brutalmente un ragazzo, hanno violentato un luogo, il mio luogo. E’ nato così Pietro Malatesta, sbirro anarchico. Un poliziotto contro corrente, ex ultrà della Spal, nemico giurato dell’ordine e delle regole, allergico ai razzisti e allo Stato per cui lavora. È stata la mia risposta all’omicidio Aldrovandi e i Nar, in quella prima indagine (“Nero ferrarese”) sono diventati un nuovo gruppo destrorso contemporaneo che si rifà a loro. Il libro è andato bene, io mi sono divertito a scriverlo e così sono nati gli altri romanzi. Per ora sono 6 e, solo nel 2014, sono stati acquistati quasi trentasettemila volte. Hanno anche vinto un premio importante. Con me lavora il mio socio, Andrea Amaducci, straordinario artista che illustra con le sue strisce l’inizio di ogni capitolo di tutte e 6 le indagini, una sorta di remake alla Salgari cercando sempre di schematizzare in una critica sociale disegnata quello che il lettore si troverà davanti. Mi viene molto facile scrivere le storie malatestiane, è il mio modo di affermare la mia ferraresità, mettere in campo la criticità, i difetti e le bellezze di una delle città più incredibili del mondo.
Nuovi progetti narrativi?
«A marzo uscirà il mio nuovo romanzo per le Edizioni Spartaco. È un testo cui tengo molto perché ho messo in campo molte mie passioni: la musica psichedelica, gli anni ’60, il conflitto vietnamita, il genere spy-story, la caccia ai nazisti, le sostanze allucinogene, la controcultura. Poi, prima dell’estate, dovrebbe uscire per Edizioni La Gru la raccolta di tutti i miei racconti scritti negli ultimi dieci anni. Per il resto sto imbastendo e scrivendo diverse cose: una storia corale ambientata nella Bosnia dilaniata dalla guerra, un’altra sullo sfondo di Istanbul e nuove indagini di Malatesta. C’è davvero tanta carne al fuoco».
Cosa pensi del momento attuale nel mondo e in Italia?
«Credo ci sia bisogno di un’appropriazione del potere da parte della cultura. Tutto il mondo è in crisi, ma l’Italia è in tripla-quadrupla crisi di valori. Siamo oltre la frutta, siamo alla lametta pronta sul polso. Guardo mio figlio e mi viene una grande rabbia per il Paese che gli stiamo lasciando. Bisogna lottare e quella lametta metterla alla gola di chi fomenta e finanzia questa crisi culturale. Scrivere libri che possano arrivare a tutti, ma non semplicistici: basta con l’evasione, c’è bisogno di liberazione. C’è bisogno di una “dittatura” della narrativa popolare».
Riflettendo sulle ultime parole di Lorenzo, giornalista controcorrente e ottimo romanziere, e sognando le sue Istanbul, Sana’a e Ferrara, vi lascio alla prossima puntata.
(*) Da 12 settimane Vincent Spasaro sta intervistando per il blog (ora blottega) autori-autrici, editor, traduttori, editori del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca dei misteri, se possibile anche del loro mondo interiore: Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi, Silvia Castoldi e oggi Lorenzo Mazzoni. Non finisce qui: fra i prossimi ci saranno Lippi (non Marcello) e Angelo Marenzana ma anche…. beh lo vedrete. Restate sintonizzati sul Marte-dì (db)
Grande intervista, Vincent. E un grosso grazie anche all’intervistato che non conoscevo e che leggerò quanto prima.
Vale la pena segnalare che il primo romanzo di Lorenzo Mazzoni è scaricabile gratuitamente su amazon.it: “Malatesta – Indagini di uno sbirro anarchico (Vol.1): Nero ferrarese”. Io l’ho appena fatto!