Nettles dei Trickster-p
di Susanna Sinigaglia
Si prenota su appuntamento, con un ingresso individuale ogni 20 minuti; la performance ne dura 40. Gli spettatori vengono invitati ad accomodarsi in una specie di salotto attiguo al teatro, uno spazio che conosco dopo le mie varie frequentazioni della Triennale anche se ogni volta che vi sono entrata era adibito a una funzione diversa. Oggi deve servire da sala d’attesa. Mi accomodo perciò in una delle poltroncine raccolte intorno a vari tavolini, dove già vedo altri “avventori”. Appare da dietro una porta in fondo alla sala la performer addetta al “traffico” dei partecipanti e sollecita una degli astanti a seguirla. Dopo un breve periodo di attesa, tocca a me. La performer mi consegna un paio di cuffie, mi appende al collo una specie di piccolo cellulare e mi spiega come si svolgerà la performance. Dovrò entrare in varie “stanze” separate da una tenda; in ogni stanza troverò degli oggetti o vivrò situazioni particolari. Capirò chiaramente quando passare da una stanza all’altra perché in quella in cui mi troverò scenderà il buio e nella successiva si accenderà la luce, che vedrò filtrare da sotto la tenda. Pronti? Via!
Le cuffie in genere mi danno fastidio ma purtroppo, ultimamente, se ne fa largo uso in alcuni spettacoli di ricerca multimediale; un po’ a disagio, e perciò titubante ma senza mostrarlo, entro nel primo ambiente. Nel centro, si trova una bacheca in cui è stato riprodotto in miniatura un paesaggio montano invernale con una seggiovia abitata da una figurina sospesa nel vuoto; sento in cuffia la voce narrante di donna che mi accompagnerà per tutto il percorso, costellato di storie di cui è l’interprete principale.
Qui racconta di un sogno che ricorreva nei suoi sonni da piccola, in cui si trovava sospesa su una seggiovia da cui poi precipitava nel vuoto per risvegliarsi sana e salva nel proprio letto. C’era un piacere nascosto in quel sogno, dovuto allo scampato pericolo e al rinnovato conforto di trovarsi fra le pareti familiari della sua cameretta. Mi ritorna in mente quella che dividevo con mia sorella. Aveva le pareti rosa punteggiate da grossi pulcini gialli; sulla parete accanto al letto, ci era consentito disegnare a matita scarabocchi colorati così che mia sorella e io avevamo il nostro “affresco” personale.
Ecco che si spegne la luce, e si accende sotto la tenda che immette nella stanza successiva.
Il racconto che accompagna il percorso segue il filo della riflessione sulla vita e la morte, sulle varie fasi dell’esistenza dove l’una si riversa nell’altra come lo spettatore-partecipante della performance, che si sposta da un ambiente all’altro del percorso in questione. Uno dei racconti riguarda ancora l’infanzia della protagonista, quando con gli amichetti dava la caccia agli insetti in giardino, in particolare ai cervi volanti, li catturava e li infilzava con uno spillo, osservandoli mentre le zampette si agitavano in aria muovendosi sempre più piano fino a fermarsi del tutto; osservandone cioè il passaggio dalla vita alla morte.
Poi i bambini celebravano i funerali con tanto d’interramento. È curioso come lo stesso rituale venisse svolto da me, mia sorella e mio cugino, nel giardino della casa dei miei zii. Solo che le vittime designate non erano gli scarabei ma le bisce, che apparivano nelle aiuole dopo i temporali estivi. Certo le bisce non hanno le zampette e perciò osservavamo l’esserino mentre si contraeva fino all’immobilità; poi stesso rito, funerali con piccola tomba contrassegnata da una croce costruita con rametti tenuti insieme dallo spago.
A un certo punto del percorso mi ritrovo in una stanza buia, e non nascondo di aver provato una sottile inquietudine. Quella situazione mi rievoca il ricordo di quando, bambina, dovevo attraversare il corridoio, illuminato da una fioca luce giallastra, che dalla sala da pranzo portava alla camera da letto dei miei genitori. L’imboccavo sempre di corsa, entrando trafelata nella stanza dove mia madre mi spediva a prenderle qualche oggetto, ne uscivo di corsa e ritornavo in sala da pranzo sollevata come da uno scampato pericolo.
Nella circostanza presente per un attimo, lì sola al buio e malgrado la voce suadente che mi accompagna, provo quella specie di panico che assale quando ci si trova in una situazione oscura senza, oltretutto, avere la possibilità di correre via come da piccola lungo il corridoio della casa natia.
Un’altra circostanza strana mi è capitata accedendo a una “stanza” in cui giaceva un cane dal pelo lungo, arricciato e bianco, disteso sulla sua cuccia; sembrava che dormisse. La voce femminile lega all’ambiente così allestito il racconto di un episodio della vita del padre quando, da ragazzino, andava col cane a correre sull’argine del fiume presso la casa dove abitava con la famiglia. Un giorno durante la corsa, l’argine cedette e il povero animale precipitò nelle acque agitate del corso d’acqua. Allora il ragazzo aveva cercato di salvarlo dirigendosi a valle ma era scivolato a sua volta nel fiume. Per fortuna, l’incidente capitò nei pressi di un ponticello su cui transitavano degli operai per andare al lavoro, che lo videro e lo salvarono. Del cane, invece, non si trovò più traccia. La voce narrante precisa che i cani transitati a casa della famiglia del padre erano sempre della stessa razza e dello stesso colore: bianco. Mentre fisso un po’ turbata e impietosita il cane disteso sul pavimento, vedo che muove la testa; immagino che sia stato drogato dal momento che riesce a dormire così profondamente, e mi riprometto di chiedere spiegazioni all’uscita. Un po’ intimorita dalla possibilità che il cane si svegli e se la prenda con me assalendomi magari alle spalle, passo alla stanza successiva. Questa mia convinzione verrà un po’ incrinata verso la fine del percorso, quando incontrerò un secondo cane bianco, identico, sempre nella stessa posizione ma che resterà immobile.
L’altra figura dominante del racconto è quella del padre venuto a mancare, sembra, di recente. Ne vediamo gli oggetti personali, tipici di un uomo non più giovane, allineati come fossero ancora sul comodino della camera da letto: la biancheria intima, la cintura e poi il portafogli, il portachiavi, il portatessere; occhiali e portaocchiali, la stilografica, i fazzoletti di carta e un piccolo cellulare di un modello ormai in disuso.
E poi incontriamo la stanza con il letto a due piazze dei genitori, la lampada a stelo con le pantofole scendiletto in pelle tanto care e familiari.
La voce narrante si chiede dove vadano i morti e se non sia il momento del passaggio dalla veglia al sonno l’esperienza più vicina alla morte che sperimentiamo mentre siamo ancora in vita. Si chiede anche se non sia possibile che quel che consideriamo la realtà quotidiana non sia invece solo un sogno – riecheggiando Calderon de la Barca – da cui un giorno ci sveglieremo (non ci sembra forse tutto reale quando sogniamo?) e in quel momento, chissà, sopravverrà la morte.
In una stanza successiva, mi vedo riflessa allo specchio che corre lungo tutta la parete dello spazio in cui mi trovo. Lo specchio mi rimanda un’immagine un po’ livida e sgraziata, resa goffa dalle grosse cuffie, l’apparecchietto simile a un cellulare che mi pende al collo e la cinghia del marsupio che mi attraversa il torace. Non so se sia stata questa l’ultima stanza e qui sia terminato il percorso. Certamente, è l’ultima stanza che io ricordi. E quando sono uscita non “a riveder le stelle” ma a incontrare la performer che mi aspettava nel piccolo atrio, le ho subito chiesto dei cani. Naturalmente lei mi ha risposto che erano finti, entrambi. Ma come, anche il primo? Sì, anche il primo: quando si dice la forza della suggestione!