Narrator in Fabula – 25
dove Vincent Spasaro incontra Valerio Evangelisti (*)
Mi rifiuto di presentarvi Valerio Evangelisti. Chi non sa chi sia si becca con pieno merito una botta in testa di «Cherudek» in edizione brossurata. Va bene, ma solo due parole. Evangelisti a inizio anni novanta ha portato la narrativa italiana molte spanne più in là nella sua linea evolutiva. L’ha affrancata dalle pastoie dell’italietta provinciale dove il genere è sempre stato qualcosa di nauseabondo per gli intellettuali e una trincea da difendere con i denti per i lettori duri e puri. Non solo lui, ovviamente: ma probabilmente ha contato molto più Evangelisti in quest’opera di svecchiamento che i cosiddetti Scrittori Cannibali. Come? Mescolando giallo a romanzo storico, fantasy a fantascienza (orrore!), gotico a thriller, e facendo fiorire uno dei cattivi più cattivi e simpatici della storia della letteratura dell’ultimo secolo, quel Nicolas Eymerich, alter ego negativo dello scrittore, con cui mai e poi mai vorreste avere a che fare in un’aula di tribunale civile o religioso. Ho detto troppo. Passiamo dunque la palla al nostro inquisitore che con grande gentilezza si è sottoposto al fuoco (al rogo?) delle domande.
Com’è nata e si è sviluppata la tua passione per la lettura? I genitori, un professore illuminato? Un ambiente adeguato?
«I miei genitori erano insegnanti elementari, e mio padre diventò in seguito direttore didattico. Mi insegnarono a leggere prima della maggioranza dei bambini. La mia casa era piena di libri, ma il maggiore stimolo a leggere mi venne, credo, da “Topolino”».
Quanto la Bologna del fervore culturale e politico ha influenzato il tuo amore per la storia (hai scritto vari saggi) e le storie?
«Non è stata Bologna in sé, meno vivace di quanto si creda, quanto piuttosto la sua università. Quando la frequentai contava circa 100 mila studenti, in una città allora di 250 mila abitanti. Il corpo studentesco era quasi separato, e abbastanza malvisto dai miei concittadini. Invece era lì che si respirava vera cultura, contro gli stanchi e pomposi cerimoniali dell’ufficialità. Io scelsi l’“underground” e fu in quell’ambito che maturarono molti miei interessi».
Università, come hai vissuto quel periodo spesso cruciale per un narratore? Immagino militanza politica, apertura al futuro…
«E’ stato un periodo felice, almeno visto a distanza. Al radicalismo politico si associava una larga vita in comune. Scelsi anche, contro gli auspici dei miei genitori (che però opposero debolissima resistenza), la facoltà di Scienze politiche, ritenuta allora quella che offriva meno sbocchi lavorativi. Al di là dei corsi più o meno validi, costringeva a un approccio alle materie non convenzionale, con testi che per l’epoca erano di rottura».
Nei tuoi romanzi e racconti traspare chiaramente amore per rock e metal (basti pensare a «Metallo Urlante»). Sei forse uno dei primi italiani ad aver innervato i libri con la musica pop in senso lato, avvicinandoti alla narrativa statunitense e anglosassone dove il legame rock/scrittura è forte. E alcuni gruppi rock hanno dedicato addirittura dei concept a Eymerich. Ti va di parlarne?
«Partito con i Rolling Stones, approdai quasi con naturalezza al punk. Frequentai concerti (in Italia, ma anche in Inghilterra) che erano autentiche esperienze collettive, da cui si usciva trasformati. Il metal venne dopo, quando il punk declinava e si cercavano sonorità più raffinate. Mi affascinò il suo lato goticheggiante, molto in sintonia con certe mie fantasticherie. Oggi riesco ad ascoltare ben poco, ma di sicuro la mia passione di fondo resta il rock duro, anzi durissimo».
Hai fatto tua la lezione dei grandi autori anglosassoni contribuendo a rivitalizzare la stagnante scena italiana. Hai scritto di West, pirati, Messico della rivoluzione: luoghi mitologici spesso al di là dell’oceano. Qual è il tuo rapporto con la letteratura anglosassone?
«In realtà il mio rapporto primario è con la narrativa, popolare e non, in senso lato e senza frontiere. Lessi da ragazzo molto feuilleton francese, per esempio, e praticamente tutto Salgari. Successivamente lessi di tutto, di genere e non di genere, italiano, europeo o di altri continenti (uno dei miei libri favoriti era e rimane “I promessi sposi”, malgrado gli sforzi che fecero gli insegnanti di liceo per farmi odiare quel romanzo). Alla narrativa anglosassone giunsi per il tramite della fantascienza e, in parallelo, di Jack London e di molti narratori d’avventure. Seguirono Hammett, Lovecraft, Steinbeck, Sinclair Lewis, Betty Smith, Harper Lee e molti altri. Di alcuni ammiravo l’inventiva, di altri lo stile asciutto, di altri ancora il realismo sociale. Insomma ho alle spalle un coacervo di letture disparate, di cui gli insegnanti si lamentavano con i miei genitori (“Legge senza ordine”)».
Sei uno dei primi italiani ad aver mescolato generi (romanzo storico, horror, fantascienza, giallo ecc) in un periodo di etichette. Cosa pensi del mix al giorno d’oggi e delle polemiche su cosa siano fantascienza, horror e altri generi?
«Citerò la Tavola di Smeraldo di Ermete Trismegisto: “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo della cosa una”. La “cosa una” è la fantasia, che non è necessariamente distrazione dalla realtà concreta. A chi ama le distinzioni rigide, potrei chiedere dove si collochi “Pinocchio”: in alto o in basso?».
Quali sono i tuoi miti letterari? Quali autori ti piacciono oggi?
«Non credo che lo spazio dell’intervista permetta l’elencazione di centinaia di nomi. Di alcuni scrittori ho amato, oltre alle opere, la vita: il già citato Jack London, B. Traven, lo sfigatissimo Jean Ray. Mi piacciono molto i fuggiaschi, i vagabondi e chi è finito in galera, a partire da Villon.
Com’è nato Eymerich, la tua creazione che sconvolse noi lettori di Urania?
«E’ nato dalla collaborazione con un noto psicoterapeuta. Lo aiutai a scrivere un manuale. Giunto al capitolo “La sub-personalità schizoide” mi accorsi che quelle pagine mi descrivevano perfettamente. A quel tempo (primi anni ’90) stavo scrivendo, a beneficio mio e di pochi amici, un romanzo intitolato “Le campane di Eymerich”, poi divenuto “Cherudek” (lo finii, nella sua forma attuale, solo alcuni anni dopo). Eymerich, di cui avevo trovato il nome in una storia dell’Inquisizione, era una specie di fantasma. Decisi di dargli carne, ossa e per l’appunto caratteristiche schizoidi simili alle mie (di allora) ma estremizzate. Nacque così il personaggio letterario, che molti trovano credibile. Per forza: era modellato su me stesso!».
Cosa ricordi di quel successo che ti ha portato in poco tempo a essere conosciuto in vari continenti?
«Non capii subito che era un successo. La vita su Urania è effimera: si dura un mese in edicola e poi si sparisce. A volte per sempre, salvo che in cerchie ristrette. Per fortuna il mio fu l’Urania più venduto quell’anno (1994) e di gran lunga. Però un’autentica popolarità arrivò solo quando il Venerdì di Repubblica, alla ricerca di un romanzo inedito qualsiasi da pubblicare a puntate (cercavano un giallo) si vide proporre da Mondadori una versione condensata de “Il mistero dell’inquisitore Eymerich” (titolo originale: “Le correnti di Eymerich”). L’iniziativa ebbe fortuna, e da lì iniziò il resto. Quanto alla diffusione internazionale, va ridimensionata. Solo in Francia, e in subordine in Romania, la saga di Eymerich ha avuto un’accoglienza come quella italiana, o quasi. Il mio romanzo più tradotto universalmente resta “Magus”. Soltanto adesso, dopo avere fatto il giro di tutta l’Europa dell’Est, Eymerich sembra approdare in Inghilterra e negli Stati Uniti. Vedremo come andrà».
Nelle interviste sostenevi di volerti identificare il più possibile nella scrittura con questo tuo alter ego negativo. Da fan ho trovato successivamente molto interessanti i tre “Magus” e Pantera/Metallo Urlante. Ti sei allontanato da un personaggio ingombrante come Eymerich ma sei riuscito a creare protagonisti altrettanto epici e tormentati dentro scenari differenti. Vuoi parlarci del distacco temporaneo da Eymerich? Come l’hai affrontato?
«“Magus” ha una storia a sé. Fu un romanzo strettamente su commissione, mi fu proposto per l’avvicinarsi del cambiamento di secolo e di un’eclissi solare. Non mi ero mai interessato di Nostradamus e accettai solo per l’ingente compenso proposto (che mi permise di vivere, da allora, di sola scrittura). La collana era quella in cui erano usciti i romanzi di Christian Jacq su “Ramses”, roba da un milione di copie. Il mio primo volume di “Magus” ne vendette “solo” 107 mila e Mondadori lo giudicò un insuccesso (!). Il fatto è che il Nostradamus dipinto da me era molto differente da un eroe popolare. Moralmente ambiguo, pavido, si riscatta in parte solo nel volume III. Ciò perché mi ero basato, come d’abitudine, su ricerche strettamente scientifiche, e in particolare su quelle di un gruppo di studio dell’università di Ottawa. Hanno dimostrato che Nostradamus non previde proprio nulla e che, oltre a scopiazzare “profeti” antecedenti, trasfigurava in poesia eventi del passato. A ciò aggiunsi inserti puramente fantastici. Quanto a Pantera, ho voluto descrivere un personaggio più simile a me di Eymerich. Schizoide quanto l’inquisitore, però molto più umano, volente o nolente. Con riluttanza, finisce col farsi carico di sofferenze altrui. Ciò non costituisce una cesura con Eymerich. A occhi attenti, molti miei romanzi e racconti appaiono interconnessi».
Successivamente il tuo amore per la storia, spesso quella degli ultimi, è tornato alla ribalta coi cicli sul Messico e, più recentemente, sull’Emilia. Da personaggi molto forti a romanzi corali. Cos’è cambiato in Valerio Evangelisti?
«In realtà nulla, almeno credo. Va tenuto presente che ho un ventaglio piuttosto ampio di interessi personali, letterari e non. I due volumi sul Messico sono frutto del mio amore per quel Paese, in cui ho soggiornato più volte e a lungo. I tre tomi de “Il sole dell’avvenire” sono una specie di omaggio alla mia terra. Trattando di rivoluzioni e lotte sociali, richiedevano per forza la forma corale. La trilogia dei pirati, che è sotto il profilo storico molto curata, almeno nelle mie intenzioni, si riallaccia a mie passioni di gioventù. Chi la legga, si accorgerà facilmente che i supposti protagonisti dei tre romanzi non sono tali: sono più che altro testimoni degli eventi».
Recentemente hai superato seri problemi di salute e ne hai parlato pubblicamente in “Day Hospital”. Un tuo grande amico, Vittorio Curtoni, è rimasto vittima di problemi in qualche modo simili. La consapevolezza che l’esistenza, come sosteneva Chuck Shuldiner, sia una fragile arte, ti ha sicuramente cambiato. Cambiando anche la tua scrittura, l’approccio, i temi?
«Più che altro, quando c’era la possibilità che io vivessi ancora per poco, ho cercato di chiudere in fretta le narrazioni rimaste in sospeso. Lo si nota, credo, in “Rex tremendae maiestatis”. Poi invece ce l’ho fatta e ho ripreso il mio posto di combattimento. Vittorio Curtoni (uno dei miei maestri, come l’altro importante Vittorio della fantascienza italiana, Catani) è stato purtroppo colpito da una malattia più grave della mia. Non è però quella che lo ha ucciso: sono stati cicli di cure frequenti e pesantissime, a cui il suo cuore non ha retto. E’ morto non di cancro, ma di infarto».
Cosa pensi dello stato attuale e del futuro dell’editoria?
«Oh, sono cose che seguo da molto lontano. Non ho rapporti diretti con i “meandri” del mondo editoriale. I miei giudizi sarebbero superficiali e, quindi, di scarso interesse».
Cosa dobbiamo attenderci da Valerio Evangelisti?
«Un nuovo romanzo con Eymerich. Visto che sono vivo io, tanto vale che resti in vita anche lui».
ATTENZIONE AI NUMERI. Qualcuna/o ha notato che codesta serie procede così: 19, 20, 21, 22, 23, 25. Certa pignoleria ha voluto segnalare che mancherebbe il 24. Qui in “bottega” prenderemo in seria considerazione questa ipotesi di un numero saltato: un errore forse… o volutamente il 24 manca per ragioni maggggiche? o per farvi capire che c’è almeno un autore-autrice che si nega alle “grinfie” di Spasaro? Vedremo domani. Forse. Di certo questa intervista resta la 25. (comunicato emesso dalla sezione pitagorica della bottega il 3 febbraio dell’anno che in certe parti del mondo contano 2016)
(*) In un primo ciclo di «Narrator in Fabula» – 14 settimane – Vincent Spasaro ha intervistato per codesto blog/bottega autori&autrici, editor, traduttori, editori dalle parti del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca di profili, gusti, regole-eccezioni, modo di lavorare, misteri e se possibile anche del loro mondo interiore. I nomi? Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi, Silvia Castoldi, Lorenzo Mazzoni, Giuseppe Lippi e Cristiana Astori. «Non finisce lì» aveva giurato Spasaro. Ed ecco il secondo ciclo: dopo Angelo Marenzana, Gian Filippo Pizzo, Edoardo Rosati, Luca Barbieri, Giulio Leoni, Michele Tetro, Massimo Maugeri, Stefano Di Marino, Francesco Troccoli e oggi Valerio Evangelisti e la settimana prossima arriverà Alberto Panicucci. Sono previsti, sempre in disordine alfabetico, Sabina Guidotti, Sergio Altieri, Silvio Sosio e poi almeno un trio, forse un quartetto, un quintetto: inarrestabile Spasaro. (db)
Bellissima intervista, con domande vere, profonde e “sentite”. Mi hanno incuriosita soprattutto quelle sulla musica. Complimenti a Spasaro e, naturalmente, ad Evangelisti!