Nicaragua: gli scheletri nell’armadio del Presidente-poeta
Nel paese centroamericano lo stupro e l’abuso sessuale sono crimini molto diffusi, a partire dal caso Zoilamérica.
di Bái Qiú’ēn
La Rivoluzione Popolare Sandinista abolirà l’odiosa discriminazione che le donne hanno subìto rispetto agli uomini; stabilirà l’uguaglianza economica, politica e culturale tra donne e uomini. (Programa histórico del FSLN, 1969)
The Personal is Political. (Carol Hanisch, Notes from the Second Year: Women’s Liberation, 1970)
Restiamo umani, anche quando intorno a noi l’umanità pare si perda (Vittorio Arrigoni)
Secondo i dati di Amnesty International «Lo stupro e l’abuso sessuale sono crimini molto diffusi in Nicaragua. Più di due terzi degli stupri denunciati tra il 1998 e il 2008 in Nicaragua sono stati commessi contro ragazze sotto i 17 anni, la metà sotto i 14 anni». Secondo la propaganda embedded, Amnesty è al soldo del governo statunitense, comodo sistema per squalificare le documentate denunce di abusi e distorsioni.
Sabato 19 novembre 1979, pochi mesi dopo il trionfo della Rivoluzione Popolare Sandinista, sulle pagine del quotidiano ufficiale del FSLN Barricada (diretto da Carlos Fernando Chamorro) comparve una lunga poesia intitolata «En la prisión». Ernesto Cardenal scrisse alcune righe introduttive: «Un giorno ricevetti una poesia di un carcerato condannato a una lunga pena detentiva: era Daniel Ortega. […] in quell’epoca, qui non si poteva pubblicare la poesia di un prigioniero sandinista», per di più se era un dirigente clandestino urbano, aggiungiamo noi. Le vessazioni, i lunghi interrogatori e le torture subite da parte degli agenti dell’Ufficio per la Sicurezza Nazionale (OSN) sono brutalmente descritte nella prima strofa: «Patéalo así, así / en los güevos, en la cara / en las costillas. / Pasá el chuzo, la verga de toro, / hablá, hable hijueputa, / a ver el agua con sal, / hablaaaaá, que no te queremos joder…» [Prendilo a calci così, così / nelle palle, in faccia / nelle costole. / Passami il manganello, il frustino, / parla, parla figlio di puttana, / vai con l’acqua salata, / parlaaaaa, non vogliamo farti del male]. Una fotografia della sua gioventù dietro le sbarre.
Nel terzo capitolo del suo racconto cronachistico La sonrisa del jaguar titolato «Poetas en el día de la alegría», Salman Rushdie ricorda: «Nel settimo anniversario della fuga di Somoza con casse da morto e bauli accompagnai un noto poeta che doveva fare un’importante chiamata telefonica. Il poeta era Daniel Ortega […]. Cominciai a chiedergli della sua opera letteraria, però non sembrò gradire molto» (1987). Troncò infatti l’argomento e si limitò a poche parole generiche: «En Nicaragua todo el mundo se considera poeta, hasta que se demuestre lo contrario». Questo suo atteggiamento non era certo legato ai tragici ricordi di quel periodo dal novembre 1967 al dicembre 1974, poiché in varie occasioni nel corso degli anni lui stesso vi ha fatto riferimento. Piuttosto perché in quei versi si potevano e si possono identificare le sue paure, fobie, deviazioni emotive e persino le sue “debolezze”, una in particolare.
Era il 1986 e lo stesso anno il poeta Francisco de Asís Fernández Arellano (detto Chichi) curò la seconda edizione dell’antologia Poesía política nicaragüense, pubblicata dal Ministero della Cultura e contenente quattro poesie di Daniel (la prima edizione, stampata in Messico, risaliva al 1979 ed era ormai esaurita). Oggi in Nicaragua quel libro è praticamente introvabile, poiché le malelingue affermano che fin dalla sua uscita Rosario Murillo fece di tutto per farlo scomparire dagli scaffali delle librerie (qualche anno dopo, noi ne trovammo casualmente una copia in una bancarella di libri usati al mercato Roberto Huembes). La reazione di Daniel nei confronti di Rushdie potrebbe far pensare che lui stesso non gradisse la pubblicazione delle sue giovanili opere letterario-poetiche, ma questa possibilità s’intreccia strettamente con la lunga disputa di potere tra Rosario e il ministro della Cultura Ernesto Cardenal, proseguita oltre la morte del poeta. O, più probabilmente, per le righe conclusive della suddetta poesia, redatta in epoca imprecisata, ma stampata nel n. 67 dalla prestigiosa rivista letteraria cubana Casa de las Américas nel luglio-agosto 1971, pp. 116-7): «no conocimos a Managua / en minifalda», non ho visto Managua in minigonna. Senza dubbio, queste poche parole sono le più conosciute di tutta la produzione poetica di Daniel. «Quando in Nicaragua le gonne salirono al di sopra delle ginocchia, Ortega era in carcere», annota Rushdie senza alcuna malizia non essendo ancora nota l’imbarazzante debolezza del Comandante. Forse non a caso, però, pose come epigrafe de La sonrisa del jaguar i versi di un anonimo che, a riflettere bene, vi si adattano perfettamente: «Había una chica nicaragüense / que cabalgaba sonriendo sobre un jaguar. / Volvieron del paseo / la chica dentro / y la sonrisa en el rostro del jaguar».
Senza metterci nei panni del critico letterario (non è il nostro mestiere), è indubitabile che si tratti di un testo “poetico” assai confuso e arruffato, nel quale Daniel descrive la propria condizione di carcerato, della sua vita dietro le sbarre, come dichiara fin dal titolo. Riporta persino un brevissimo dialogo non si sa tra chi (forse lui stesso e il suo compagno di cella Jacinto Suarez): «Ayer hubo vergueo, / en la montaña», «Hablá más bajo, / la cosa está pegando» (Ieri c’è stato uno scontro in “montagna”. Parla più piano, la “cosa” sta attecchendo). Lo riteniamo un passaggio indicativo a livello psicologico: il poco più che ventenne Daniel non rimpiangeva il fatto di non poter essere “in montagna” a combattere la tirannia somozista, bensì di essersi perso la visione degli arti inferiori femminili che passeggiavano nelle strade della capitale. Non male come mentalità rivoluzionaria, ben al di là del personale-politico e indice di una tendenza machista profondamente radicata, la quale non ha né bandiera né colore politico.
Gioconda Belli ricorda che, nel corso di un pranzo ufficiale a La Habana nel corso di un vertice dei Paesi Non Allineati «Daniel Ortega mi guardava di sottecchi. Mi lanciava sguardi strani e provocatori, che evitavo, distogliendo lo sguardo. Mi era difficile credere che lo facesse proprio sotto il naso di Rosario, la sua compagna […]. Da allora – poiché lo conoscevo appena e parlava poco – l’ho classificato come un essere acquattato e oscuro, la cui interiorità doveva essere colma di complicazioni, di angoli oscuri e di ragnatele» (El país bajo mi piel, 2001, p. 357).
In una delle canzoni della campagna elettorale del 1990 è definito gallo ennavajado (gallo con gli speroni), con un evidente riferimento al tradizionale e tuttora praticato combattimento tra galli, senza però valutare che l’avversario era una donna. Che il 25 febbraio vinse la battaglia e divenne presidente della Repubblica, dando avvio al periodo neoliberista delle privatizzazioni. Non sappiamo se l’autore, Mario Montenegro, avesse valutato che la definizione gallo ennavajado potrebbe essere tradotta con «bulletto, gradasso, spaccone», ma tant’è.
Secondo le parole della comandante Leticia Herrera Sánchez, componente dello Stato Maggiore del Frente Occidental (con la quale Daniel ebbe un figlio nato nel settembre del 1978 e da lui riconosciuto come primogenito, Camilo Daniel Ortega Herrera, mentre contemporaneamente iniziava la relazione sentimentale con Rosario) «La società nicaraguense riteneva che la donna fosse lì per prendersi cura della casa e dell’uomo. Nella guerriglia non era diverso: le donne venivano usate come corrieri, spie, guardie o pulivano le case sicure» (Guerillera, mujer y comandante de la revolución sandinista, Barcelona 2013). Con Hugo Torres la comandante Myriam (o La Negra, o La Gitana) partecipò nel dicembre 1974 all’assalto alla casa di Chema Castillo, con la quale si ottenne la scarcerazione di Daniel e altri sandinisti. Dopo la pubblicazione di queste sue memorie, che dovettero circolare in forma clandestina tipo «uno spettro si aggira per il Nicaragua», fu allontanata da qualunque incarico politico. Fotocopiato, però, questo libro circolò di mano in mano.
In relazione al machismo, a suo tempo Julio Cortázar aveva rilevato la difficoltà di modificare questo aspetto deteriore delle strutture antropologiche tradizionali, «cuando incluso muchas mujeres lo defienden» (Nicaragua tan violentamente dulce, 1984). Questo scrittore argentino, deceduto nel 1984, non poteva di certo immaginare che oltre un decennio dopo la figlia di Rosario, Zoilamérica, il 22 maggio 1998 avrebbe accusato pubblicamente il patrigno di averla ripetutamente violentata fin dal 1978 (quando aveva undici anni): «Sono stata segregata nella stessa casa dove vive la famiglia Ortega Murillo, a un regime di prigionia, di persecuzione, di spionaggio e di stalking con l’obiettivo di lacerarmi il corpo e l’integrità morale e psicologica. Il mio silenzio è stata l’espressione dell’atmosfera tipica della clandestinità e l’applicazione della più stretta segretezza. Daniel Ortega, dal potere, con i suoi apparati di sicurezza e le risorse disponibili, si era assicurato per due decenni una vittima sottoposta ai suoi disegni e alla sua volontà». Dopo la denuncia del 22 maggio 1998 (nei giorni del Patto Ortega-Alemán) la militante sandinista Zoilamérica neppure poteva sospettare che la propria stessa madre difendesse il marito presunto abusatore, salvandolo da un processo penale e da una probabile condanna infamante: «È pazza… è una figlia ingrata… è stata manipolata dalla destra… dalla CIA… dall’imperialismo yanqui». Costretta all’esilio in Costa Rica, quelle parole erano un’anticipazione delle accuse rivolte da Rosario contro le migliaia di persone che protestarono nel 2018, in maggioranza sandinisti (militanti o semplici elettori).
Per maggiore sicurezza, tra gli accordi sottobanco del mefitico e tuttora vigente Patto con Arnoldo Alemán del 1998 che segnò la svolta neoliberista dell’orteguismo tradendo completamente la Rivoluzione Popolare trionfante il 19 luglio 1979, v’era una sorta di do ut des personalistico: il presidente liberale corrotto fino al midollo si sarebbe salvato dal carcere (con una condanna a venti anni definitivamente annullata nel 2009, due anni dopo il ritorno di Daniel alla presidenza) e Daniel pure. Non a caso l’opposizione lo definì il Patto tra un ladro e un pedofilo. Per non farsi mancare nulla, Daniel iniziò proprio in quel periodo a invocare sempre più spesso il nome di Dio. Si sa che tutti i monarchi sono tali «per grazia di Dio e volontà della nazione» e per sua fortuna, Daniel non viveva più all’epoca dell’Antico Testamento, altrimenti sarebbe stato fulminato dal Cielo: è risaputo che un comandamento biblico proibisce di servirsi del nome del Signore per coprire “politicamente” abusi e ingiustizie.
Il lettore penserà, giustamente, che si tratta di una vicenda vecchia e ammuffita, dopo venticinque anni ormai sepolta nella polvere del tempo. Un proverbio spagnolo, però, recita: «El lobo pierde el pelo, mas no el celo».
In un periodo molto più vicino a noi, infatti, Santos Sebastián Flores Castillo nel 2013 accusò Daniel di aver ripetutamente abusato di sua sorella Elvia Junieth a partire dal 2005 (quando la ragazza aveva 15 anni). Nel 2007 Daniel tornò alla presidenza della Repubblica e nel marzo del 2011 nacque una bambina (Camila Junieth), che Daniel non riconobbe. In compenso Santos, di professione avvocato, nel giugno 2013 fu arrestato, condannato a quindici anni e incarcerato in una cella d’isolamento con l’accusa di presunta violenza carnale nei confronti di una dipendente del Potere giudiziario (Lucila Narcisa Cortez García). Il 2 novembre 2017 Elvia Junieth dichiarò in un’intervista che «Io sono la vittima principale dell’abuso di potere del presidente del Nicaragua, Daniel Ortega Saavedra; ha distrutto la mia famiglia e ha distrutto me». La famiglia Flores Castillo, originaria di Somoto, ha una lunga tradizione di militanza sandinista. A cinquantadue anni d’età, Santos fu trovato cadavere nella cella d’isolamento l’8 novembre 2021 (il giorno successivo alle elezioni che riconfermarono Daniel alla presidenza). Non risulta che sia mai stato effettuato un semplice esame del DNA per verificare la paternità della bambina, oggi adolescente. In compenso, alcune proprietà di Santos Sebastián furono confiscate.
L’avvocato d’ufficio di Santos fu scelto dalla presidenza della Repubblica, ossia da Daniel e, guarda caso, era un tal José Ramón Rojas Méndez, difensore dello stesso Daniel nella causa con Zoilamérica, procedimento giudiziario che si bloccò assai presto per volere bipartisan dei liberali e degli orteguisti. Per la cronaca è lo stesso avvocato che nel 1998 montò l’accusa (totalmente politica) nei confronti di Ernesto Cardenal sulla gestione dell’Associazione per lo Sviluppo di Solentiname, chiedendo al poeta un indennizzo di 800mila dollari. Ma questa è un’altra brutta storia delle tante che costellano la coppia presidenziale nell’ossessione per il potere.
Poiché non c’è due senza tre, nell’ottobre 2006, in piena campagna elettorale, Daniel è denunciato per presunta violenza su un’altra minorenne: Patricia Jeannette Ortega Prado, abusata da quando aveva dodici anni. Sempre grazie al Patto con Alemán, il governo liberale di Enrique Bolaños Geyer mise tutto a tacere, ma la documentazione pare che sia ancora negli archivi del ministero della Famiglia (in un classico armadio della vergogna?). L’allora titolare di questo dicastero, Ligia Terán de Astorga, ha confermato più volte l’esistenza di un’analisi medico-psicologica ufficiale sulla bambina. Dal canto suo, il patrigno di Patricia Jeannette, mutilato di guerra e politicamente legato a Daniel, affermò che si trattava di una manovra per screditare il candidato del FSLN alla presidenza della Repubblica.
Dal canto suo, nel novembre del 2015 Zoilamérica affermò in un’intervista che «Nessuna bambina è al sicuro accanto a Daniel Ortega». Sia come sia, come direbbe il classico contadino, scarpe grosse e cervello fino: «qualcosa c’è: il cane sta abbaiando». E il vecchio caro Fabrizio de André ci ricorda continuamente che: «Oggi, un giudice come me, / lo chiede al potere se può giudicare. / Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? / vuoi essere assolto o condannato?» (Sogno numero due, 1973). A questo punto, non possiamo esimerci da alcune considerazioni, anche perché non è infrequente in Nicaragua sentire l’epiteto «moclín» attribuito a Daniel. Secondo il dizionario della Real Academia Española nella gergalità nicaraguense significa: «Violador de mujeres, generalmente niñas» (2022).
Pur essendo garantisti, non possiamo accettare che si abusi del proprio potere per evitare di confrontarsi con la giustizia terrena: nel maggio del 2008 la giudice Martha Lorena Quezada Saldaña decise di archiviare il procedimento di Zoilamérica, essendo caduto in prescrizione poiché l’Asamblea Nacional non ha mai concesso l’autorizzazione a procedere nei confronti di Daniel (questa magistrata, negli anni successivi, ha fatto una brillantissima carriera fino a ricoprire la carica di presidente del Tribunale d’Appello di Managua).
Quella che una parte della sinistra mondiale, cronicamente affetta da un immarcescibile culto della personalità, continua a considerare una vera e propria icona rivoluzionaria senza macchia e senza paura come un antico cavaliere della Tavola Rotonda che impugna la sua Excalibur (adesso di chiama così!). Daniel ha decisamente qualche problema di carattere etico (e con lui tutto l’attuale FSLN, ormai distante anni-luce dall’etica rivoluzionaria delle origini) e, come già nel 1999 rilevò Giulio Girardi: «credo che sarebbe un errore molto grave da parte del Fronte sottovalutare l’importanza politica della denuncia di Zoilamérica. La sottovalutano coloro che negano senz’altro la credibilità della giovane militante. La sottovalutano coloro che pretendono che si tratti di una questione puramente privata o familiare e che l’opzione per gli oppressi e le oppresse, che suppostamente ispira il progetto politico del partito, non debba ispirare la vita privata dei militanti e dei dirigenti. La sottovalutano coloro che interpretano i fatti come un complotto politico (della stessa CIA!). La sottovalutano coloro che pensano che un problema come questo si possa risolvere mettendo a tacere la discussione e serrando le fila intorno al leader carismatico. La sottovalutano coloro che pensano che il peso della cultura e della pratica maschilista in Nicaragua sia tale che episodi come questo non scandalizzino il popolo. La sottovalutano coloro che pensano che la fede rivoluzionaria si possa difendere con i metodi della santa inquisizione, condannando e scomunicando gli eretici; e che una lunga storia di violenza si possa cancellare moltiplicando le aggressioni ed altri atti di violenza contro la vittima e contro coloro che prendono partito al suo fianco. Credo che questi compagni e compagne sottovalutino anche l’intelligenza e la sensibilità del popolo del Nicaragua e degli internazionalisti quando immaginano che con simili “argomenti” possano persuadere chicchessia; che con queste dichiarazioni di “solidarietà” possano ripulire l’immagine del Fronte e del suo leader, che l’unità di un partito rivoluzionario si possa fondare sulla menzogna ed il terrore» («Opzione per gli oppressi come soggetto e fedeltà alla rivoluzione popolare sandinista ieri e oggi», Latinoamerica n. 71, settembre-dicembre 1999, pp. 96-97).
Girardi lanciò pure un diretto ed esplicito invito personale: «Francamente, Daniel, non riesco a spiegarmi questa opzione per la menzogna, dinanzi al rischio di dilapidare un patrimonio di fiducia che hai accumulato con decenni di impegno, di sacrificio e di eroismo» (p. 97). Concluse con un invito al Frente: «E quale dovrebbe essere, secondo la mia opinione, dinanzi a questa situazione, la reazione di un partito che intende essere l’avanguardia etica del popolo? Quale dovrebbe essere la reazione di un leader che si identifica con la causa del suo partito e del suo popolo? Io non vedo altra strada, compagne e compagni, che quella della verità. Quante volte, di fronte alla campagna di menzogne di cui era vittima la nostra rivoluzione, abbiamo ripetuto che la più grande alleata della rivoluzione è la verità! È il momento di ricordarlo. Percorrere la strada della verità significa in primo luogo riconoscere che la sofferta testimonianza di Zoilamérica è, nella sostanza, veritiera. Non è concepibile che una donna affronti le reazioni della sua famiglia, del suo partito, di una opinione pubblica maschilista, se non ha la ferma convinzione di essere nel vero e che la sua causa sia giusta. Non è concepibile che senza questa ferma convinzione una donna riesca a superare le sue paure, i suoi complessi di colpa, la sua insicurezza. Percorrere il cammino della verità significa, inoltre, riconoscere che il gesto di Zoilamérica non è un tradimento bensì, al contrario, un atto autenticamente liberatore e rivoluzionario, di cui il suo partito deve essere orgoglioso. Percorrere la strada della verità significa capire che la solidarietà con il Fronte Sandinista passa oggi, per gli internazionalisti di tutto il mondo, attraverso la solidarietà con Zoilamérica e non con coloro che hanno scelto la strada della menzogna e della repressione» (pp. 97-98).
Quel popolo che nel 1999 Girardi riteneva rappresentasse ancora «la parte sana del partito e l’autentico erede del suo patrimonio etico» auspicando che «in un soprassalto di coscienza e indignazione, possa riappropriarsi di un partito che è suo», nel 2018 decise di scendere in massa nelle strade e nelle piazze del Nicaragua (non solo a Managua) anche per recuperare quell’originario spirito etico che Daniel aveva tradito e continua impunemente a tradire ogni giorno con il suo assai discutibile comportamento personale e politico, mantenendosi senza deviazioni né tentennamenti sulla «strada della menzogna e della repressione».
Caro Girardi, dovunque tu sia in questo momento, il tuo sguardo umano e rivoluzionario ci manca.