Narrator in Fabula – 35 (*)

dove Vincent Spasaro non potendo intervistare se stesso conclude (?) con un escamotage che non è un formaggio francese ma un abile espediente”cucinato” da Marco Passarello

Narrator-Vincent

Gli antichi filosofi si posero un giorno la seguente domanda, detta «paradosso del barbiere»: se il barbiere del paese rade tutte le persone che non si radono da sole, chi rade il barbiere? Come è noto, la domanda non ha una risposta. Esiste però una variante meno nota di questo enigma, detta «paradosso della bottega del Barbieri»: se l’intervistatore che ha intervistato buona parte dei grandi nomi della letteratura fantastica in Italia è a sua volta un autore di pregio, con alle spalle due romanzi pubblicati, ma ritiene imbarazzante intervistarsi da solo, chi lo intervisterà? Questa volta, fortunatamente, la risposta esiste: Marco Passarello intervisterà Vincent Spasaro.

  • Ciao Vincent! Domanda iniziale obbligatoria: quando hai cominciato a pensare a te stesso come a una persona che scrive (non dico scrittore, categoria cui molti in Italia giustamente esitano a iscriversi, visto che la scrittura professionale è una chimera)?

«Innanzi tutto, Marco, grazie per la tua intervista e la professionalità! La prima volta in cui ho pensato: “Si, posso mettermici d’impegno”, è stato quando ho spedito il mio primo romanzo al Premio Urania verso la fine degli anni 90 e Marzio Sandro Biancolino mi fece recapitare una lettera (di carta!) con giudizi molto lusinghieri dei lettori (anonimi) del Premio. Prima di allora non avevo mai preso sul serio la scrittura. A me piaceva semplicemente leggere romanzi, fossero mainstream, science fiction, classici o horror. Se trovavo una storia scritta, dovevo leggerla. La stessa idea di scrivere è venuta molto tardi, dopo la lettura di un romanzo allora appena uscito, “Nycholas Eymerich, inquisitore”, di… voi sapete chi».

  • I romanzi che hai pubblicato, «Assedio» e «Il demone sterminatore», corrispondono assai poco ai canoni del genere horror o fantasy. Secondo te il genere letterario è uno strumento utile? E lo è più per l’autore o più per il lettore?

«In effetti “Assedio” è un horror ma è anche fantascienza e hard boiled, mentre “Il Demone Sterminatore” è fantasy lovecraftiano, gotico. Oggi forse potremmo definirli weird. Credo vi sia sempre stata una forte esigenza di catalogazione da parte dei lettori, e starebbe all’editore spingerlo oltre i confini che lo stesso lettore si è posto (vedi l’esempio di Evangelisti pubblicato su Urania o il pregevole lavoro di Altieri sulla collana Segretissimo). Questo perché il genere non è una scatola rigida ma qualcosa di cangiante, che muta con l’evolversi dei gusti e delle sensibilità. Mi pare che gli editori si arrocchino sulle posizioni conquistate e difendano un fortino, sia esso il mainstream all’italiana, il noir all’acqua di rose o il thriller svedese. Un fortino vuoto perché la vita, anche quella narrata, non può essere confinata entro limiti rigidi. Se ci pensi tutte le novità vengono dall’estero, dove il mercato è sempre in ebollizione, mentre qui ancora si scrivono romanzi di maniera su una società che purtroppo non si comprende o contorsioni psicologiche che assomigliano all’analisi del proprio ombelico».

  • Che cosa ti dà la scrittura fantastica che non ti darebbero altri generi?

«Le storie sono tutte fantastiche perché la vita è fantastica nel bene e nel male. La realtà è del tutto inverosimile. Un amore è uguale all’altro? Quante volte senti dire che quell’autore importante ha usato il giallo o la fantascienza per parlare di questo e quello nel suo romanzo? Una puntualizzazione che i contemporanei certo non rivolgevano a Omero poiché erano perfettamente consci che il mondo fosse più vasto di quanto i loro occhi mostrassero. Addirittura la quotidianità prende spunto, anche nei suoi risvolti più oscuri, dalla finzione: considera ad esempio l’11 settembre. Noi italiani possiamo scrivere tutte le storie intimiste che desideriamo ma la realtà è molto più avanti. Guerra batteriologica, clonazione, astronavi che atterrano sulle comete: è realtà o fantasia? Io sostengo che più noi italiani ci incaponiamo a scrivere vicende piatte e ripetitive, sperando di essere verosimili senza essere veritieri, più ci infiliamo in un ghetto dal quale sarà difficile uscire».

  • Molti scrittori fantastici sono migrati nel campo del noir o del romanzo storico, meglio accetti dagli editori. Hai mai pensato di cimentarti in questi ambiti?

«Questa è un’ottima domanda. Per vivere al momento faccio un altro lavoro: scrivo quindi di notte e quando ho tempo. E sinceramente non vedo davanti a me rosee prospettive di cambiamento. Mi dicono che me la cavo bene coi miei romanzi, ma non si può andare avanti a pacche sulle spalle. Comprendo fin troppo chi ha preferito volare magari basso ma trovare una fetta relativamente sicura di mercato. Inoltre scrivere per la gente significa anche scendere a compromessi: narrare è un lavoro come un altro e, come molti lavori in Italia, deve essere inventato e reinventato perché nessuno ti regala niente. Non so però come me la caverei col noir: poi finisce che faccio a pezzi il mio personale Montalbano e sai che pasticci. Forse meglio continuare a narrare incubi del presente, del passato remoto e di un tempo che verrà».

  • Da giurato del premio Urania, so che oltre a quelli che hai pubblicato hai scritto anche diversi altri romanzi completi. Come riesci a essere così prolifico? E se un romanzo non trova pubblicazione lo metti da parte o continui a lavorarci?

«Il fatto è che adoro raccontare storie. Fosse per me, scriverei continuamente. Horror, thriller, hard boiled, fantasy, gotici, gialli, fantascienza: non mi pongo limiti. L’unica cosa che m’interessa è stupire e stupirmi, un po’ come quegli illusionisti che sfornano continuamente trucchi nuovi per tenersi in esercizio. Ho pubblicato recentemente romanzi scritti quindici anni prima, ma alle volte mi sono dovuto arrendere. Un romanzo che ho scritto per Urania ormai sedici anni fa e che forse conosci sta sempre lì a languire perché non vedo grandi possibilità di pubblicazione. Un po’ mi dispiace ma l’unica cosa che posso fare è guardare avanti: magari un giorno qualcuno mi chiederà anche i vecchi inediti. Ehi, c’è qualche editore che si propone?».

  • Sei il tipo di scrittore che non fa una riga senza avere una scaletta dettagliata o quello che quando comincia non ha la più pallida idea di cosa succederà a pagina 2?

«Secondo me la narrativa è una professione esattamente come le altre, con le sue regole. Un ingegnere può costruire un palazzo senza un progetto? Ecco, io non credo che esistano romanzieri che non sceneggino almeno un po’. E, se qualcuno non lo fa, il lettore se ne accorge. La creatività ha senso solo all’interno di una gabbia di regole. La creatività assoluta è profondamente soggettiva e quindi non adatta alla fruizione. Spesso è piuttosto la giustificazione di un fallimento professionale».

 

  • Qual è il tuo rapporto con i lettori? Ti fa piacere fare presentazioni, o preferiresti farne a meno? Hai un ritratto del tuo lettore ideale?

«Le presentazioni mi piacciono molto perché mi diverto a parlare in pubblico e a dialogare ma, secondo me, non servono a promuovere un romanzo se non è stato adeguatamente spinto dalla casa editrice. Si limitano spesso a incontri autoreferenziali che soddisfano più l’ego dell’autore che le sue tasche. Non credo di avere un lettore ideale: mi hanno scritto ragazze diciottenni e maturi signori esperti di fantascienza. In genere credo di colpire persone che desiderano qualcosa di nuovo, che non si ritrovano troppo negli schemi. Lettori che non vogliono la solita minestra riscaldata. Ehi, adesso che ci penso, tutti gli autori dicono la stessa cosa».

  • E invece la critica? In generale pensi di avere avuto sufficiente attenzione? Pensi che i tuoi romanzi siano stati compresi?

«Come noi autori abbiamo il dovere di essere professionali pure in assenza di vero professionismo, ci dovrebbe essere una deontologia anche da parte della critica. Coloro che hanno chiesto e ottenuto i miei romanzi hanno espresso un giudizio fin troppo lusinghiero e ne sarò sempre grato. Non posso fare a meno di notare però che molti giornali, periodici, blog di presunti amanti del genere ancora oggi a domanda rispondono: “Spasaro chi?” Quanta gente legge horror, fantasy o fantascienza? Già siamo in pochi: senza corretta informazione e una critica all’altezza, rimarremo sempre provincia. Mi piacerebbe da parte dei recensori italiani maggior senso critico e anche capacità di rischiare. Leggete, leggete e ragionate, non interessatevi solo ai vostri amici o a chi pensate vada di moda al momento. L’omologazione produce appiattimento e la sciatteria distrugge l’ambiente».

  • Di recente è uscita l’antologia «Alia Evo 2.0», contenente anche il tuo racconto «Navigatori delle lunghe distanze». Ci parli del tuo racconto e dell’esperienza con Alia?

«Sono stato “arruolato” in Alia dal grande amico e ottimo scrittore Fabio Lastrucci: mi ha presentato ai curatori, Massimo Citi e Silvia Treves, che da anni portano avanti un discorso meritorio sulla narrativa fantastica pubblicando autori stranieri e italiani in antologie di grande qualità. Ho spedito loro vari racconti e ne hanno scelti due: l’horror fantastico “L’arsenale dei cuccioli” per Alia Evo del 2014, che era uscito già nel 2009 sulla rivista “Pollicino”, e il fantascientifico “Navigatori delle lunghe distanze” per il nuovissimo Alia Evo 2.0 (lo trovate qui). “Navigatori” era già uscito su “Cronache di un sole lontano”, la rivista digitale dello storico curatore delle edizioni Nord e Fanucci Sandro Pergameno, ed è un omaggio alla fantascienza del viaggio spaziale e della grande scoperta. Qui sono in compagnia di tanti amici e talenti. Un po’ mi atterrisce trovarmi fianco a fianco con Danilo Arona o Vittorio Catani, autori per me leggendari, che ho amato ben prima di scrivere: “L’Estate di Montebuio” e “Gli Universi di Moras” sono ai vertici del fantastico italiano. Non voglio citare gli altri perché dovrei stilare un mero elenco essendo tutti davvero bravi. Credo che dentro questa antologia si possano trovare molti grandi di domani».

  • La narrativa fantastica in Italia è stata quasi completamente abbandonata dalle grandi case editrici ed è diventata appannaggio di editori molto piccoli, semiamatoriali o addirittura amatoriali. Questo da un lato ha dato spazio a iniziative di grande qualità, curate con una passione che va al di là dell’immediato interesse commerciale; ma dall’altro ha fatto diffondere molto materiale di livello infimo. Secondo te cosa ci riserva il futuro, e quale tendenza prevarrà?

«Purtroppo, essendo parte in causa, fatico a rispondere in maniera obiettiva. Chi è disposto ad accollarsi il rischio di selezionare in base alla qualità e inserire nel mercato i talenti? Il problema, secondo me, è costituito dall’assenza di un mercato moderno. Se penso a quanti grandi autori sforna ad esempio ogni anno l’Inghilterra, resto basito dal gap che ci divide dai grandi mercati europei. Diciamo la verità: non è vero che abbiamo molti fuoriclasse. Ce ne sono ma pochi, e in ogni caso non quanti sarebbe lecito attendersi da una nazione occidentale di sessanta milioni di abitanti. È inutile fingere di essere legione: non è così. In una situazione stagnante resta in piedi non il più bravo ma chi ha tempo libero, conoscenze e spesso soldi per fare marketing. Alla fine sono convinto che i migliori possano farcela e che i mediocri al potere verranno spazzati via, ma il problema resta la fascia media. Non bisogna esultare per i grandi, per gli Evangelisti e gli Arona, per gli Altieri, i Carrisi eccetera. Si deve cercare di capire perché non vi siano sotto di loro tanti autori di pregio. È la fascia media, spesso quella degli esordienti, che rivela se il re è nudo».

  • A me sembra che la necessità numero uno per il fantastico in Italia sia quella di costruirsi un pubblico in grado di apprezzare la qualità. Sei d’accordo?

«Completamente. Mi pare di vedere un analfabetismo di ritorno. La gente vuole leggere sempre la stessa storia, se possibile poverissima nella trama e nel linguaggio, ancor meglio un remake se non un plagio. Non eravamo la terra delle lettere e, più recentemente, del grande cinema? Tarantino esalta i capolavori italiani di genere che per anni la critica paludata ha considerato pessimi. Dimmi cosa si trova in giro che possa rivaleggiare coi grandi del passato anche recente. Eppure, se ci pensi, oggi continuano a vendere capolavori del fantastico come “Il barone rampante” di Calvino e “Il deserto dei tartari” di Buzzati a decenni e decenni dalla loro pubblicazione mentre molti romanzi coevi esaltati dalla critica di allora non li ricorda più nessuno. Resto convinto che la materia prima ci sia, ma che la stiamo distruggendo a picconate perché una nazione analfabeta può bersi tranquillamente la storia delle scie chimiche, dei vaccini che fanno male e degli immigrati che ci rubano il lavoro. Una nazione anestetizzata può essere colpita meglio».

  • Quali sono i romanzi e gli autori che ti piacerebbe veder tradotti in Italia, e invece latitano?

«Non mi considero un grande esperto, per cui non sono al corrente di tutte le novità dei mercati stranieri. Mi piacerebbe rivedere il grande Holdstock, piuttosto trascurato dall’editoria italiana, e che fosse riproposta in maniera ragionata l’intera opera di Simmons. Anche su Miéville siamo in ritardo. Soprattutto vorrei leggere autori che spaziano per tutti i confini del cosiddetto “weird”. Torniamo al problema dei generi: se non riusciamo a stampigliare un cartellino addosso a un autore, da noi è praticamente morto».

  • In questa serie di interviste hai parlato, se non erro, con 34 fra le persone più interessanti nel campo della narrativa fantastica. Ci dici cosa ti ha sorpreso di più in queste interviste e se pensi che qualcuna in particolare ti ha offerto spunti per il tuo lavoro di scrittore?

«L’idea di base era entrare nel mondo interiore degli autori, degli editori, dei traduttori e di tutti coloro che si occupano di letteratura di genere. Per forza di cose ho dovuto limitarmi e mi scuso con chi ho lasciato fuori. Mi hanno stupito ad esempio i racconti esoterici di Danilo Arona e i bellissimi ricordi d’infanzia di Lippi o Miglieruolo, l’ingenuità di “Jessie James”, la disillusione del “Nero” Nerozzi, l’autoironia di Masali, ma tutti gli intervistati hanno messo un po’ di se stessi in questi dialoghi. Ecco, di questo sono contento: ho contribuito a raccontare storie di donne e uomini, e non ringrazierò mai abbastanza Daniele Barbieri che mi ha permesso questa carrellata di ritratti».

  • Domanda finale obbligatoria: a cosa stai lavorando adesso?

    «Ho davvero molta carne al sangue… Ehm, volevo dire al fuoco. L’unico mio avversario potrebbe essere l’editoria italiana, ultimamente in fase depressiva. Orsù, signori editori, non avete voglia di leggere e far leggere qualcosa di veramente disturbante e divertente? Vi aspetto qui insieme alle schiere infinite di lettori che chiedono a gran voce un mio nuovo romanzo. E grazie, Marco, per questa meravigliosa chiacchierata».

(*) Trentacinque settimane son lunghe a passar? Per chi ha fatto le interviste, magari braccando chi cercava di sottrarsi, certamente sono state luuuuuuunghe e faticose. Ma a chi ha goduto di quel lavoro sono parse veloci e piacevoli. Vincent Spasaro ha intervistato per codesta “blottega” autori&autrici, editor, traduttori, editori dalle parti del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che si trova in “qualche altra realtà”… alla ricerca di profili, gusti, regole-eccezioni, modo di lavorare, misteri e se possibile anche del loro mondo interiore. In un primo ciclo di «Narrator in Fabula» gli incontri ravvicinati di “terzo grado” toccarono a Danilo Arona, Clelia Farris, Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, Maurizio Cometto, Lorenza Ghinelli, Massimo Citi, Gordiano Lupi, Silvia Castoldi, Lorenzo Mazzoni, Giuseppe Lippi e Cristiana Astori. Nel secondo ciclo, che si chiude oggi, l’infaticabile Spasaro ha torchiato Angelo Marenzana, Gian Filippo Pizzo, Edoardo Rosati, Luca Barbieri, Giulio Leoni, Michele Tetro, Massimo Maugeri, Stefano Di Marino, Francesco Troccoli, Valerio Evangelisti, Alberto Panicucci, “Jessie James”, Silvio Sosio, Luca Masali, “Rick DuFer”, Gianfranco Nerozzi, Mauro Antonio Miglieruolo e Sabina Guidotti… Mancano un paio che, per motivi diversi, hanno accettato per poi scoprire che non avevano il tempo o la serenità per una lunga intervista. In tutto 34 e non più. Il 35° giorno il raccoglitore di narrator/narratrix si sarebbe riposato se non fosse accaduto quel che qui sopra avete constatato, cioè di essere a sua volta “torchiato”. Ci sarà un 36° giorno? Chissà. Fra i lettori e le lettrici vi è chi ricorderà «Il dio del 36° piano» nel racconto dell’omonima antologia: rammentate anche chi era quel “dio”? Eh già. Ecco foooooorse perché non sappiamo se, in questa dimensione spaziotemporale, ci sarà una puntata 36, 37, 38 o 39 come gli scalini di quel vecchio film. Ma finché “di Marte si parte” la speranza resta. Intanto grazie a tutte/i, soprattutto al titanico barbiere Vincent e a chi oggi gli ha fatto il “contropelo”. (db)

Redazione
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Un commento

  • Ho chiesto a Daniele di togliere una domanda e una risposta che ritenevo sacrosante ma che pare mi espongano a rischio querela nonostante abbia raccontato null’altro che i fatti.
    Non posso fare a meno di notare come il sistema Italia sia totalmente squilibrato.
    Le vittime non possono denunciare i carnefici pena querela.
    Mi scuso comunque coi lettori e con l’intervistatore per l’autocensura.

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