Narrator in fabula? Settima puntata
Dove Vincent Spasaro intervista Maurizio Cometto (*)
Forse è la dimostrazione più lampante di come il nostro Paese abbia scarsissimo interesse per le sue voci più originali;come altro si spiegherebbe altrimenti il velo che nasconde quasi del tutto Maurizio Cometto a chi in libreria cerca qualcosa di davvero ben scritto?
Cometto ha un grosso punto “debole”: è uno scrittore che non s’identifica con la letteratura fantastica e mainstream dominante ma persegue con estrema coerenza la sua visione narrativa. Lo potremmo definire un autore del realismo magico, un curioso e affascinante realismo magico torinese-piemontese. Eppure, per certi versi, è anche erede di Calvino, Landolfi e Buzzati, quindi ben calato nel solco della letteratura fantastica italiana del secolo scorso. La sua prosa pulita e raffinata, le sue storie in cui il fantastico si insinua lentamente nella realtà piacerebbero a un pubblico molto ampio, probabilmente anche a quello meno avvezzo al senso del meraviglioso. Non diamo la colpa alla crisi: un mea culpa da parte degli editori sarebbe d’obbligo. I suoi splendidi libri («Il costruttore di biciclette», «L’incrinarsi di una persistenza» e «Cambio di stagione») sono tutti editi da Il Foglio, casa editrice piccola quanto combattiva: Cometto stesso è una delle tante scoperte di quel grande talent scout che è il suo editore, Gordiano Lupi.
Ed essendo Cometto persona molto schiva e riservata, non è stato facile strappargli qualcosa dei suoi segreti.
L’universo fantastico che esplori nei tuoi racconti e romanzi è molto diverso dalle correnti oggi affermate in Italia. Un fantastico letterario, colto. Come si è formato questo universo, come hai adottato temi tanto personali?
«Innanzitutto grazie della definizione “fantastico letterario, colto”. In realtà molto spesso i temi che affronto nei miei scritti nascono da una strana miscela che vede la passione per il fantastico tout court mischiarsi a inquietudini personali scaturite più o meno dall’inconscio. In genere l’idea con cui mi metto a tavolino e parto a scrivere è frutto di ragionamenti e concatenazioni anche logiche; spesso viene sporcata o stravolta durante la scrittura da nuove idee e da svolte che nascono appunto dall’inconscio. Non sempre la nuova direzione è quella giusta ma, se succede, l’opera che viene fuori ha spesso un quid in più. Penso sia qualcosa che riguarda l’atmosfera o il legame fra psicologia dei personaggi, ambientazione e meccanismo fantastico. È come se scrivendo precipitassi in uno stato in cui riesco a far parlare in modo figurato la parte nascosta di me. Dal punto di vista dei temi, forse c’entra anche il fatto che ho iniziato a scrivere proprio nel periodo in cui scoprivo gli scrittori argentini del fantastico e in particolare Cortàzar. Credo che fra tutti siano loro ad avermi dato l’imprinting più forte: il fantastico come possibilità letteraria di aprire nuovi mondi e nuovi significati che s’innesta sulla realtà e la rinnova. Per me il fantastico non è un genere ma la possibilità di avere più spazio, una tavolozza più ampia.
Si ha la forte impressione che la prospettiva da cui guardi la vita sia legata al mistero e all’inconoscibile. Eppure sei un ingegnere di formazione, quindi vivi di scienza e tecnologia. Com’è possibile conciliare punti di vista così distanti?
«Penso che le persone vivano di contrasti e spesso traggano la loro ricchezza proprio da questi. Nel mio caso la strada ingegneristica, che rivela il lato del mio carattere attratto dall’ordine e dal rigore, nasce soprattutto dalla grande passione che ho sempre avuto per la matematica. La strada dello scrittore invece ha le sue radici nell’amore per le storie, per la fantasia e soprattutto per il mistero. Non è detto che le due strade siano inconciliabili, anzi (si pensi a Lewis Carroll, per esempio, o ai tanti ingegneri scrittori che s’incontrano fra gli scaffali e senza scomodare Gadda). Fra l’altro, in una certa armonia con l’uovo Yin-Yang, spesso una delle due metà si intrufola nell’altra per lasciarvi un segno. Da qui forse deriva un amore per le trame simmetriche e circolari che si può ritrovare in quasi tutte le cose che ho scritto. Amore per la forma intesa non come stile bensì come creazione geometrica del racconto compiuta e autonoma, capace di sopravvivere nella coscienza del lettore. In quest’idea di racconto (un procedimento meno facilmente applicabile al romanzo) sono ancora una volta molto “cortàzariano”».
Hai la tendenza a creare luoghi fantastici, contenitori dove spazio e tempo sono curvati ai tuoi voleri, fratture energetiche dove il mistero può sgorgare. Qual è il motivo di questa concentrazione dello spazio fantastico?
«Dal punto di vista dell’ambientazione i miei romanzi e racconti si possono suddividere grossomodo in due filoni. Da un lato ci sono quelli “Magnivernesi”, in cui in genere i protagonisti sono bambini o ragazzi. Magniverne in effetti rappresenta la mia infanzia, il paese in cui sono nato e ho vissuto fino ai vent’anni. Mi hanno sempre affascinato e colpito una certa chiusura verso l’esterno, tipica dei borghi piccoli, e il contorno naturale di boschi e valloni (che circondano il mio paese natio) i quali ai miei occhi di bambino racchiudevano misteri irraggiungibili, fatti di strane creature, di orchi emarginati e di passaggi dimensionali. Dall’altro ci sono quelli “torinesi” che prendono le mosse invece dalla mia esperienza di uomo adulto in una grande città, filtrata sempre con le lenti del fantastico. Le “fratture energetiche” di cui parli, che irrompono nello spazio fantastico, non sono altro che il tentativo di rappresentare su carta l’idea del confine che esiste fra la realtà, vale a dire grossomodo ciò che percepiamo con i cinque sensi e con la memoria, e quanto invece si trova oltre. Queste fratture, questi lampi improvvisi, sono simili a un distacco della retina che coinvolge la realtà stessa, e che si potrebbe anche definire come il sollevarsi del velo di “Maya l’illusione” per dirla con gli induisti. Cosa c’è dietro? Forse non importa, forse non lo sapremo mai, forse nulla. Di certo, secondo me, molte proiezioni del nostro inconscio. Ed è questo che mi affascina, oltre al senso di mistero che genera una tale possibilità.
Argomento che torna spesso nei tuoi scritti è quello astrologico. Come guarda l’universo Maurizio Cometto?
«Mamma mia, questa è una domanda da un milione di euro. Se sapessi davvero come guardo l’universo, avrei trovato il segreto della mia vita, la chiave di tutte le porte verso la felicità. Perché, per dire con chiarezza come guardi l’universo, devi sapere dove ti trovi, quanto forte è la tua vista e la direzione verso cui stai guardando. Ecco, l’astrologia è un linguaggio che prova a dare un’idea di queste coordinate e aiuta nella strada verso l’autocoscienza; le potenzialità di una persona, il modo e le aree della vita in cui le può esprimere al meglio. So che essere insieme ingegneri e appassionati di astrologia può apparire un controsenso ma non è così. Scienza e astrologia sono due cose totalmente differenti. La scienza guarda da vicino le cose per cercare di capirne il funzionamento e applica il metodo scientifico. L’astrologia e altre discipline esoteriche, come in fondo anche la filosofia e la psicologia, guardano molto più da lontano, sintetizzano invece di analizzare, e cercano la qualità in luogo della quantità, il colore invece della dose, il significato invece del funzionamento. In questo senso sono molto junghiano, e trovo che il grosso errore sia quello di applicare il metodo scientifico all’astrologia, o viceversa far entrare nelle cose scientifiche il pensiero “per analogia” – da qui il proliferare di astrologi che si atteggiano a scienziati, o di santoni pseudoguaritori ecc. Tornando alla domanda, mi viene in mente una bellissima idea che sta alla base di alcuni romanzi di Jonathan Carroll: l’umanità non è altro che un grande mosaico il cui disegno complessivo ha un senso particolare. Ognuno di noi ne è una tessera. Ci sono tessere che sembrano apparentemente tutte uguali, altre che appaiono uniche, diverse da tutte, altre ancora che stanno al centro, altre in periferia. Eppure ciascuna è unica e insostituibile poiché, senza una sola tessera, il mosaico perderebbe la sua totalità e dunque il suo significato. Ecco, in questa immagine c’è molto di come vedo io l’universo. Ciascuno di noi, nel suo piccolo, con la sua esperienza particolare e unica, porta il suo contributo al grande disegno complessivo, che magari ci sfugge, ma che esiste».
Mi piacerebbe conoscere la tua crescita letteraria, influenze, mitologia personale. E quanto il Piemonte montano, terra di confine, abbia pesato sul tuo immaginario.
«Per quello che riguarda la crescita letteraria, ho avuto un percorso che non ha seguito una linea precisa. La mia formazione sin dalle scuole superiori è stata di tipo tecnico, per cui dedicavo le mie letture al puro svago e divertimento. Le passioni della mia adolescenza sono state i fumetti, soprattutto Disney (Barks e Scarpa) e Bonelli (Martin Mystère e Dylan Dog) e – strano ma vero – i gialli classici all’inglese, che divoravo, fra i quali il mio preferito ancora adesso rimane John Dickson Carr. Credo che soprattutto il modo di sceneggiare di Castelli, ancor più che Sclavi, con certi trucchi e atmosfere “carriane” siano rimaste nel mio Dna di scrittore. Leggevo anche altri autori come Stephen King. Solo più tardi mi sono aperto davvero alla letteratura tout-court e ho scoperto autori classici come Cechov, Maupassant, gli argentini del fantastico, Karen Blixen, Joseph Roth, che sono diventati miei numi tutelari insieme a un autore come Philip Dick, che mi ha influenzato tantissimo, o ancora Clive Barker oppure in Italia classici come Calvino, Buzzati, Landolfi. Senza dimenticare autori di fumetti come il Gaiman di «Sandman», l’Alan Moore di «Watchmen», Will Eisner, Spiegelman, Oesterheld e tanti altri.
Rispondendo alla tua domanda sul Piemonte, mi hanno influenzato molto, oltre agli scorci e ai paesaggi di questi luoghi, il retroterra contadino della mia famiglia e la ritrosia tipica delle genti che abitano nelle vallate. Esistono scrittori piemontesi che hanno saputo farne rivivere lo spirito e il mito in modo forse inarrivabile, penso agli inavvicinabili Pavese e Fenoglio ma anche – più di recente, e in ambiti più vicini a me – a gente come Arona con le sue storie che affondano nelle paure ancestrali legate al territorio, o anche a un De Filippi con i suoi incubi più urbani e psicologici».
Non posso fare a meno di sollecitarvi a leggere le splendide storie di Cometto, soffuse di magia, angoscia e meraviglia. Il suo fantastico delicato, alle volte straniante e spaventoso, sempre stupefacente, è una delle punte di diamante della narrativa italiana contemporanea.
(*) Quota 7, come le 7 paia di scarpe necessarie a percorrere le 7 leghe (ma leghe è minuscolo per carità) per trovare le 7 principesse o i 7 tesori delle fiabe. Vincent Spasaro intervista per il blog autori-autrici, editor, traduttori, editori del fantastico, della fantascienza, dell’orrore e di tutto quel che è fantasia, alla ricerca dei misteri del loro mondo interiore. Prima di Pergameno il blog ha ospitato le chiacchierate con Danilo Arona, con Clelia Farris, con Fabio Lastrucci, Claudio Vergnani, Massimo Soumaré, Sandro Pergameno, oggi con Maurizio Cometto… E prossimamente? Nei 7 calzini termoterapeuticitelepatici che tengo nelle 7 scarpe delle 7 leghe (minuscolo per caritàààààà) sento una vocina che dice Lorenza Ghinelli. Però siccome sono un po’ sardo ma anche un po’ sordo … vedremo fra 7 giorni se ho inteso bene. (db)