Nicaragua: la fortuna dell’orteguismo

L’incapacità dell’opposizione di separare nettamente la passata storia rivoluzionaria dall’attualità non fa altro che rafforzare Daniel Ortega e Rosario Murillo.

di Bái Qiú’ēn

La fortuna non solo è cieca lei stessa, ma per lo più rende ciechi anche coloro che ha favorito. (Marco Tullio Cicerone)

È indubitabile che nel 2018 Daniel e Rosario, assieme a tutta la Corte di vassalli, videro traballare il loro potere che si basava (e in buona parte si basa tuttora) su un cocktail di tre ingredienti essenziali: la retorica fintamente partecipativa di El Pueblo presidente, l’economia neoliberista spinta all’estremo ma denominata “socialismo” e l’autoritarismo a tutti i livelli. Affinché questi tre ingredienti siano ben amalgamati è indispensabile il controllo assoluto su tutti i poteri dello Stato (esecutivo, legislativo e giudiziario). Naturalmente con una indispensabile spruzzatina di antimperialismo parolaio (la classica olivetta, che è la morte sua), per continuare a ingannare i militanti sandinisti e i sostenitori acefali in altri Paesi. Come se l’imperialismo fosse un’esclusiva degli Stati Uniti d’America e come se bastassero parole infuocate per essere di sinistra (o, addirittura, rivoluzionari).

Tutto pareva andare per il verso giusto, grazie agli accordi con gli imprenditori, con gli ex contras, con i vertici della Chiesa cattolica e il beneplacito di Washington.

Tutto pare andare a gonfie vele, eccetto alcune piccole cosette di secondaria importanza per il progresso del secondo Paese più povero del continente americano: l’incapacità (o la non volontà) di generare una vera redistribuzione della ricchezza, strettamente connessa a quella di un progresso tecnologico e innovativo (le varie attività lavorative sono scarsamente produttive poiché realizzate ancora con metodi totalmente desueti). A ciò si può aggiungere la scarsa competitività dei prodotti di esportazione. Questa mancanza di visione impedisce e impedirà qualsiasi progresso.

Dopo oltre un decennio di potere assoluto (2007-2017), il Nicaragua era ancora ben lontano da essere una società nella quale fosse realizzato, o anche soltanto avviato, il principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità».

Poco più di sei anni fa, il potere dell’ortego-chayismo parve vacillare non tanto perché fosse in atto un golpe blando (o suave), quanto piuttosto per il semplice motivo che una buona parte della base storica sandinista e soprattutto dell’elettorato gli si erano rivoltati contro, tanto che non era difficile “leggere” segnali di un possibile abbandono del potere da parte di Daniel. Dopo oltre dieci anni di promesse mai mantenute ma ripetute costantemente e integrate con sempre nuove illusioni di progetti faraonici destinati a trasformare il Nicaragua in un Paradiso terrestre, erano assai diffusi il malumore dovuto alla disillusione. Bastava chiacchierare con chiunque e le lamentele sgorgavano a fiumi. Chiunque fosse stato in Nicaragua negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, si rendeva immediatamente conto che le condizioni di vita della popolazione non erano molto diverse da quelle esistenti negli anni precedenti al ritorno di Daniel alla presidenza della Repubblica (i terribili sedici anni di neoliberismo dei neoliberisti dichiarati). La riforma orteguista di stampo fondomonetarista del sistema pensionistico fu la classica goccia che fece traboccare il vaso e il 18 aprile iniziarono i primi “vagiti” della protesta.

Non è secondario ricordare che il precedente 6 febbraio 2018 il Fondo Monetario rese pubblico un comunicato nel quale si elogiava il Buon governo di Daniel e al tempo stesso si “suggerivano” alcune misure economico-sociali tipiche di questo organismo: «Per ridurre al minimo i possibili rischi sfavorevoli, il Nicaragua deve continuare a rafforzare il proprio quadro politico, per cui dovrà: accelerare l’applicazione della legge sulla tassazione internazionale, ridurre le spese fiscali, razionalizzare i sussidi e attuare una completa riforma della previdenza sociale». per ciò che riguarda l’ultimo punto: detto e fatto.

Avendo da tempo perso il polso della situazione sociale e non avendo alcuna abitudine al ragionamento logico su ciò che può accadere se si compie una determinata azione, la riforma pensionistica fu varata con un decreto presidenziale (che l’Asamblea Nacional doveva convalidare). La notizia fece immediatamente il giro dell’intero Paese, che da anni viveva in un crescente malcontento e mugugno.

Di fronte alla crescente protesta popolare innescata da alcuni anziani e soprattutto dagli studenti universitari, pure nei ranghi della polizia si stavano aprendo alcune crepe, con defezioni di agenti (pochi per la verità) che si rifiutavano di obbedire all’ordine di sparare contro i contestatori, ossia contro il Pueblo presidente: donne, anziani, ragazzi… Tant’è che il 22 aprile Daniel fu obbligato a sospendere la riforma, quattro giorni dopo l’emanazione del suo stesso decreto, credendo ingenuamente di disinnescare le proteste. Dalla sua stessa abitazione, comunicò in diretta televisiva a reti unificate: «Revochiamo, ovvero annulliamo e mettiamo da parte la precedente risoluzione [di riforma della previdenza sociale] che è servita da innesco per l’inizio di questa situazione». Tutti sapevano che era puro e semplice fumo negli occhi e ormai era troppo tardi per i ripensamenti. È notorio che per fare una frittata occorre rompere le uova: la frittata era ormai fatta e le uova è assai difficile ricomporle. Per cui, invece di diminuire, le proteste e i contestatori crebbero giorno dopo giorno, nonostante i morti e i feriti quotidiani (come il quindicenne Álvaro Conrado colpito da un proiettile alla gola il giorno precedente, mentre portava acqua da bere ai contestatori). L’atteggiamento sempre più repressivo della polizia non fece che aumentare il livello dello scontro politico: «Patria libre y vivir» divenne lo slogan più gridato nelle strade e nelle piazze da migliaia di persone che spesso indossavano magliette con Sandino o con il comandante Guevara.

Poiché era ed è indubitabile che all’interno delle varie formazioni dell’opposizione l’ortego-chayismo avesse infiltrato propri uomini (o donne), a El Carmen si sapeva perfettamente che non esisteva alcun centro direttivo della protesta e che “dall’alto” non era stato dato alcun ordine di mobilitazione. Neppure sussisteva un progetto alternativo comune a livello politico, sociale ed economico, se non la richiesta generalizzata delle dimissioni di Daniel e dello svolgimento di nuove elezioni. Anzi, tutti e ciascuno dei vari oppositori voleva essere il caudillo della protesta e sognava di sedersi entro breve tempo sulla curul presidenziale. Quegli aspiranti caudillos erano però del tutto virtuali e basavano sul nulla la loro presunta forza: le centinaia di migliaia di persone che protestavano, soprattutto i giovani studenti universitari, non seguivano nessuno di loro e si definivano «autoconvocati».

Imprenditori (dopo aver fatto per un decennio lauti affari con l’ortego-chayismo), ex contras e gerarchia cattolica passarono dalla parte dei protestatari con l’intento non nascosto di porsi alla testa delle proteste. Qualsiasi analista politico avrebbe potuto prevedere una situazione del genere, senza grossi sforzi. Era sufficiente ripensare alla vecchia Democrazia cristiana cilena di Eduardo Frei che tolse il sostegno al governo di Unidad popular e, più o meno direttamente, favorì il golpe dell’11 settembre 1973. Le due vicende non sono sovrapponibili e la storia non si ripete, ma un uomo politico avveduto e in grado di ragionare logicamente non avrebbe dimenticato quel lontano voltafaccia.

Nel Nicaragua del 2018 i vari gruppi e i vari “leader” oppositori erano troppo diversi tra loro a livello ideologico (destra, centro, sinistra), rendendo impossibile la formazione di un gruppo dirigente alternativo e coeso che potesse davvero aspirare a sostituire quello regnante da oltre un decennio, pur utilizzando come grimaldello una protesta spontanea di massa. Anche questo piccolo particolare rende evidente l’inesistenza di un centro direttivo del supposto golpe blando.

Disarticolare quell’opposizione frastagliata e persino litigiosa non era molto difficile: era sufficiente mettere gli uni contro gli altri e la farsa del cosiddetto Dialogo nazionale ottenne il risultato voluto: seduti allo stesso tavolo i vari oppositori litigavano più spesso tra loro, piuttosto che unirsi in un programma comune contro l’ortego-chayismo. Per vari mesi, con abili giochetti da saltimbanchi, fingendo di accontentare gli uni per poi scontentarli il giorno successivo per soddisfare gli appetiti degli altri, i “negoziatori” dell’ortego-chayismo ottennero il risultato “diplomatico” di approfondire le già forti differenze esistenti all’interno dell’opposizione. Non a caso, uno dei negoziatori dell’ortego-chayismo fu il liberale ex seguace di Arnoldo Alemán e buon conoscitore della mentalità della destra locale, Wilfredo Navarro, il quale sapeva perfettamente quali tasti toccare per mantenere e approfondire le divisioni. Intanto l’ortego-chayismo guadagnava il tempo necessario per elaborare e concretizzare la propria risposta militare.

Nel frattempo, infatti, con minacce e prebende si utilizzò la polizia (coadiuvata da paramilitari) per smantellare i tranques (barricate) in vari punti del Paese, mettendo a capo dell’operazione l’ex traditore Edén Pastora, il cui nome negli anni Ottanta neppure poteva essere pronunciato.

Il camaleonte Wilfredo Navarro nel ruolo di capo “diplomatico” e l’anticomunista Edén Pastora in quello di capo militare: due personaggi dai quali nessuno acquisterebbe una bicicletta usata.

Furono comunque necessari tre mesi per tornare a una parvenza di statu quo anteriore all’aprile. Con un’accelerazione repressiva nelle prime due settimane di luglio, il 19 fu possibile celebrare l’anniversario del trionfo rivoluzionario del 1979, in nome del quale si giustificò qualsiasi azione punitiva. Una costrizione generalizzata che tuttora continua in varie forme, fino alla soppressione di istituzioni storiche come l’Academia nicaraguense de la lengua e la Croce rossa, passando persino per la chiusura di alcune ONG che si occupavano di cani e gatti randagi (attività controrivoluzionaria per antonomasia).

Nell’attualità tutti i presunti capi dell’opposizione sono all’estero, decine di mezzi di informazione sono stati chiusi (quei due o tre che ufficialmente restano operativi, se ne guardano bene dal criticare anche blandamente), il martellante lavaggio del cervello prosegue senza sosta, unito a una sempre più martellante retorica populista.

Nel 2024 il rapporto di Reporters sans frontières sulla libertà di stampa nel mondo ha collocato il Nicaragua al 163° posto su 180 Paesi, affermando che «il n’existe pour ainsi dire aucun média indépendant». Risultato negativo di tutto rispetto se si considera che, nonostante il centinaio di giornalisti assassinati a Gaza dall’esercito israeliano e l’impossibilità di informare a causa della guerra in corso, la Palestina è al 157° posto, pertanto con una condizione leggermente migliore rispetto al Nicaragua “socialista”. Il che è tutto dire.

All’estero, quello che dovrebbe essere l’embrione di una opposizione unificata (per il momento denominato genericamente «gruppo Monteverde»*) continua allegramente a litigare se debba collocarsi ideologicamente a destra, a sinistra, al centro o sulla faccia nascosta della luna. Invece di considerare come positivo il pluralismo delle idee, si pretende la massima omogeneità, come se esistesse la volontà non dichiarata di formare un nuovo partito invece di un movimento plurale con la capacità di arricchirsi con sempre nuove idee e persone: non è dato sapere se l’esclusione dei rappresentanti delle organizzazioni studentesche e sociali sia una decisione “strutturale” o casuale; è però certo che alcuni di loro hanno volontariamente rinunciato a farvi parte. Mentre prosegue pure la lotta tra le varie fazioni per il controllo di tutta l’opposizione, nemmeno una denominazione ufficiale è stata decisa: segnale indubbio di una partenza con il piede sbagliato. Alle volte si utilizza Concertación Democrática Nicaragüense (CDN) che, volutamente o meno, richiama alla mente la Coordinadora Democrática Nicaragüense degli anni Ottanta (embrione di quella che divenne l’alleanza che nel 1990 vinse le elezioni anticipate). È questa la fortuna dell’ortego-chayismo: tutti vogliono essere caudillos e nulla sono disposti a cedere agli altri sull’altare dell’unità effettiva. Così, iniziano a sorgere frange (per ora minoritarie) che prospettano la lotta armata come unica via per la soluzione del problema. A parte il fatto che, stante la situazione, i primi scontri a fuoco potrebbero essere tra le varie fazioni dell’opposizione, quali possibilità di vittoria potrebbero esistere di fronte a un sistema di potere che si regge sulla polizia e sull’esercito, entrambi ben armati e addestrati?

All’interno del Paese l’attività politica dell’opposizione è del tutto inesistente nella pratica, essendo impossibile qualsiasi forma di aggregazione e di incontro pubblico. Quel poco che esiste può essere definito come «opposizione delle catacombe», poiché nulla è possibile alla luce del sole. Persino in famiglia si ha la preoccupazione di esprimere le proprie idee, per timore di essere denunciati da un familiare e incarcerati (o espulsi dal Paese e privati della nazionalità).

Senza alcuna pretesa di indicare la via da seguire, il punto di partenza che potrebbe condurre a una vera unificazione delle varie forze dell’opposizione, dovrebbe essere la condivisione di una seria analisi storico-politica sull’involuzione del sandinismo verso l’orteguismo, ossia la negazione fattuale della storia di un movimento di liberazione che è stato trasformato in una struttura personalistica utilizzata per mantenere il potere, evidente antitesi di ciò che fu il FSLN. Finché, però, i vari gruppi della destra (e non solo) continueranno a definire “sandinismo” ciò che è l’ortego-chayismo, l’opposizione non avrà mai alcun appoggio da parte della base sandinista, per quanto insoddisfatta dell’attuale realtà ma che ancora vede in Daniel il proprio leader (spesso e volentieri giustificato in quanto “stregato” con un malvagio incantesimo dalla moglie Rosario). Soltanto quando la maggioranza della base sandinista avrà compreso che l’ortego-chayismo è la negazione totale del sandinismo (sia quello di Sandino sia quello del FSLN) sarà fatto il primo passo (strategico e ideologico) per isolare la famiglia regnante e la corte di vassalli, che agiscono esattamente al contrario di ciò che sono i princìpi e i valori del sandinismo.

La fortuna dell’ortego-chayismo è proprio questa incapacità dell’opposizione di separare nettamente la passata storia rivoluzionaria dall’attualità e l’ortego-chayismo lo sa benissimo, continuando a blaterare a livello propagandistico di sandinismo e di rivoluzione (oltre a utilizzarne ipocritamente la simbologia e la fraseologia). Continuando a definirlo «sandinismo», il risultato non può essere altro che quello di unificare in un tutto unico il bambino e l’acqua sporca.

Molti militanti storici hanno ormai la consapevolezza che l’ortego-chayismo non è neppure una deviazione del sandinismo (per quanto da esso derivato), bensì una pura e semplice usurpazione personalistica e familista. Stante però la condizione di controllo a tappeto della e sulla società, organizzarsi all’interno del Paese per ridare senso al sandinismo comporta grossi rischi a livello personale. Anche questa situazione fa parte della fortuna dell’ortego-chayismo, consentendogli di mantenere il potere nonostante non abbia l’appoggio pieno e sincero di tutti i supposti militanti: molti di loro fingono di sostenere la coppia reale per non perdere il posto di lavoro pubblico o statale (e, quindi, i quattro soldi necessari per los tres tiempos de comida), altri temono di non ricevere la misera carità ufficiale del governo e via dicendo. Ci si rende sempre più conto che anche l’individuazione del “nemico” è una pura e semplice spavalderia antimperialista, vuota retorica che assomiglia tragicamente alle inutili bracciate di chi sta per affogare e spera in un possibile salvagente.

In una contingenza mondiale come l’attuale, nel contesto degli interessi geopolitici statunitensi il Nicaragua ha oggi un’importanza del tutto marginale, se non addirittura insignificante. Altra fortuna, non da poco, per l’ortego-chayismo. Se negli anni Ottanta il Nicaragua era un esempio pericoloso per il controllo di Washington sul continente latinoamericano, nell’attualità conta come il due di coppe quando si gioca a scacchi. Qualche lettore ha forse sentito anche solo nominare il Nicaragua da uno dei due candidati in questo periodo di campagna presidenziale statunitense? Perciò paiono del tutto inutili i tentativi di recuperare importanza geo-politica grazie ad accordi economici e politici con Mosca e con Pechino o di inserirsi nei BRICS con la richiesta di poterne far parte, presentata alla fine di giugno 2023. I pruni nell’occhio di Washington sono proprio Mosca e Pechino. Managua è tutt’al più considerata un fastidioso chayul ma sostanzialmente innocuo, e non vale la pena impegnarsi troppo per allontanarlo.

Ciò non toglie che la Casa Bianca, attraverso i suoi organismi (NED, USAID ecc.), continui a sostenere e a finanziare vari gruppi dell’opposizione, pur con la consapevolezza che il più delle volte il denaro finisce nelle tasche di alcuni soggetti ai quali ben poco interessa il futuro del Nicaragua e molto il loro conto bancario.

Anche questo fa parte della fortuna dell’orteguismo.

* Questa denominazione deriva dall’Hotel Monteverde a Puntarenas (Costa Rica) dove, nell’ottobre del 2021, si riunirono alcuni esponenti dei vari gruppi oppositori. Soltanto il 28 giugno 2023, però, resero pubblica l’esistenza di questa specie di coordinamento, dopo quasi una settimana di incontri a porte chiuse in un hotel di Huston (Texas). Nessuna chiarezza sulla strategia politica di breve o lungo periodo è desumibile dal comunicato ufficiale, estremamente generico e vago: «In un incontro tenutosi nei giorni scorsi si è lavorato per formulare una proposta per la soluzione civica e democratica alla crisi in Nicaragua, che prevede l’immediata liberazione delle prigioniere e dei prigionieri politici, il ripristino della libertà e dei diritti, il ritorno in sicurezza di tutti gli esiliati. Inoltre, sono stati assunti impegni per promuovere incontri con organizzazioni simili al fine di espandere e rafforzare la lotta unitaria contro la dittatura». Nulla, assolutamente, sul futuro, forse contando sulla semplice modifica di un antico slogan: «Después de Daniel y su esposa, cualquier cosa».

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