Nicaragua 2018: tra dis-informazione e propaganda
di Bái Qiú’ēn
O il macchinista è impazzito, o è un criminale isolato, o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità (Pier Paolo Pasolini, 1975).
L’umanità non sopporta il pensiero che il mondo sia nato per caso, per sbaglio, solo perché quattro atomi scriteriati si sono tamponati sull’autostrada bagnata. E allora occorre trovare un complotto cosmico, Dio, gli angeli o i diavoli (Umberto Eco, 1988).
Il 1° settembre 1939 i lettori del Corriere della Sera lessero il testo del comunicato del Führer alle Forze armate germaniche: «I tedeschi in Polonia sono perseguitati da un sanguinoso terrorismo e cacciati dalle loro case. […] Per poter porre fine a queste azioni pazzesche non mi rimane altro mezzo che quello di rispondere con la violenza alla violenza, a cominciare da questo momento» (Il proclama di Hitler ai soldati del Reich).
Tralasciando le notevoli somiglianze con le motivazioni della guerra in corso, è risaputo che la Storia, quella con la S maiuscola, può essere interpretata a seconda delle convenienze. Nel corso degli ultimi mesi, proprio in relazione all’invasione dell’Ucraina, abbiamo sentito di tutto e di più. Compresa la scoperta che, invadendo la Polonia il 1° settembre 1939, Hitler non aveva intenzione di far scoppiare una guerra mondiale. Perfetta ovvietà, come affermare che l’imperatore austroungarico non voleva far crollare lo zarismo in Russia quando dichiarò guerra alla Serbia nell’agosto del 1914. Di certo, il capo del nazismo era l’ultima cosa che avrebbe voluto, ma la possibilità che accadesse non poteva non averla messa nel conto. Anzi, ne era ben cosciente.
Ognuno è libero di credere ciò che più e meglio soddisfa il proprio intelletto. Esiste, però, un’intricata vicenda precedente che attesta la volontà di graduale conquista hitleriana dell’intera Europa (Stufenplan), ben sapendo che avrebbe potuto innescare un conflitto bellico se non globale, quanto meno di notevoli proporzioni a livello continentale. Qualunque storico che si rispetti dovrebbe aver letto le sue parole relative agli errori politici e militari della Germania nel primo conflitto mondiale: «Era un’altra la strada da seguire: rinforzarsi nel Continente conquistando in Europa nuovi territori» (Mein Kampf, cap. V). Fin dal 1925, quando era ancora un perfetto sconosciuto, aveva dichiarato apertamente le proprie intenzioni.
Proviamo a descrivere per sommi capi gli eventi precedenti, lasciando ai lettori più curiosi o interessati ogni ulteriore approfondimento.
Da Berlino è però necessario spostarsi a Mosca. Nel 1936-’38 il paranoico che si aggirava nelle stanze del Cremlino scatenò una vera e propria caccia alle streghe, nota come «Grandi purghe», eseguita con sommari procedimenti giudiziari e immediate fucilazioni o deportazioni in Siberia. Nell’agosto del 1936 si svolse il primo processo, nel quale fu condannata quella che all’epoca era definita «opposizione di sinistra». Ossia i dirigenti storici che avevano diretto la rivoluzione nell’ottobre del 1917 assieme a Lenin. All’inizio del gennaio 1937 si svolse il secondo processo, sempre contro i bolscevichi della prima ora. In entrambi i casi, gli imputati furono ritenuti colpevoli delle accuse e immediatamente fucilati. Con ciò, provocò un notevole indebolimento dell’apparato governativo e politico del Paese, decapitandone la dirigenza.
Visto da fuori, era un meccanismo perverso del quale si poteva approfittare. E Hitler non si fece sfuggire l’occasione.
Nel giugno dello stesso 1937, infatti, si svolse un processo a porte chiuse contro gli alti comandi dell’Armata Rossa, che la privò di parecchi generali e colonnelli. Tra il maggio del 1937 e il settembre del 1938 furono arrestati o congedati dall’esercito oltre 35mila ufficiali. Secondo la versione ufficiale, «essi s’erano venduti allo stato maggiore tedesco o giapponese per sabotare la produzione, disarmare il paese, dissolvere l’esercito» («La crisi russa», Avanti! ed. di Parigi, 20 giugno 1937).
Quelle accuse erano basate su informazioni fornite dall’ambasciatore sovietico a Praga, Sergej Aleksandrovskij, costruite però a tavolino dal Sicherheitsdienst, il servizio di spionaggio delle SS diretto da Reinhard Heydrich. Una persona con un po’ di sale in zucca avrebbe quanto meno riflettuto sull’autenticità di relazioni fornite da un regime che si dichiarava nemico giurato del bolscevismo, ma Stalin ormai vedeva traditori persino all’interno di una bottiglia di sidro di mele.
Tra gli uditori al processo contro i militari vi era Roland Freisler, futuro giudice-boia al soldo di Hitler, dal 1942 al 1945 a capo del Volksgerichtshof, il supremo tribunale nazista per i delitti politici, e strenuo ammiratore del procuratore generale dell’URSS Andrej Vyšinskij, il pubblico ministero nei processi-farsa.
Il risultato più evidente di quella «purga» si vide pochi anni dopo, quando nel novembre del 1939 l’Armata Rossa, guidata da uno Stato Maggiore inesperto, invase la Finlandia con una teorica guerra-lampo che fallì miseramente. A questo punto, la politica segreta nazista della Drang nach Osten (Tempesta verso l’Est) poteva proseguire. Nel giugno del 1941 iniziò l’Operazione Barbarossa e le truppe naziste invasero l’Unione Sovietica, giungendo in breve tempo alle porte di Mosca. Alla fine di settembre, i prigionieri russi nelle mani naziste erano oltre due milioni.
Senza alcuna pretesa di avere la verità in tasca, riteniamo possibile che almeno dal 1936 Hitler si rendesse conto che non avrebbe potuto conquistare l’intera Europa senza prima eliminare un temibile avversario a livello militare. Sfruttando con astuzia e abilità l’evidente paranoia di Stalin, riuscì a privare l’Armata Rossa dello Stato Maggiore.
Per ulteriore sicurezza, solo una settimana prima dell’invasione della Polonia, il 23 agosto 1939 riuscì a far firmare all’URSS il reciproco patto di non aggressione, concedendogli metà del territorio polacco per ristabilire gli antichi confini dell’Impero zarista. Il piano per l’occupazione nazista era assai precedente e l’invasione era prevista per il 25 agosto, ma prima Hitler doveva a tutti i costi garantirsi la non belligeranza di Stalin, per quanto senza un efficiente Stato Maggiore a dirigere l’Armata Rossa. Era ben cosciente che sarebbe iniziato un conflitto bellico, se non mondiale, quanto meno europeo.
Per quanto sia la Gran Bretagna sia la Francia, alleate della Polonia e «sistemi degenerati» secondo la propaganda nazista, si fossero impegnate a intervenire nel caso di un’aggressione, è probabile che Hitler non le ritenesse militarmente in grado di creargli seri problemi. Non a caso, fin dall’alba del 7 marzo 1936, in violazione degli accordi di Versailles, la Germania aveva rimilitarizzato il confine con la Francia (Renania). Poiché né la Francia né la Gran Bretagna intervennero a bloccare questa invasione, Hitler si rese conto che, come minimo, non avevano la sufficiente forza militare per opporsi alle sue mire espansionistiche. D’altro canto, gli Stati Uniti non rappresentavano una minaccia militare in quanto troppo lontani e fortemente neutralisti fino al dicembre del 1941, dopo Pearl Harbour.
Insomma, l’unico ostacolo poteva essere l’URSS, ma con le false informazioni sui vertici dell’Armata Rossa Hitler si era coperto abbondantemente le spalle. Come scrisse Giuseppe Boffa nel 1976, «Lo spionaggio nazista approfittò abilmente dell’uragano di persecuzioni e di sospetti che aveva investito l’URSS, per fabbricare documenti falsi» (Storia dell’Unione Sovietica). In più, con il patto Ribbentrop-Molotov aveva evitato il rischio di un conflitto su due fronti, una settimana prima dell’invasione della Polonia. Se tutto ciò non attesta con evidenza che Hitler era ben cosciente che il 1° settembre 1939 avrebbe potuto innescare un conflitto bellico di immani proporzioni, non sappiamo proprio cosa pensare.
Tolte alcune valutazioni nostre, sulle quali è lecito dissentire, il contesto della storia fu confermato all’inizio del 1988, in piena glasnost, quando il settimanale Ogoniok rese pubblico a Mosca il memoriale postumo del generale Georgij Žukov, il conquistatore di Berlino nel 1945 e uno dei pochi fortunosamente scampati alla paranoia staliniana.
Altri brandelli di storia più o meno lontani nel tempo
Un mercoledì 11 ottobre 1944, i lettori del quotidiano bolognese il Resto del Carlino, nella pagina di cronaca lessero un breve trafiletto in corsivo, titolato «Voci inconsistenti»:
«Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di una operazione di polizia contro una banda di fuori legge [leggasi: partigiani], ben centocinquanta fra donne, vecchi e bambini erano stati fucilati da truppe germaniche di rastrellamento nel comune di Marzabotto.
«Siamo in grado di smentire queste macabre voci e il fatto da esse propalato. Alla smentita ufficiale si aggiunge la constatazione compiuta durante un apposito sopralluogo. È vero che nella zona di Marzabotto è stata eseguita un’operazione di polizia contro un nucleo di ribelli il quale ha subìto forti perdite anche nelle persone di pericolosi capibanda, ma fortunatamente non è affatto vero che il rastrellamento abbia prodotto la decimazione e il sacrificio di nientemeno che centocinquanta elementi civili.
«Siamo, dunque, di fronte a una nuova manovra dei soliti incoscienti destinata a cadere nel ridicolo perché chiunque avesse voluto interpellare un qualsiasi onesto abitante di Marzabotto o, quanto meno, qualche persona reduce da quei luoghi, avrebbe appreso l’autentica versione dei fatti».
Gli altri quotidiani pubblicati nel territorio italiano al Nord della Linea Gotica, controllato dalla Repubblica di Salò unitamente alla Wermacht, neppure accennarono al fatto: ciò che non si sa è come se non fosse avvenuto.
Oggi conosciamo la tragica «marcia della morte» partita da Sant’Anna di Stazzema nell’agosto del 1944 e sappiamo fin troppo bene cosa accadde sull’Appennino bolognese a 1.830 esseri umani dal 29 settembre al 5 ottobre.
Qualcuno forse ricorderà, poiché più vicino a noi nel tempo, le parole di Jamie Shea, portavoce dell’allora segretario della NATO Javier Solana, ripetute come un pappagallo dal nostro presidente del Consiglio Minimo d’Alema, quando furono bombardati i ponti sul Danubio a Novi Sad (aprile 1999): era per impedire alle truppe di Slobodan Milošević stanziate a Belgrado di andare nel Kosovo. Il che significa che, per proibire a chi abita a Pavia di recarsi a Piacenza, si distruggono i ponti sui navigli di Milano. Non è necessario essere degli esperti in comunicazione per comprendere che basandosi sulla continua e persistente deformazione dei fatti, attraverso un processo di selezione, alle volte esagerando e altre attenuando, si distorce il volto della realtà. Basta dare un’occhiata a una mappa geografica dell’ex Jugoslavia per comprendere che in guerra, oltre alla verità, muoiono pure la geografia e i punti cardinali. Con buona pace di Eschilo o di chi per lui.
Non sappiamo quando giungerà il giorno in cui, fuori da ogni propaganda di parte, si potrà conoscere ciò che realmente accadde in Nicaragua tra la metà di aprile e la metà di luglio del 2018. Smascherando sia le bufale sia le cosiddette operazioni sotto falsa bandiera di entrambe le parti in causa. Chissà se e quando sulla ribalta politica di quel lontano Paese si affaccerà un Nikita Chruščëv con un «rapporto segreto»? O un Michail Gorbačëv con un pizzico di glasnost? Fino a quel momento, l’informazione sarà sempre e comunque viziata dalla specifica e personale visione dell’informatore. Sia esso ufficiale o meno, in buona fede o meno, lautamente pagato o meno.
Grazie a un buon numero di amici locali, sia italiani sia nicas, e a ciò che si poteva reperire in rete, avevamo seguito giorno dopo giorno gli eventi di quei mesi caldi, cercando di non trascurare alcuna notizia così come era raccontata da entrambe le parti, comprese le cosiddette «note di cronaca». Tentando di fare la tara su ciò che si affermava (o, per usare la terminologia di Umberto Eco, «filtrando le informazioni»), poiché ci risultava chiara ed evidente l’esistenza di una vera e propria gara a chi le sparava più grosse, con due narrazioni contrapposte ma identiche nei metodi e nelle intenzioni. Grosso modo, ciò che sta accadendo in questi mesi con la guerra della Russia contro l’Ucraina (anche qui, da entrambe le parti). A distanza di quattro anni, se dovessimo compilare una classifica: nessun vincitore e nessun vinto. I due schieramenti contrapposti, sullo stesso gradino del podio, a pari de-merito.
Poiché non è possibile parlare di tutto ciò che avvenne in quelle settimane, per dare una piccola idea di ciò che capitava quotidianamente nel campo dell’informazione (?), faremo riferimento a un disgraziato giorno, quando a Managua successero un paio di eventi mortali che furono sfruttati come propaganda, uno da una parte e l’altro dall’altra. Tipica par condicio della tecnica disinformativa del classico venditore di automobili, come la dipinse il suddetto Eco: «Egli inizierà dicendovi che la macchina è praticamente un bolide, che basta toccare l’acceleratore per andare subito sui duecento orari, che è concepita per una guida sportiva. Ma non appena si renderà conto che avete cinque bambini e una suocera invalida, senza transizioni di sorta, passerà a dimostrarvi come quella macchina sia l’ideale per una guida sicura, capace di tenere con calma la crociera, fatta per la famiglia. Il venditore non si preoccupa che voi sentiate l’insieme del suo discorso come coerente, gli interessa che, tra quanto dice, di colpo vi possa interessare un tema, sa che reagirete alla sollecitazione che vi può toccare e che, una volta che vi sarete fissati su quella, avrete dimenticato le altre. Quindi il venditore usa tutti gli argomenti, a catena e a mitraglia, incurante delle contraddizioni in cui può incorrere» (23 settembre 2003).
I due esempi che seguono rendono alla perfezione l’evoluzione del venditore di automobili in propagandista, il quale utilizza nozioni vaghe e affrettate, non sorrette da alcuna analisi seria dei dati e dei fatti. E se ne frega bellamente se sono in contraddizione tra loro, ben sapendo di riuscire sempre e comunque a colpire una corda sensibile dei propri lettori.
Per i più curiosi o scettici, oltre a ciò che leggeranno qui sotto, qualcosa di queste due vicende è ancora reperibile nel web.
Prima vicenda
Verso le 2 del mattino di sabato 2 giugno 2018 si verificò un incidente stradale che qualcuno dell’opposizione si affrettò a definire «strano», ossia non normale, inabituale, fuori dell’ordinario. Il fatto, descritto in poche parole, fu che una donna ubriaca fradicia guidando contromano si scontrò frontalmente con un taxi nella zona «de los semáforos del hotel Hilton Princess», carretera a Masaya. Nei pressi della Plaza de las Victorias, dove a suo tempo fu eretto un inguardabile monumento al pugile Alexis Argüello, più orribile della statua di Karol Wojtyla fuori dalla stazione Termini di Roma.
Risultato dell’incidente: il taxista, Adolfo Enrique Castellón Arauz di 27 anni, morì sul colpo. La donna riportò una lussazione al polso sinistro e qualche lieve contusione sul corpo. Tanto che i paramedici che la soccorsero e la sdraiarono su una barella, affermarono che non v’era alcuna necessità di ricoverarla in ospedale.
Il che diede l’avvio alla serie delle ipotetiche stranezze, mentre si trattava di un banalissimo incidente stradale, come ne avvengono ordinariamente tutti i giorni in un Paese nel quale nessuno sa guidare. Se provaste a dire che per rallentare è opportuno scalare le marce invece di inchiodare a pochi centimetri dal semaforo rosso, chiunque vi guarderebbe come se foste un marziano senza permesso di soggiorno o un picchiatello scappato alla vigilanza degli infermieri psichiatrici del Kilómetro cinco.
Oltre a guidare come pazzi, in troppi lo fanno in preda ai fumi dell’alcool. Fatto assolutamente normale. A noi andò grassa quella domenica con scarso traffico che, con alcuni amici, prendemmo un taxi per tornare a casa dopo un pranzo al ristorante La Terraza Peruana (del tutto casualmente distante meno di un chilometro dal luogo dell’incidente). Arrivati a destinazione con la corvina a la chorillana in fase di digestione, il taxista si addormentò come un sasso sul volante. Impossibile svegliarlo dal profondo letargo alcoolico. Lasciammo i soldi della corsa sul cruscotto e accendemmo un cero virtuale alla Virgen de Guadalupe.
Nel corso del 2021, stando ai dati forniti dalla Policía de tránsito si sono verificati oltre 45mila incidenti stradali con 904 decessi e 3.332 feriti. La maggior parte avvenuti nei fine settimana (venerdì, sabato e domenica), tra le 5 di sera e le 4 del mattino successivo, a causa di conducenti in stato di ebbrezza.
Riprendendo il filo della nostra storia, immediatamente l’opposizione gridò alla cospirazione governativa. Inutile dire che non solo da noi esistono questi professionisti della disinformazione, affetti dalla sindrome della congiura. Come era possibile che l’investitrice se la fosse cavata con una piccola fasciatura all’avambraccio lussato e alcuni lividi sul corpo? Complotto, complotto, complotto! Era troppo difficile ricordare che, nel corso dei decenni, qualcuno si è salvato pure da un incidente aereo. Per chi ci crede, i miracoli a volte accadono. Dalle nostre parti, usiamo il vocabolo «miraculo».
Comunque, questa ipotetica stranezza era dovuta al fatto che la madre del taxista, María Teófila Arauz, era una ex tenente della polizia con una ventina di anni di servizio, la quale si era più volte rifiutata di sparare contro i manifestanti. Inoltre, aveva denunciato pubblicamente l’ordine di fare fuoco ad altezza d’uomo, per uccidere. E, crimine di lesa maestà, sul telefonino aveva la canzone di Violeta Parra Me gustan los estudiantes, uno degli “inni” dei protestantes: «¡Que vivan los estudiantes, / jardín de las alegrías! / Son aves que no se asustan / de animal ni policía, / y no le asustan las balas / ni el ladrar de la jauría». Il 6 maggio era stata licenziata in tronco.
Meno di un mese dopo, il figlio muore in un incidente stradale: per qualunque complottista è la manna dal cielo.
Occorre aggiungere che quando la madre si recò sul luogo dell’incidente, avvisata da una telefonata all’alba, notò la presenza di Vladimir de Jesús Cerda Moraga, il responsabile della polizia del Distrito I (o Distrito Capital). Lo stesso che l’aveva licenziata. Che cosa ci faceva lì quel personaggio? Complotto, super-complotto!
Peccato che il luogo dell’incidente fosse proprio nel Distrito I. Per cui non vi era alcunché di anomalo nella presenza del responsabile territoriale della polizia. E chi, se non la stessa polizia, aveva telefonato alla madre per avvisarla dell’incidente? Nessuno, che abbia un minimo di capacità razionale, può pensare a un buon samaritano che, in un periodo nel quale era meglio non uscire di casa nelle ore serali e notturne, bighellonava da quelle parti e casualmente conosceva il ragazzo, sapeva chi era la madre e aveva il numero di telefono a portata di mano. Troppa grazia, sant’Antonio!
A questo punto, venuto meno un argomento essenziale, i complottisti incalliti dell’opposizione iniziarono a sostenere che la donna, finta ubriaca, era una dipendente statale, pagata per creare l’incidente e sicura dell’impunità. Per il tasso alcolemico non abbiamo informazioni, ma è un vero peccato che in realtà Kathy de los Ángeles Espinoza Briceño fosse la responsabile di Full Color Publicidad. Impresa privata che aveva forse realizzato qualche lavoro per lo Stato, come tantissime altre agenzie pubblicitarie, ma non percepiva lo stipendio da un ministero.
Insomma: nessuna delle supposte stranezze dell’elenco snocciolato dagli oppositori era davvero strana.
Se fossimo a nostra volta dei complottisti, nell’elenco metteremmo il fatto che pochi mesi dopo Vladimir Cerda venne elevato a responsabile della Dirección de Protección Ciudadana, branca della polizia creata all’inizio del 2019. Con ciò, però, faremmo un pessimo servizio all’informazione. Esattamente come fa qualunque complottista.
Nulla si sa del procedimento giudiziario nei confronti dell’automobilista ubriaca. In ogni caso, fu arrestata con l’accusa di omicidio imprudente (che da noi si definisce «colposo» o «involontario»).
Seconda vicenda
Fin dalle prime ore del mattino dello stesso 2 giugno 2018, la notizia principale del giorno era relativa a Sixto Henry Vera, un ecuadoriano di nazionalità statunitense in quanto nato a New York, proprietario del bar «Tu Ranchito Sport» a Ticuantepe. Un piccolo comune a una decina di chilometri da Managua, lungo la carretera a Masaya. All’alba, il suo cadavere insanguinato, quasi completamente denudato e con un colpo di pistola alla testa, era steso sull’asfalto del ponte di Rubenia, in linea d’aria poco distante dall’Universidad politécnica (UPOLI). Accanto a lui, il suo amico Marcos Geovanny Pomares Varela, gravemente ferito. Il veicolo sul quale viaggiavano era completamente distrutto dalle fiamme. Una scena macabra che attrasse parecchi curiosi assai prima dell’arrivo della polizia.
Per coloro che da tempo non vanno a Managua, il ponte sopraelevato fu inaugurato nell’agosto del 2015, con l’eliminazione dei semafori che facevano parte della vecchia indicazione stradale: de los semáforos de Rubenia, tantas cuadras al lago y tantas abajo.
Il fatto avvenne verso le 3,30 del mattino, stando agli abitanti del luogo, ma la polizia arrivò solamente alle 7,00: la stazione di polizia più vicina, sulla Pista de la Solidaridad, è a meno di tre chilometri (Distrito V). Probabilmente si trattò di un regolamento di conti tra narcotrafficanti, per cui poco ci interessa la puntuale ricostruzione degli eventi, poiché le versioni differiscono a seconda delle fonti e degli interessi in gioco. Ciò che riteniamo abbia un peso specifico nel contesto dell’argomento informazione-propaganda è la versione ufficiale fornita dalla stessa polizia. La quale, dobbiamo presumere, faceva seguito ad accurate indagini “scientifiche”.
Immediatamente, i mezzi di comunicazione affini al governo, televisivi e radiofonici, parlarono di «Gruppi di delinquenti con cappucci, armi da fuoco, mortai e molotov che operano fuori dal settore del Politecnico», i quali avevano torturato e ucciso una persona a poche centinaia di metri dal tranque installato dagli universitari. La responsabile delle pubbliche relazioni della polizia, Vilma Rosa González, confermò questa versione.
Due giorni dopo, il 4 giugno, il comisionado de policía maggiore Sergio Gutiérrez comunicò in una conferenza stampa che un paio di responsabili erano stati identificati in Néstor Emmanuel Molina Tiffer ed Ezequiel Gamaliel Leiva García detto El Ocho. Secondo la ricostruzione dei fatti, per circa km 3 questi due soggetti avevano inseguito in moto la vittima fin dal ponte El Edén sulla Pista de la Resistencia (o Juan Pablo II) e quindi commesso l’atroce delitto. Oltre alla moto, in base alla ricostruzione della polizia, pure un veicolo inseguiva i malcapitati, dando loro la caccia. Secondo alcuni amici della vittima, però, era invece guidato da Marcos Pomares. Testimonianza che fa nascere qualche dubbio sulla ricostruzione ufficiale, ma lasciamo stare questa lieve discrepanza.
Nulla è stato detto da parte delle autorità sulle possibili motivazioni dell’inseguimento né del delitto, a parte l’accenno a un’ipotetica rapina. Neppure hanno fatto riferimento alle testimonianze dei numerosi amici che festeggiavano nel bar il compleanno del futuro assassinato, il quale ricevette una telefonata da parte di un amico che affermava di essere stato aggredito e ferito, per cui chiedeva il suo aiuto. Il che potrebbe far pensare a un’imboscata ben organizzata, poiché nessuno andrebbe in soccorso di uno sconosciuto che telefona, alle prime ore del mattino, in un periodo in cui la situazione non è tranquilla e con vari tranques lungo le strade. L’unico fatto dato per certo è che, sempre secondo la polizia, i responsabili di quella atrocità erano dei malfattori di certo in rapporto con gli studenti protestantes della vicina UPOLI. Su ciò non si poteva discutere, tanto meno contraddire la versione fornita dai mezzi di comunicazione governativi: ammettere la richiesta telefonica di aiuto da parte di un conoscente, non poteva quadrare con un certo numero di assaltatori sconosciuti intenzionati a compiere un agguato e una rapina modello Ghino di Tacco.
Sempre secondo la versione ufficiale, Sixto Vera era alla guida di una Toyota 4 Runner, con una pistola nel cassetto portaoggetti e in possesso di un regolare porto d’armi. Viene da chiedersi come sia stato possibile che i due amici, ammesso che fossero nello stesso veicolo come afferma la stessa polizia, non abbiano sparato un solo colpo dall’arma in loro possesso né abbiano cercato di investire con la loro camionetona (il Suv) i due persecutori in moto: kg 1.850 contro kg 150 al massimo. In ogni caso, sarebbe stata legittima difesa. Tralasciamo pure queste incongruenze, non chiarite e neppure accennate nelle spiegazioni ufficiali.
Ciò che fa più pensare sull’attendibilità della versione della polizia è però un altro piccolo particolare: «en las inmediaciones de Rubenia, se logró la captura de dos de los implicados». Il comunicato ufficiale recitava proprio così: «nei pressi di Rubenia, furono catturate due delle persone coinvolte». Erano i due subito identificati e i cui dati anagrafici furono comunicati prontamente ai mezzi di informazione. Si sa che i colpevoli tornano sempre sul luogo del delitto, ma in questo caso neppure si erano allontanati, anzi, a quanto pare bighellonavano tranquilli nelle vicinanze. Forse mescolati ai curiosi che si erano radunati sul luogo di una vera e propria esecuzione. Eppure…
Eppure, uno dei presunti colpevoli immediatamente catturati dalla efficientissima polizia, Ezequiel Leiva di 26 anni, in realtà era ricoverato nell’ospedale Salud Integral, ubicato dalla parte opposta della città (Montoya). Oltretutto si trovava in stato comatoso, a causa di una pallottola che il 28 maggio precedente lo aveva colpito mentre era sulla barricata della UPOLI e inizialmente fu assistito all’Hospital Bautista. Morì il successivo 17 settembre, senza mai riprendere conoscenza.
Per quanto riguarda l’altro arrestato e prontamente incarcerato, Néstor Molina, nato in una famiglia di combattenti sandinisti, fu colpito a morte alla testa e al torace mentre si trovava in un tranque di una zona rurale lontana km 190 da Managua, il 1° luglio a San Pedro de Lóvago (Chontales). Secondo la versione della polizia, stando alle parole del comisionado César Cuadra, era stato colpito nel corso di uno scontro tra opposti gruppi di delinquenti ubriachi.
Strani carcerati coloro che sono in coma da alcuni giorni o se ne vanno in giro per il Paese per farsi accoppare a una notevole distanza dal luogo dove furono catturati dalla solerte Policía Nacional. La quale, a quanto pare, non opera nell’interesse della giustizia ed essendo abituata all’inganno, è obbligata a ingannare pure se stessa.
Nulla si è saputo, in seguito, sui presunti aggressori che viaggiavano sull’altro veicolo, pure esso dato alle fiamme. Se non le invenzioni propagandistiche di un video della Juventud Sandinista, tecnicamente ben costruito ma stracolmo di incongruenze, di invenzioni e di omissioni. L’approccio assai sofisticato e in apparenza convincente della ricostruzione digitale degli eventi, aveva richiesto notevoli risorse per produrlo, per cui pare logico ritenere che l’obiettivo fosse quello di presentare una credibile versione di parte.
Un altro salto indietro nel tempo
Oltre cento anni fa, alla manifestazione del 1° maggio 1920 in piazza Statuto le Guardie Regie spararono contro il corteo dei lavoratori, uccidendone due e ferendone gravemente una quarantina. La vicenda si svolse nella Torino del primo dopoguerra, dopo un mese di dura lotta iniziata alla fine di marzo dai duemila metalmeccanici della Fiat Brevetti, ben presto allargatasi dalla Barriera di Milano a tutta la città e alla provincia con uno sciopero generale che il 14 aprile coinvolse mezzo milione di persone. Non sappiamo quante fossero secondo i provetti contabili della Questura pedemontana, però la Gazzetta del Popolo scrisse che «Questo nuovo sciopero generale ha trovato la cittadinanza calma e impassibile, già preparata e anche un po’ indifferente» (15 aprile 1920).
Lo «sciopero delle lancette» è una vicenda nota, la quale fa parte dell’immaginario collettivo della sinistra italiana e chiunque la può leggere nei libri di storia, per quanto senza i particolari che seguono.
Il 24 aprile, mentre il segretario nazionale della Cgl Ludovico d’Aragona firmava l’accordo con gli industriali, il Prefetto Paolino Taddei fece affiggere un manifesto alla cittadinanza, nel quale affermava: «Rivolgo a voi la mia parola, come vostro amico e per l’affetto grandissimo che vi porto: ascoltatela con eguale sentimento». Augurandosi pure che le «tiepide aure dell’imminente maggio» facciano sbocciare «il fiore della concordia tra i figli della stessa terra […] senza il preconcetto che la vita degli uni richieda la morte degli altri» (La Stampa, 25 aprile 1920).
A quelle poetiche e suggestive parole invitanti alla pace sociale e all’armonia, seguì l’eccidio della Festa dei lavoratori.
Pochi mesi prima era stata ripristinata la censura preventiva sulla stampa, eppure il 3 maggio 1920 i lettori piemontesi dell’Avanti! poterono leggere il corsivo «Il Prefetto», pubblicato nella prima pagina dell’edizione regionale del quotidiano socialista: «Il prefetto di Torino, comm. Taddei, è un idiota o una canaglia? Il prefetto di Torino, comm. Taddei, è una canaglia sostanziata di idiozia, il prefetto di Torino, comm. Taddei, è un vilissimo sgherro agli stipendi della classe capitalistica, uno strumento di strage, un organizzatore di eccidi proletari, un agente provocatore della guerra civile».
Il Prefetto dell’ex capitale sabauda e futuro ministro dell’Interno non sporse querela, almeno a quanto ci risulta. L’edizione piemontese dell’Avanti! continuò a uscire regolarmente, nonostante il titolo sovversivo a tutta pagina «Sorgano i vendicatori dalle ossa dei proletari assassinati!». E continuò a essere letta da almeno 30mila persone, stando ai dati di un precedente rapporto dell’Ufficio centrale d’investigazione del ministero dell’Interno sulla diffusione del quotidiano socialista (con cifre sicuramente per difetto): «A Milano 70mila copie al giorno; Roma dalle 10mila alle 15mila; quella di Torino 30mila circa» (19 marzo 1919).
In compenso, nelle cronache dello stesso 3 maggio la stampa locale cosiddetta indipendente riuscì a propagandare un inesistente ordigno esplosivo lanciato contro le forze dell’ordine dal classico anarchico con le mani in tasca, causa del comportamento successivo dei militi della Guardia Regia: «Una bomba venne in questo momento lanciata contro il gruppo degli agenti investigativi che si trovava nei pressi della guardia regia. Echeggiarono anche dei colpi di rivoltella. […] Questa è la versione che ne dà l’autorità» (La Stampa). Dal canto suo, sempre riprendendo la versione della Questura, la nazionalista Gazzetta del Popolo affermò che l’ordigno era esploso «con enorme fracasso», un boato talmente immenso che… «si credette a un colpo di rivoltella o di moschetto partito incidentalmente o per accidente». Non siamo esperti, ma ci pare che lo scoppio di una bomba faccia un suono un po’ diverso rispetto a uno sparo.
Bruno Buozzi, che si trovava a pochi passi da dove era teoricamente esploso l’ordigno, testimoniò che «Prima degli spari della guardia regia non ho inteso alcuna detonazione» (La Stampa, 4 maggio 1920). Sarà deformazione ideologica, ma crediamo più alla versione dell’allora segretario nazionale della FIOM che alla stampa cosiddetta indipendente.
Incongruenze, omissioni e invenzioni della locale Questura, all’epoca ubicata in piazza San Carlo e retta da Guido Guida, omologhe alla versione della Policía Nacional de Nicaragua ubicata in Plaza del Sol. Cambiano l’epoca e la latitudine, però… tutto il mondo è paese.
Cala il sipario. Peccato per chi c’era sotto
A che serve continuare a chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina? Domanda inutile e fuorviante, tanto che alcuni intelligentoni sostengono che siano nati contemporaneamente. Un saggio affermò che, ogni volta in cui gli chiedevano di scegliere tra A e B, pensava a quante altre lettere esistono nell’alfabeto. Dal canto nostro, pur non essendo biologi evolutivi e di certo meno saggi, sospettiamo che manchi un elemento essenziale al dilemma (chiamiamolo C): se in origine non fosse esistito il gallo, l’uovo non sarebbe mai stato fecondato e oggi non avremmo né galline né huevos de amor (come si dice in Nicaragua).
È solo una supposizione, non ne siamo certi. Poiché, come affermava Anton Čechov, «Soltanto gli imbecilli e i ciarlatani sanno e comprendono tutto» (1888). In una nota carceraria Gramsci aggiunse che «l’imbecille non può comprendere di essere imbecille» (Q. VI, § 49). Dal canto nostro, pertanto, preferiamo essere dubbiosi e confusi: «Di tutte le cose sicure, la più certa è il dubbio» (Bertolt Brecht).
Fin dai primi giorni dello scorso aprile, nelle sue quotidiane omelie sgrammaticate, ripetitive e pasticciate, la poetessa senza incertezze e incapace di qualsiasi analisi critica Rosario Murillo ha spesso fatto riferimenti più o meno diretti ai tragici fatti dell’aprile-luglio 2018. Essendo dotati di una buona dose di masochismo cerebrale, non ci perdiamo neppure uno dei suoi sproloqui, nei quali risulta evidente, da un lato, la sua strepitosa capacità di sostituire alla realtà nozioni vaghe e decorative, frutto di parole mascherate, e, dall’altro, il suo genio innato o acquisito dell’incoerenza.
Riportiamo, per la cronaca e cercando di renderle leggibili, alcune sue elucubrazioni sconclusionate di mercoledì 6 aprile, nelle quali aveva tentato di atteggiarsi a novella Marshall McLuhan, prendendo lo spunto dalla situazione dell’Ucraina e dalla faccenda di Bucha (3-4 aprile), senza mai nominare né il Paese né la specifica località: «Tempi difficili sta vivendo la famiglia umana e più difficoltà, più apprendimento. Più sapienza chiediamo a Dio… […]
«Qui ogni giorno sappiamo sempre di più di questo mondo dove la comunicazione si trasmette istantaneamente, e, beh, la difficoltà è in cosa si trasmette con la comunicazione, quanta vera verità c’è nella comunicazione, anche quanta manipolazione, quanti volti della comunicazione.
«Bene, abbiamo conosciuto la manipolazione tramite l’informazione e la comunicazione. Quante scene erano delle semplici coreografie, costruite qui, in quel disastroso aprile che tutti odiamo e che mai più tornerà. Quante scenografie abbiamo viste, le abbiamo viste, quante persone persino, e soprattutto fuori dal Paese, si sono confuse quando hanno visto questo teatro, teatro puro.
«Quello era. Per questo sappiamo che ci sono coreografie, scenografie costruite, per fingere di mobilitare le coscienze da una parte o dall’altra [inconscia ammissione freudiana?]. Lo abbiamo sofferto. Lo abbiamo vissuto.
«Alcuni volevano, quei distruttori della pace, volevano che il mondo credesse che l’insurrezione si stesse ripetendo in Nicaragua. Quello che c’era, era il crimine, il crimine organizzato, ecco quello che c’era, con produzioni coreografiche che simulavano l’epopea dell’insurrezione. Chi gli ha creduto? Nessuno! Perché le bugie hanno le gambe corte e sappiamo, come dicevamo ieri, ci conosciamo, sappiamo chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando».
…per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?
Che i cadaveri nelle strade di Bucha siano stati abbandonati dai militari russi o fossero una messinscena degli ucraini è del tutto irrilevante: senza una invasione militare e una guerra di aggressione, non sarebbe accaduto.
A suo tempo, il sopra ricordato McLuhan, che di comunicazione ci capiva qualcosina, risolse il dilemma uovo/gallina che assilla l’essere umano fin dai tempi di Adamo ed Eva, affermando che «è necessario riconoscere che la gallina è solo l’idea escogitata da un uovo per produrre altre uova» (Undestanding media, 1964). In lingua originale: «it suddenly seemed that a chicken was an egg’s idea for getting more eggs». Con questo aforisma, eliminò pure la questione del gallo (ossia la nostra C). Nello stesso anno, un altro personaggio che si avviava alla notorietà mondiale grosso modo scrisse che fare una teoria sulle comunicazioni di massa sarebbe come fare una teoria su giovedì prossimo, ovvero sul banale. All’anagrafe era registrato come Umberto Eco (Apocalittici e integrati, 1964) e, se fosse ancora tra noi, forse aggiornerebbe il suo pensiero: fare una teoria dell’attuale comunicazione digitale è come fare la teoria dei prossimi cinque minuti.
In conclusione e tralasciando l’evidenza delle recite più o meno riuscite da entrambe le parti in quel 2018, comprese quelle delle istituzioni, se trasportiamo all’Ucraina la profondissima analisi socio-politica della massmediologa Rosario, la quale naviga quotidianamente in un mare di frasi altisonanti ma in perfetta antitesi con la realtà fattuale, dal 24 febbraio in quel Paese europeo non sta accadendo nulla di particolarmente grave o inquietante. Proprio come affermano i media russi che, come tutti sanno, sono liberi di riportare testualmente le veline dell’Agenzia Stefani. Pardon, del Cremlino.
In Nicaragua esistono undici canali televisivi “nazionali”. Uno è statale, nove sono controllati dalla famiglia Ortega-Murillo e uno è privato (Canal 12), ma sta ben attento a ciò che dice per timore di essere chiuso come è accaduto a numerosi altri dall’aprile 2018 a oggi (ultimo in ordine di tempo, alla fine di maggio, il Canal Católico proprietà della Conferenza episcopale nicaraguense). Dal 25 febbraio, i primi si limitano a trasmettere i servizi di Russia Today in lingua spagnola (Actualidad RT) e, con una costanza degna di miglior causa, i commentatori locali affermano che si tratta di «una operación pacificadora» e le notizie occidentali riportano il «teatro de periodistas y medios de Ucrania».
Per la cronaca, la stessa visione è diffusa pure dall’Innominabile, il quale glorifica la sigla RT guardandosi bene dallo specificare che si tratta di Russia Today (metodo subdolo per gabbare il lettore distratto) e sostenendo che è boicottata dall’Occidente non perché è obbligata ad appoggiare l’«operazione militare speciale», bensì «a causa della posizione politica» del governo-editore al quale fa riferimento (Comunicación y manipulación, 28 marzo 2022).
Chi ha il cable e può permettersi di pagare parecchi dollari al mese (dai 25 in su), riceve la CNN in spagnolo, EuroNews, TeleFrance, BBC, la nostra mamma Rai e varie altre reti internazionali. Grazie alle quali può godersi il quotidiano teatro dei giornalisti e dei mezzi di comunicazione ucraini, con annesse scenografie e coreografie.
Sia chiaro che rifiutiamo e condanniamo qualsiasi censura, compresa quella attuale dell’Occidente nei confronti dei mezzi di comunicazione russi. Abbiamo la convinzione che le idee debbano essere combattute con le idee, non oscurando una o più voci che non ci piacciono o ci disturbano. Lo stesso discorso vale per le “liste di proscrizione”, comunque formulate e tipiche di ogni regime totalitario.
In ogni caso e in qualunque modo la pensiate, non preoccupatevi: la guerra è tutta un’invenzione dei media occidentali con la regia di Hollywood e non sta avvenendo proprio nulla. Nada de nada, rien de rien, nothing at all, gar nichts, вообще ничего… Volodia Putin ha solo deciso di far fare una scampagnata fuori porta alle proprie truppe, che si stavano rammollendo e anchilosando dentro le caserme. Non lasciatevi ingannare dalla stampa occidentale: non c’è stata e non c’è alcuna invasione, alcun bombardamento, alcuna distruzione, alcun morto, alcun profugo. È solo teatro, pura finzione, recita emotiva e coinvolgente basata sul metodo Stanislavskij, fondatore del Teatro d’arte di Mosca nel 1898.
Grazie mille, compañera Rosario per avercelo fatto capire. Adesso possiamo dormire tranquilli, senza temere la follia del dottor Stranamore e senza necessità di tracannare barili di melatonina.
Oгромное спасибо, товарищ вице-президент Росарио. Mир и дружба.