Negras et Zingaras

di Natalino Piras

Nico Orunesu, Fata, 1999. Tempera, gesso e sabbia su juta, tela e cartone

Tituba, la nera schiava caraibica al servizio del reverendo Samuel Parrish, è personaggio su cui ruota la caccia alle streghe a Salem, nel 1692.

Da Salem, Tituba ci riporta al tempo dell’Inquisizione in Sardegna. Sfondo comune per i due universi geograficamente distanti, il Massachusetts e la Sardegna, sono un secolo e una situazione.

Il secolo è il Seicento, “il massimo sviluppo della caccia alle streghe in Europa”. La situazione è Mastru Juanne, fame e carestia che unite a incendi e terremoti provocano l’isteria collettiva delle “vergini di Salem”, quelle che faranno impiccare tante streghe e brujos e far languire nelle carceri molti innocenti. Per dire del tempismo, Susanna Martin, una delle brujas di Salem inquisite da John Hathorne, antenato dello scrittore Nathanael, fu processata il 29 giugno 1692 e afforcata il 19 luglio.

L’ignoranza e il diavolo nelle sue varie forme e manifestazioni sono altri comuni denominatori.

A Salem, il diavolo padrone, si esprime nei riti magici importati dalle Barbados da Tituba. Nella Sardegna del Seicento c’è una Cecilia, negra schiava di un Giovanni Gallo, portata dalle Indie portoghesi, a stare nella camara del tormento. Fu torturata e portata a un autodafè nel 1622 prima di finire servente all’ospedale di Sassari. L’accusavano di troppo digiuno, nell’eresia mistica della bruja medievale Margherita Porete, e di trasformarsi in stella.

Le altre accuse non si differenziano da quelle mosse a gitanas e maliarde: magie, superstizione, miseria, repressioni. E sesso. E sogni e visioni mentre Mastru Juanne continua implacabile il suo operare accompagnandosi alla nera signora con la falce, brussa delle brusse.

Il popolo invece continuava a mantenersi “fedele alla religione cristiana anche se questa, per la carenza di un insegnamento illuminato e consapevole, non poteva penetrare a fondo nel vissuto quotidiano”.

Pure le brujas continuavano a esserci: Caterina Curcas e Caterina Mafulla di Castel Aragonese, Angela Calvia di Sedini, propinqua alla Valle dell’inferno, e Brunda Sanna di Oristano. Quest’ultima di mestiere tesseva al telaio ma era pure una maga echizera. Il Sant’Uffizio la sentenziò quando Brunda aveva 62 anni. Dopo l’abjura de levi, la vecchia strega fu disterrata dalla sua città. Le accuse di hechizeria riguardavano la fusione del piombo in un recipiente e la ripetizione della formula Istrinas, Istrinas qui no moridi detta per un malato che invece morirà.

Un’altra volta un uomo temporaneamente impotente si recò dalla bruja hechizera chiedendole di liberarlo a sua volta da una malia che altra strega doveva avergli fatto. Brunda prese un vaso di vetro, lo riempì d’acqua e vi gettò dentro un reale d’argento insieme a una chiara d’uovo. Poi si prodigò in ampi segni di croce sopra il vaso. L’impotente guarì e andò a riferire ad altri che si presentarono all’antro della bruja.

A Brunda Sanna venivano anche donne inferme de la matriz, malate all’utero. La hechizeria consisteva allora nel mescolare ritualmente una camicia dell’inferma, una candela di cera, un pezzo di piombo e acqua marina.

“Acqua di mare acqua di pozzo Antonio col gozzo” recitava una filastrocca infantile arrivata in molti paesi sino a Novecento inoltrato. “Antonio Antonio il cavallo ti muore”. Come non ricorrere alla bruja perché non morisse? L’Antonio della filastrocca poteva magari avere come archetipi veri i brujos secenteschi che avevano nome Sisini Sata Abramo, pastor de vacas di Buddusò che dall’Inquisizione fu condannato a 200 frustate e 5 anni di remo perché si finse vedovo in modo da sposare la donna che gli diede cinque figli. Oppure l’altro bigamo Giovanni Battista Poddiana, solo un anno di galea. Altri bigami condannati al remo furono Leonardo Pillito di Cossoine, un “povero Melis” e un Michele Fiori di Cagliari. C’è poi un Domenico Corona alias Pietro Cabiddu di Villasor, penitenziato in un autodafè del 1678, 200 frustate e 7 anni di disterro.

Lo hechizero Cabiddu tra le altre malefatte ne aveva combinata una che ricorda un classico di Mussingallone, personaggio folklorico, quando convince gli stolti a togliere da sotto e metter sopra lo sgabello mancante alla pira di una traballante torre. Lo hechizero Cabiddu disse ad uno che aveva difficoltà “a congiungersi carnalmente con la moglie” di togliersi le scarpe, di salire sulla scala della torre e di fermarsi all’ultimo gradino. Poi, perché la cosa potesse funzionare, bisognava per tre volte fare il giro della chiesa, “nudo in pelle di mamma”. Il diavolo ci godeva in queste situazioni.

Così Tituba, che pure scampò il supplizio, nel carcere di Salem, nell’ora che altri condannati stanno per essere condotti alla forca, nel rullo sinistro dei tamburi: “Portami a casa, Diavolo, portami a casa. Andiamo alle Barbados. Ora viene il Diavolo e ci porta le penne e le ali. Oh, niente inferno alle Barbados. Nelle Barbados il Diavolo è un uomo allegro; lui canta e balla, nelle Barbados. Siete voi da queste parti a farlo arrabbiare; fa troppo freddo qui per quel Bravo Ragazzo”.

A Salem, la caccia alle streghe “fu una tremenda manifestazione di panico che si diffuse in tutte le classi quando la bilancia incominciò a pendere in favore d’una maggiore libertà individuale”. È che ancora oggi, “l’uomo non è in grado di organizzare la sua vita sociale” senza inventarsi streghe. A Salem, “gli odii tra vicini, soffocati per lungo tempo, potevano finalmente avere sfogo vendetta. Si poteva insomma accusare di stregoneria il proprio vicino e sentirsi perfettamente giustificati. La diffidenza e l’invidia dei poveri verso i più ricchi poterono esplodere in una vendetta generale”.

Quel 1692 di Salem è sempre molto più contiguo di quanto si creda.

Natalino Piras, da Brujas, 2006, Fratelli Frilli editori

https://www.facebook.com/natalino.piras

Immagini: Nico Orunesu

 

 

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