Nel ventre
Un racconto di Riccardo Dal Ferro – illustrazione di Marco Pasin
La pioggia continuava a riversarsi sulle pozzanghere cittadine già tracimanti d’acqua.
Ridondanza del tempo.
Ezra Jones era convinto di udire l’eco della tempesta vociare violenta nel ventre di quella città. Immaginava quei cunicoli contorti come fossero l’intestino di un mostro dormiente, la schiena lavata da un cielo devoto a quella mole mostruosa, il cemento a far da pelle alle interiora scavate nella terra. Il suo ruggito quella notte era sopito, ronzava nell’atmosfera permeata di elettricità come il fiato del Moloch in letargo.
Sacralità del sottosuolo.
Garcia se ne stava nascosto, ombra tra le ombre, il suo profilo si stagliava indistinto accanto alla parete di un palazzo imbambolato. Osservava la strada, attendendo che la sua preda uscisse allo scoperto, ma si era concesso il lascivo piacere di una sigaretta, il cui fumo avrebbe potuto tradire quel suo delicato appostamento. La città era silenziosa, una mistica assenza di rumori profanata solo da quel bombardamento incessante. Una goccia cadde sulla punta della sigaretta di Garcia, spegnendola, rendendola inservibile, monito che egli colse in tutta la sua saggezza: gettò a terra il mozzicone fradicio e riportò la sua attenzione all’atrio vuoto della Union Square Bank.
La città l’aveva avvertito, quella notte non ci sarebbe dovuto essere alcun errore, nessun passo falso. Il Piano era stato lungamente congegnato, partorito con maniacale precisione. Ogni tassello avrebbe dovuto incastrarsi in maniera perfetta e Garcia, senza saperlo, era l’uomo giusto al momento giusto.
Ineluttabilità del Piano.
Nel silenzio della notte, ancora poche luci sfidavano l’oscurità. Uffici di manager stacanovisti gettavano il loro bagliore artificiale giù dai palazzi. Stephan rivedeva i conti, immerso tra montagne di carta e neon soffusi, non si capacitava di ciò che era accaduto quel giorno. Aveva ancora nella testa quelle rassegne stampa, voci insistenti che ne occupavano il pensiero. Ciò che leggeva e rileggeva, e poi ancora rivedeva una terza volta, non aveva alcun senso.
“Crollo del mercato: USB perde il 15%” Washington Herald
“Disastro finanziario: Union Square Bank sull’orlo del baratro” CNN
Quei titoli si susseguivano, prendendo a martellate cuore, fegato, polmoni, cervello, torturando quelle carni sofferenti con crudeltà. La folla di persone che si era accatastata nell’atrio fino a poche ore prima, le grida di disperazione, fatte di mutui insolventi, sfratti improvvisi, pignoramenti di case e fallimenti di aziende, quelle disperazioni rimbombavano ancora tra le mura che lo osservavano e che trasudavano ancora rabbia e angoscia. Risparmi e investimenti, finanziamenti e fondi pensione, tutto era andato a puttane, il tracollo fu tanto inaspettato quanto spettacolare.
“USB a un passo dal fallimento. Miliardi di dollari in fumo” NYTIMES
Stephan ripensò anche al suo mentore e manager, quell’uomo che, come ebbe a dire più volte, avrebbe seguito in capo al mondo. Pensò a come, in quel funesto giorno, egli avesse perso la testa, in un sorprendente lampo di follia. Continuava a farneticare, diceva cose sconnesse come: «Non vedete? Non vedete dove punta il grafico di bilancio? Al sottosuolo!» Ripeteva con fare quasi serafico «ora tocca a me», diceva che le fogne lo aspettavano, che la città ne avrebbe reclamato le carni. Ma nessuno aveva il tempo di chiamare un’ambulanza, tutti erano troppo occupati a telefonare, rassicurare, vendere, gestire, contrattare, gesticolare, sbraitare, tutti sapevano che quella sarebbe stata la fine, nessuno lo ammetteva ad anima viva, perciò tutti fingevano di fare il lavoro di sempre, anche se tutto era inutile. Fu come se un fulmine avesse colpito la testa di un passante: i conti che fino a ieri tornavano, adesso erano un disastro. Era tutto perduto, e tutto sembrava così insensato.
Stephan era invaso da questi pensieri, e fingeva di porre l’attenzione su quelle cifre, su quei geroglifici. In realtà, il suo era un soliloquio di farneticazioni.
E il suo cuore, in subbuglio, era già fuori dalla finestra.
“-23%: disastro, disastro, disastro alla USB!” BBC
“-40%, il punto di non ritorno” Financial Times
Indecifrabilità della tragedia.
Quando Ezra Jones si decise a uscire da quel palazzo, portava nel cuore un peso straordinario. Alcuni lampi opachi squarciarono il suo campo visivo, ma nessun tuono si propose al suo orecchio, c’era solo quella musica amara, acqua su acqua, come se l’oceano si fosse accartocciato sopra la terra. Non esisteva alcuna possibilità di salvezza, e la notte stava lì a ricordarglielo, ma come poteva dimenticarsene?
Marciò a lungo, ben sapendo di essere seguito da occhi indiscreti. I suoi passi erano pedinati da qualcuno di cui non conosceva né il volto né il nome, ma non sarebbe stato necessario che quell’ombra si palesasse per convincerlo dell’estranea presenza. Lui aveva una mappa nella testa, la stessa che rimuginava da tutto il giorno.
La mappa, disegnata a fuoco nella sua mente, partiva dall’ultimo piano del suo splendido palazzo, la cui vista dominava democraticamente ogni singola testa che camminasse ignara nella città, scendeva quei centododici piani in circa un minuto e mezzo e poi si gettava fuori dalle fauci di cemento della USB. Da lì, la mappa percorreva veloce un tragitto piano, lungo la statale 42, un incrociarsi di marciapiedi e strade deserte, fino a tuffarsi nell’oscurità della metropolitana. La città, paziente, l’avrebbe incontrato lì, negli antri del suo esofago meccanico. L’appuntamento era improrogabile.
Quei passi circospetti continuavano a seguirlo, così come avrebbe dovuto essere. Quei passi erano innocui, senza dubbio incaricati da qualche ufficio di polizia, la missione era quella di accertarsi che, dopo il crollo disastroso di quel giorno, l’amministratore delegato della Union Square Bank non se la desse a gambe.
E come poteva? C’era un disegno che tutto aveva previsto, che la città tramava da tempo immemore, fagocitando sofferenza e profitto. C’era un disegno, lui lo conosceva bene, era stato la sua fortuna e il suo terrore, e non poteva sottrarvisi, non dopo il segnale che era stato lanciato. Toccava a lui, stavolta, e le fogne lo attendevano al varco.
I suoi passi si confondevano nell’acqua con quelli del suo aguzzino, a una modesta distanza. Quando essi si gettarono nella scalinata della metropolitana per iniziare la lunga discesa, andando sempre più in profondità, l’esitazione dell’inseguitore fu palpabile, ma la sua corsa non poteva arrestarsi.
L’incedere del fato.
L’oscurità inghiottì preda e predatore. Il lezzo di merda e muffa investì il naso di Garcia mentre scendeva i gradini della metro, cercando di non emettere alcun suono che allarmasse Ezra. Dove cazzo stava andando? La direttiva era chiara, di seguirlo ovunque andasse e accertarsi che non fuggisse dalla città, ma di certo la metro non era il mezzo più adatto all’espatrio. Come in superficie, anche al piano di sotto non c’era anima viva, e l’atmosfera sembrava voler giocare solo con loro due, quella notte. Il tanfo di quel luogo era un respiro affannato, reso difficile dall’obesità esagerata del mostro dentro il quale camminavano. A trenta passi di distanza i contendenti ordivano i loro pensieri, attenti a mantenerli invisibili agli occhi dell’altro. La consapevolezza del proprio destino consumava di terrore Ezra Jones, il suo abito firmato Moschino era pregno di sudore sotto quel cappotto di lana pregiata e il suo volto, benché nessuno fosse lì a testimoniarlo, era contratto in una smorfia di angoscia. Garcia eseguiva gli ordini, senza dubbi o esitazioni, e soffocò la sorpresa quando vide che il banchiere, saltando giù dalla zona pedonale, raggiunse i binari abbandonati del tunnel 3, quelli che un tempo portavano nel quartiere di Saint Croix. Guardandosi attorno circospetto, saltò giù dalla banchina e raggiunse anch’egli i binari, addentrandosi sempre di più nella pancia del Gigante.
Il facoltoso banchiere, seguito a ruota dall’investigatore, a passo spedito si dirigeva verso le viscere del sottosuolo, le scarpe in camoscio immerse nella fanghiglia puzzolente che rivestiva come un succo gastrico quelle contorte vie infernali. Sarebbe stata la sua ultima passeggiata e la catacomba sembrava richiudersi alle loro spalle. L’umidità intaccò le loro coscienze fiaccandone la volontà, preparandoli al grandioso compimento di quel Piano lungamente ordito.
Profondità violate.
Duecento metri più su, il contabile e promotore finanziario Stephan si scrollava di dosso le ultime speranze di capirci qualche cosa. La stanza era un campo di battaglia, la scrivania sembrava ormai una collina di carta e il computer si era arreso. Stephan ripensava al delirio di Ezra Jones, fino a quel giorno impeccabile in ogni gesto, in ogni parola pronunciata, persino nel modo di mangiare un sandwich al prosciutto. Non c’era mai stato un barlume di follia nei suoi occhi, né nelle sue abitudini, ma evidentemente il crollo disastroso della sua azienda aveva fatto saltare qualche circuito.
Come si può avere ancora speranza se persino l’uomo di più granitica costituzione si scioglie come neve al sole? Come potrebbe uno piccolo come me, si disse, uno che rappresenta l’insignificanza stessa del sistema, resistere a un urto così devastante?
Stephan si lasciò dominare da queste considerazioni, sentendo di aver raggiunto un realismo talmente concreto da non poter essere neanche comparato alla fiacca solidità del suo corpo. Si scrutò, si guardò, si tastò mani, viso e gambe, come in cerca di un appiglio, ma quel corpo, quel corpo era niente in confronto ai meccanismi che sentiva essersi messi in moto. Si trattava del Potere, della sua stessa essenza, di quel misticismo che fa girare tutto: finanza, politica, società, amore.
Probabilmente, per un fugace attimo, per un minuscolo istante, ebbe cognizione di che cosa intendeva dire Ezra quel pomeriggio, parlando di “sottosuolo”, di “fogne”, di “profondità”. Si costrinse a ripetere quelle stesse parole: «Il sottosuolo mi reclama. È me che vogliono, tocca a me.» Percepì chiaramente che quella scrivania, quei quadri ben disposti, quel computer di ultimissima generazione, quella camicia, quei grafici fallimentari, tutto questo era solo la superficie di qualche cosa che ribolliva da un’eternità, qualcosa di più antico dei numeri stessi che avevano fatto perdere il senno a un uomo come Ezra Jones.
Colse per un istante un legame profondo con il suo capo, i cui piedi nel frattempo marciavano spediti nel ventre di quel mostro che ingenuamente aveva sempre chiamato “città”. Era una specie di solidarietà indecifrabile, un destino comune, una consapevolezza fraterna, quella di chi è avvinghiato a un meccanismo ancestrale.
Perduto in questi pensieri, Stephan fu preda della convinzione di essere anch’egli impazzito. Stravaccato sulla poltrona Ikea, la camicia Ralph Lauren scomposta come il suo animo, gettò uno sguardo fuori dalla finestra e la pioggia gli ricordò, senza usare parole, come tutto ciò che sale prima o poi debba inevitabilmente scendere.
Ineluttabilità della gravità.
Mancavano pochi minuti all’alba, quando Ezra Jones finalmente arrestò il suo cammino nelle viscere della terra. Si trovavano in una camera molto grande, forse antica intersezione di un gran numero di tunnel scavati da chissà quali mani. Garcia si appostò dietro una tubatura arrugginita, appartenuta a un acquedotto in disuso, ma gli fu evidente che Jones si era da tempo accorto della sua presenza.
La voce del banchiere risuonò tra fetidi odori: «Venga fuori, chiunque lei sia, siamo al capolinea, amico mio.» Garcia rimase stupefatto da quel tono suadente, in mezzo alla claustrofobica situazione in cui si erano cacciati. Uscì circospetto dal nascondiglio, le ginocchia immerse nella melma che aveva accolto le sue bestemmie nelle ultime ore di inseguimento. L’enorme bestia respirava, era un respiro faticoso, meditabondo.
«Che cosa ci facciamo qui, Jones? Non c’è anima viva.»
«Oh, su questo non c’è alcun dubbio. O forse dovremmo ritrattare sul significato di “vivo”, non le pare?» Gli occhi di Jones emanavano una luce sinistra, ma erano allo stesso tempo spenti, rassegnati.
Gli esseri che d’improvviso comparvero tutt’attorno pietrificarono i muscoli del povero Garcia, l’alito pestilenziale che emanavano non aveva nulla di umano, i loro corpi ricurvi erano coperti da un’epidermide malata, macchiata da ciò che di peggio i secoli avrebbero potuto incidere sulla pelle di un cadavere. Ezra Jones li osservava, mentre essi muovevano i loro arti spastici in maniera insensata, preda di crampi epilettici che li rendevano simili ad automi malformati. Un sibilo infernale accompagnava quel loro terribile strisciare.
Garcia non riusciva a muovere un muscolo.
«Si chiederà che cosa siano queste… “cose”, signor mio. Ebbene, non hanno nome e anzi, hanno dato il nome a tutto quello che la circonda. Hanno eretto la città dove lei vive, sostengono i palazzi radicati nell’asfalto, hanno di fatto inventato il mondo così come lei e io lo conosciamo. Si nutrono delle nostre angosce, forgiano le paure e le incanalano qui dentro, si sfamano con i mille terrori che ci attanagliano. Potrei quasi dire che ci sono intimi, che ci accompagnano da sempre, che ci conoscono per quel che siamo veramente, solo che lei, prima di questa notte, non lo poteva sapere.»
Gli abomini sembravano non essere interessati a Garcia, puntarono piuttosto verso Ezra Jones, verso il suo abito firmato Moschino, verso i suoi capelli impomatati da Paul Mitchell, verso la sua brillante carriera da uomo d’affari costantemente citato su Fortune.
«Esse rappresentano probabilmente, per farle comprendere meglio dove si trova, ciò che l’uomo è solito chiamare il “Potere”. Questi esseri lo creano, lo concedono e infine se ne nutrono, attraverso la paura.» Lo accerchiarono, ma lui non mosse un muscolo, e anzi, lasciò scivolare nell’acquitrino stagnante il cappotto Armani, fissando con quei suoi occhi glaciali il derelitto Garcia.
«Vede, lei è qui perché le regole impongono un tributo di sangue, e poi un conseguente ricambio. Da secoli, generazione dopo generazione, esiste un solo uomo che conosce, un solo uomo che può portare avanti la tradizione e il fardello. Quell’uomo, trent’anni fa, fui io. Ma oggi, la città ha di nuovo fame, e io non posso che cedere il testimone.»
La scena surreale che si parava di fronte a Garcia sarebbe stata il marchio a fuoco che gli avrebbe impedito di ribellarsi. Gli esseri, contorti e consumati dai secoli, iniziarono a intaccare, mordere, graffiare il corpo di Ezra Jones, ma lui, impassibile, non cacciò nemmeno un urlo. Anzi, continuò a impartire la sua lezione: «Lei tornerà in superficie, tenendo a mente ciò che ha visto qui stanotte. Non scenderà mai più, se non quando il segnale verrà lanciato di nuovo. Non parlerà a nessuno di ciò che ha visto qui sotto, e d’altronde, chi potrebbe crederle? Si ricordi che tutto ciò che sale, prima o poi deve scendere nuovamente. Domattina lei prenderà il mio posto alla USB, da amministratore delegato, e tutto tornerà alla normalità.»
Uno degli abomini, in un tripudio di respiri asmatici e gorgoglii nauseabondi, staccò di netto il braccio destro di Jones, che cominciò a sanguinare copiosamente, tingendo di rosso quella melma prima scura come la pece. Le forze e la voce lo stavano abbandonando, ma la smorfia di dolore che attraversò il suo volto venne sostituita in fretta dalla determinazione di quel consapevole destino: «Tra qualche decennio, essi reclameranno nuovamente il loro tributo di sangue, in cambio del quale lei avrà avuto onore, ricchezza e successo. Ma al loro richiamo, lei non dovrà resistere, altrimenti la città intera, e forse il mondo, saranno perduti.» Fece una pausa, preso da quella che Garcia avrebbe giurato essere nostalgia: «È così ironico, non trova? Accumuliamo un quantitativo immane di potere durante la vita, ce ne vantiamo e lo portiamo addosso come un cimelio eterno, lo utilizziamo a nostro vantaggio, quasi lo possedessimo, e poi queste creature, che così facilmente ci hanno concesso la grandezza, ce la sottraggono, se ne nutrono, succhiandoci via la vita come acqua fresca.»
Esalata l’ultima parola, artigli feroci e isterici sgozzarono e poi decapitarono Ezra Jones, il cui corpo si afflosciò come un sacco vuoto nelle gelide acque della catacomba. Garcia si sorprese a osservare quel banchetto rivoltante, sasso in mezzo ai sassi, e trovò la forza di voltarsi solo quando uno di quegli spettri, alzando la testa dalle frattaglie dell’ex-banchiere, ne squadrò diffidente la figura tremante. Quando riuscì a girarsi per tornare sui suoi passi, una voce sibilante raggiunse le sue orecchie: «Ci rivedremo, Garcia Lòpez.»
Sussurri del sottosuolo.
Gli uffici della Union Square Bank erano ancora quasi deserti, nonostante la Borse avesse aperto da un paio di minuti. Nessuno desiderava tornare nell’edificio, tutti erano consapevoli del disastro che sarebbe succeduto alla giornata precedente. Stephan era rimasto per tutta la notte sveglio nel suo ufficio, a osservare la finestra. La pioggia si era trasformata da grigia mendicante di luce a festa di riflessi quando il Sole era spuntato tra i grattacieli ancora addormentati.
Vide sette o forse otto manager disperati assecondare la forza di gravità e imitare quella miriade di grafici che, dall’alto delle loro quotazioni positive, decidevano di suicidarsi. Guardando giù, l’asfalto era un suadente ospite che avrebbe accolto a braccia aperte la sua delusione.
Issatosi sul balcone, Stephan chiuse gli occhi e…
Alle ore 8.32 la radio diffuse la voce dello speaker nella stanza: «Questa mattina la nomina di uno sconosciuto manager ispanico, un certo Garcia Lòpez, ha fatto tornare positive le azioni della Union Square Bank, salvandola di fatto dal tracollo finanziario. È un incredibile colpo di fortuna, dal momento che…» Stephan ritornò velocemente dentro il suo ufficio, chiuse la finestra e si scoprì tanto perplesso quanto sollevato. Come poteva essere cambiato tutto di nuovo? Che fine aveva fatto Ezra Jones? Chi aveva nominato questo nuovo manager, questo Lòpez? E perché, perché mai la pioggia, all’arrivo della notizia, aveva cessato di colpo la sua guerra?
Stephan percepì nuovamente quella strana sensazione, quella di essere legato a Jones, a quel destino che rimaneva misterioso ai suoi occhi. Sedette di nuovo alla scrivania, il computer si accese e mostrò un grafico verde, positivo.
Il mondo era salvo, anche se Stephan non poteva sapere per merito di chi. Nessuno l’avrebbe mai saputo: per alcuni sarebbe stato il “mercato”, per altri un semplice colpo di fortuna. Poco importava, tutti erano in errore.
Gli stolti camminavano sull’abominio sotterraneo, senza saperlo.
Nel profondo della città, ventre molle del mostro che finalmente era tornato a dormire, si banchettava ancora con la vita di Ezra Jones, mentre le angosce delle popolose superfici ponevano le fondamenta per l’insediamento del nuovo luogotenente del Potere. Nessuno avrebbe mai saputo della loro sacra esistenza, e Lòpez, i mostri ne erano certi, sarebbe ritornato nelle viscere quando fosse giunto il momento.
Essi rientrarono striscianti nelle loro catacombe, allo stesso modo in cui gli insignificanti esseri umani che camminano sulla dura epidermide della città tornarono alla loro fragile serenità, inconsapevoli che il gigante si era mosso, che aveva rinnovato nuovamente il terribile patto di sangue.
Stephan si dedicò a grafici e bilanci, dimenticandosi in fretta di Ezra Jones e iniziando ad ammirare il nuovo eroe del mondo, Garcia Lòpez.
Tutti tornarono a dormire, e avrebbero dormito, angosciati e felici, fino al prossimo brusco risveglio.
Ridondanza del tempo.
La pioggia avrebbe atteso il proprio momento, per ritornare.