Profughi e migranti: non è cambiato nulla
un’analisi di Fulvio Vassallo Paleologo (*) e «Mai Più, la detenzione amministrativa per migranti in Italia» di Stefano Galieni
- Il Viminale non è più una succursale della sede della Lega e non arrivano più le dirette facebook del ministro del’interno che spacciava fake-news a tutto spiano contro le ONG, violando sistematicamente il diritto internazionale, e declamando le cifre del calo degli sbarchi come un suo successo personale. Mentre nel frattempo cresceva in modo esponenziale il numero delle vittime, da calcolare in rapporto al crollo delle partenze verso l’Europa. In realtà il vero calo degli sbarchi si è verificato a partire dal 2017, con Minniti al ministero dell’interno,esattamente da quando sono andati a regime, e sono stati finanziati, gli accordi conclusi dal governo italiano dell’epoca (a guida Renzi) con le milizie libiche e con la sedicente guardia costiera “libica”, assistita e coordinata da assetti militari italiani ed europei presenti in Libia e nel Mediterraneo centrale. Quando l’Italia ha contribuito a finanziare anche milizie colluse con i trafficanti.
Cambia lo stile, ma non la sostanza. Adesso i primi provvedimenti adottati dal nuovo governo si collocano nell’ambito delle misure già predisposte con i decreti sicurezza dal governo precedente, che il ministro dell’interno Salvini non aveva saputo attuare perché troppo occupato a portare avanti la sua personale guerra di propaganda contro le ONG che soccorrevano naufraghi in acque internazionali, e a delegittimare i magistrati che indagavano su di lui. Indagini che stanno continuando ancora oggi. All’inizio del suo mandato Salvini che parlava di “retorica delle torture nei centri libici”, cercando in tutti i modi di intensificare i rapporti di collaborazione (e di finanziamento) con le autorità di Tripoli e con le principali città, come Minniti in precedenza, che aveva rinforzato la collaborazione con la guardia costiera di Tripoli e Khoms, era andato personalmente in Libia per accertarsi che la collaborazione con i miliziani libici e con il governo di Tripoli consentisse di bloccare effettivamente le partenze e di aumentare le intercettazioni in mare. Un proposito che strideva con la tutela che le Nazioni Unite richiedevano per le persone intrappolate nei centri di detenzione, sempre più esposti a torture ed a violenze di ogni genere. Anche quando sono fermati da unità della sedicente guardia costiera libica che sono fornite ed assistite dall’Italia.
Quanto afferma adesso il ministro degli esteri Di Maio sulla istituzione di una “lista di paesi terzi sicuri”, in modo da respingere più rapidamente le richieste di asilo, e quindi di velocizzare le operazioni di rimpatrio con accompagnamento forzato, che dovrebbero concludersi in un periodo inferiore a quattro mesi, costituisce un inquietante segnale di continuità con il governo precedente e lascia prevedere una quantità incontrollabile di ricorsi giurisdizionali. Si tratta infatti di una previsione già contenuta nel primo decreto sicurezza imposto da Salvini nel mese di ottobre dello scorso anno. Le procedure accelerate in frontiera non possono violare i diritti fondamentali della persona. Dopo gli eventuali dinieghi sulle richieste di asilo non si può procedere automaticamente alle operazioni di allontanamento forzato e occorre comunque verificare su base individuale e con i mezzi di ricorso già previsti dalle direttive europee e dalle leggi italiane (oltre che dalla Costituzione) che le persone non siano rimpatriate verso paesi nei quali possano comunque subire trattamenti inumani o degradanti. Il rimpatrio delle persone appena soccorse in mare e trattenute negli hotpsot, anche se ritenute “migranti economici”, è una colossale arma di distrazione di massa, ma non avrà alcun impatto sui problemi della sicurezza e dell’ordine pubblico. Non esiste una emergenza sbarchi, come non esiste una emergenza legata alla criminalità degli stranieri in Italia, che va contrastata con gli strumenti già disponibili nella nostra legislazione, senza ricorrere a misure eccezionali che avrebbero soltanto finalità elettorali. Non sfugge a nessuno del resto la portata criminogena delle politiche della sicurezza messe in atto dal governo giallo-verde.
Come al solito, come è avvenuto con i governi precedenti, si punta sulla propaganda di misure eclatanti di rimpatrio forzato, senza che l’Italia abbia una effettiva capacità di trattenimento forzato e quindi di accompagnamento in frontiera delle persone prive di uno status regolare di soggiorno che si vorrebbero allontanare, e si considerano normali migranti economici, ai quali peraltro non si garantisce nessuna possibilità di ingresso legale. Persone che sono passate dall’inferno dei centri di detenzione in Libia, e che dunque avrebbero almeno diritto alla protezione umanitaria, se il nuovo governo la ripristinasse per rispetto dei principi costituzionali e in conformità ai prevalenti indirizzi giurisprudenziali, fino alla malaugurata entrata in vigore del primo decreto sicurezza Salvini (adesso legge n.132/2018) che aboliva l’istituto della protezione umanitaria. Che sempre più spesso veniva riconosciuta ai migranti non solo per la situazione nel proprio paese di origine ma per le violenze subite nel loro transito, spesso durato anni di prigionia, in Libia. Sono queste persone, del Bangladesh o del Senegal, del Marocco o del Ghana, che continuano ad arrivare portando sul loro corpo segni di torture indelebili. La Libia non è e non sarà per lungo tempo un “paese terzo sicuro”.
Colpisce anche che, nel giorno in cui vengono riportati alla luce i torbidi retroscena che nel 2017 portarono alle intese con le milizie libiche e la guardia costiera tripolina, che poi furono e sono ancora oggi alla base della guerra contro le ONG e dei respingimenti collettivi delegati ai libici, si cerchi di deviare l’opinione pubblica su misure di rimpatrio forzato che, anche a fronte delle minime coperture finanziarie, rimarranno ancora una volta sulla carta.
Un’inchiesta esclusiva di Avvenire mostra come nella trattativa Italia-Libia aperta nel 2017 per fermate i flussi migratori verso il nostro Paese i funzionari del governo italiano abbiano trattato anche con un pericoloso criminale, che già l’Onu aveva indicato come un boss mafioso libico, e trafficante di esseri umani, di base a Zawia.
E se la centrale dei traffici era ormai trasferita da Zuwara a Zawia, restano tutti da chiarire i risvolti dell’inchiesta “Dirty Oil” che vedeva al suo centro i contrabbandieri di petrolio di Zawia che commerciavano con mafiosi maltesi e siciliani. Tutti adesso ritornati liberi. Chi controllava il traffico di esseri umani a Zawia non poteva che controllare anche il traffico di petrolio, proveniente dalla grande raffineria dell’ENI e della società libica statale NOC, tuttora operante in quella città, proprio a ridosso del porto e del centro di detenzione dove la sedicente guardia costiera libica riporta i naufraghi intercettati in mare.
Non sorprende quindi che i successivi richiami delle Nazioni Unite all’Italia, e agli altri governi europei coinvolti nelle operazioni di contrasto dell’immigrazione “illegale” nel Mediterraneo centrale, in appoggio alla sedicente guardia costiera libica, siano rimasti senza risposta, mentre il numero delle vittime, rispetto al calo delle partenze, cresceva in modo esponenziale.
- Le garanzie procedurali dello stato democratico in favore delle persone private della libertà personale, o che abbiano comunque manifestato la volontà di richiedere protezione, se si vuole restare nel solco della sentenza della Corte Costituzionale n.105 del 2001 in materia di detenzione amministrativa e rimpatri forzati, non consentiranno espulsioni o respingimenti eseguibili in quattro mesi, a meno di non introdurre norme che sarebbero immediatamente impugnate, non appena applicate, davanti la stessa Corte Costituzionale.
Come osservava allora la Corte Costituzionale, in materia di espulsione con accompagnamento forzato, “Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”.
Come abbiamo scritto quindi in materia di immigrazione ed asilo, al di là dei diversi toni propagandistici, e dell’assunzione di provvedimenti apertamente contra legem, come i divieti di ingresso nelle acque territoriali adottati da Salvini, si riscontra una totale continuità, che continua a mietere vittime tra i migranti, non solo in mare, ma anche a terra, in Libia e poi in Italia. Continuità che nella sostanza caratterizza anche la politica estera basata sul principio della “condizionalità migratoria”, di fatto sul ricatto, che le economie più forte impongono ai paesi di origine e transito perché collaborino nelle politiche di esternalizzazione e assumano il ruolo di gendarmi dei confini europei, offrendo anche la massima disponibilità a riprendersi i migranti che sono partiti o transitati sui loro territori. Anche se in quei territori si incrociano le vie dei trafficanti e di coloro che dovrebbero sorvegliare le frontiere. Per questa ragione gli articoli del decreto sicurezza bis in materia di divieti di ingresso nelle acque territoriali e di sanzioni per i comandanti e le ONG che non riconsegnano i naufraghi alla sedicente guardia costiera “libica”, in quanto titolare della vasta zona SAR “libica” inventata nel giugno del 2018, andrebbero immediatamente abrogati.
Le navi delle ONG dissequestrate dalla magistratura ma ancora sottoposte a fermo amministrativo su disposizione dei prefetti, e quindi del Viminale, devono essere liberate al più presto e tornare alle loro missioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale. Sono centinaia i migranti morti o dispersi in mare in queste ultime settimane in cui si è rarefatta la presenza delle ONG.
Il Tribunale di Agrigento, con l’ordinanza del 2 luglio 2019 che ha negato la convalida degli arresti di Carola Rackete, ha riaffermato il principio di legalità, restituendo dignità al diritto internazionale e ai diritti umani, nel quadro normativo delineato dalla nostra Carta costituzionale. Le motivazioni addotte dal Giudice per le indagini preliminari di Agrigento chiariscono che il soccorso in acque internazionali va distinto dal trasporto di clandestini, al contrario di quanto sostenuto dal ministro dell’interno. L’ordinanza del Gip di Agrigento afferma anche che il cd. decreto sicurezza bis non è applicabile alle ONG che hanno salvato vite umane in alto mare. Ed invece oggi si insiste ancora in quella direzione.
Il giudice, in sostanza, ritiene inapplicabile il decreto sicurezza bis: “Ritiene questo giudice che nessuna idoneità a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3, oltre che delle autorità nazionali, potevano rivestire le direttive ministeriali in materia di ‘porti chiusi’ o il provvedimento del ministro degli Interni di concerto con il ministero della Difesa e delle Infrastrutture che faceva divieto di ingresso, transito e sosta alla nave, nel mare nazionale, trattandosi peraltro solo di divieto sanzionato da sanzione amministrativa”…. Il dovere di soccorso dei naufraghi” non si esaurisce con la mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione al porto sicuro più vicino”.
Si tratta di una pronuncia importante, che non chiude però la fase di criminalizzazione delle attività umanitarie in favore dei migranti in fuga dalla Libia, perché nel senso comune degli italiani sembra prevalere il capovolgimento del principio di realtà e la negazione dello stato di diritto. La procura della Repubblica ha poi negato l’autorizzazione richiesta dal prefetto di Agrigento che ha adottato un decreto di espulsione della comandante Carola Rackete, come ordinato dal ministro dell’interno.
Va rilevato come anche il procuratore di Agrigento, nel corso di una audizione in Parlamento, abbia ribadito come la Libia non garantisca porti sicuri di sbarco e come dunque non siano legittimi gli ordini di riconsegna dei naufraghi alla sedicente guardia costiera libica. Lo stesso procuratore ha poi escluso qualsiasi coinvolgimento delle ONG nel traffico di migranti. Il ministro dell’interno rinnova invece i suoi attacchi contro gli operatori umanitari accusati di collusione con i trafficanti. Salvini non può continuare ad aizzare i suoi sostenitori contro gli operatori umanitari e i cittadini solidali, e non può svolgere le sue funzioni pubbliche diffamando le Organizzazioni non governative che operano soccorsi in mare e salvano vite umane.
L’ordinanza del giudice di Agrigento rende giustizia all’operato della comandante della Sea Watch 3 e sconfessa, sulla base delle prove raccolte, le accuse lanciate dal ministro dell’interno e solo in parte recepite dal procuratore della Repubblica di Agrigento.
L’Unione Europea sembra invece continuare a procedere nella medesima direzione già seguita negli ultimi anni, con le prassi di ritiro delle navi di FRONTEX ed EUNAVFOR MED e la politica dell’abbandono in mare dopo gli avvistamenti aerei. In materia di rimpatri si prospetta una nuova Direttiva (rifusione) che dovrebbe sostituire la precedente Direttiva sui rimpatri n.2008/115 prevedendo anche la possibilità di rimpatriare i minori non accompagnati, anche in assenza della individuazione del nucleo familiare di appartenenza. Anche le garanzie procedurali stabilite in favore delle persone soggette a una misura di rimpatrio forzato verranno drasticamente ridimensionate. Anche in questo caso si tratta di misure propagandistiche perché nessun paese europeo, e tanto meno l’Unione Europea, potranno mai allontanare centinaia di miglia di persone condannate alla irregolarità dalla riduzione delle possibilità di protezione internazionale e umanitaria e dall’assenza di canali legali di ingresso per i migranti economici.
Gli unici veri segni di discontinuità che i governi dovrebbero dare per non alimentare ancora di più una contrapposizione violenta tra autoctoni residenti e nuovi arrivati sarebbero costituiti dalla sospensione degli accordi con i paesi che non rispettano i diritti umani e dall’apertura di canali legali di ingresso tanto per potenziali richiedenti protezione quanto per i cosiddetti migranti economici, con un regime permanente di regolarizzazione per emersione lavorativa. Sarebbe questo l’unico strumento per ridurre davvero la “clandestinità”. Che probabilmente conviene ancora a troppi, sia per lo sfruttamento che consente sui lavoratori, che per la propaganda che permette a quanti confondono la materia dell’immigrazione con i temi della sicurezza e della difesa dei confini.
(*) ripreso da Comune info; pubblicato anche sul blog di Adif
Con il settimanale «Left» sarà in edicola (da domani o, in alcune città, da sabato) un libro sulla detenzione «amministrativa» dei migranti “irregolari” in Italia, dai CPTA ai CPR. Un tentativo di raccontare oltre 20 anni di abusi, di fallimenti, di vicende che poco sono state visibili e che pochissimo rendono onore alla storia democratica di questo Paese. Ecco l’introduzione al libro di Stefano Galieni.
“Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza” fu il nome che venne dato alle prime strutture di detenzione amministrativa per migranti sorte in Italia dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano. Correva l’anno 1998 e già da allora si diceva nel centro sinistra, che bisognava coniugare “accoglienza e sicurezza”, ponendo l’accento sempre più sul secondo termine. I CPTA, acronimo delle strutture (ma la A di assistenza venne dimenticata), vennero realizzati in maniera improvvisata prima ancora di dare loro un quadro normativo.
Per la prima volta nel nostro paese, nel resto d’Europa era già prassi, si poteva privare le persone della libertà personale in virtù del fatto che la loro presenza non era considerata regolare. La finalità dei centri riguardava gli “stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile”. Persone che non avevano commesso reati ma rinchiuse per ciò che erano. Per facilitare i rimpatri delle persone non gradite, l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano si affrettò a siglare i primi accordi bilaterali di riammissione con alcuni paesi del Nord Africa che raramente produssero i risultati sperati.
I centri, in cui si poteva restare rinchiusi fino ad un mese in attesa dell’espulsione, nacquero da un giorno all’altro e senza organicità. A Lampedusa, non c’era ancora la struttura di Contrada Imbriacola quindi le persone venivano tenute nei pressi dell’aeroporto e poi di un’ex base militare. Non risultava inquadrato come CPTA ma di fatto la sua funzione era quella. A Trapani venne preso in affitto un ospizio in disuso, il Serraino Vulpitta, e ci si realizzarono delle celle, a Roma si utilizzò parte di una caserma nei pressi dell’aeroporto di Fiumicino, a Ponte Galeria, e poi Agrigento, Bari, Brindisi. Già da allora i servizi di “assistenza” (sanità, pasti ecc.) vennero dati in gestione a imprese o cooperative che a volte partecipavano a gare pubbliche, più spesso ottenevano un affidamento diretto, con un business enorme. La sorveglianza esterna e la repressione interna in caso di emergenze era (come ancora oggi) gestita dalla locale prefettura e quindi attraverso personale dei diversi corpi dello Stato. Anche per questo furono in molti a “offrirsi” per fornire strutture adeguate, da Don Cesare Lo Deserto che fece rapidamente trasformare il suo centro Regina Pacis, prima adibito all’accoglienza, in un CPT, alle città di Milano (Via Corelli), Torino, (Corso Brunelleschi), Bologna (Via Mattei). A Modena ne sorse uno gestito dalle Misericordie il cui presidente, Daniele Giovanardi, fratello gemello del più noto uomo politico, non nascondeva pubblicamente di usare gli introiti ricavati per acquistare le ambulanze dell’ospedale di cui era primario. E poi Foggia, Crotone (Isola Capo Rizzuto) accanto a un immenso campo di accoglienza, Lamezia Terme, (gestito da un responsabile della protezione civile al posto di una comunità di accoglienza per tossicodipendenti). Nel 2006 si aprì il CPT di Gradisca D’Isonzo, ribattezzata la “Guantanamo italiana” per l’uso di tecnologia avanzata atta a impedire fughe, rivolte, socialità eccessiva fra gli “ospiti”. Sì perché chi vi era trattenuto non era considerato detenuto ma “ospite” al punto che se riusciva a fuggire, nonostante si scatenassero le caccie all’uomo, i responsabili per negligenza non potevano essere perseguiti. A Ragusa ne aprì uno solo per donne in pieno centro della città con telecamere interne alle stanze delle “ospiti” e con personale quasi esclusivamente maschile, chiuse quello di Agrigento per difficoltà di gestione e ne venne aperto uno a Caltanissetta (località Pian Del Lago), si spostò quello di Bari, per pochi mesi ne restò aperto uno a Trieste mentre nelle altre città si rese difficile la loro realizzazione sia per l’opposizione degli enti locali più spesso perché popolazione, movimenti sociali (insieme a difficoltà di reperire strutture idonee), ne impedirono la realizzazione, come nel caso di Corridonia, nel maceratese. Nel frattempo era entrata in vigore la Bossi–Fini, che raddoppiava i tempi massimi di trattenimento (da 30 a 60 giorni) ma si andava rapidamente dimostrando il fallimento di tale approccio all’immigrazione. I centri sin dalla loro apertura si erano dimostrati luoghi da cui si tentava di fuggire e in cui si moriva. La notte di Natale del 1999 veniva trovato morto, nel CPT di Ponte Galeria, Mohamed Ben Said, mascella rotta e forse imbottito di psicofarmaci. Pochi giorni dopo, il 28 dicembre, alcuni “ospiti” tentarono la fuga dal “Serraino Vulpitta” di Trapani, vennero ripresi, rimessi in cella e, sembra, uno di loro riuscì a dar fuoco al materasso. Non si trovarono le chiavi per aprire e in 6 trovarono una morte atroce (uno di loro dopo 3 mesi di agonia), non funzionavano gli estintori, insomma una strage annunciata in una struttura anche inadeguata al trattenimento.
C’è un calcolo macabro scomparso dalla storia ufficiale, quello di coloro che hanno perso la vita a causa della detenzione in questi spazi in cui non valevano e non valgono nemmeno le garanzie dei regolamenti penitenziari. Fra tentativi di fuga, mai chiariti malori, suicidi parliamo, per difetto, di una trentina di morti. Senza contare gli innumerevoli atti di autolesionismo, gli equilibri psicofisici spezzati da mesi di privazione della libertà, la repressione sempre seguita a rivolte e sommosse per la qualità del cibo, per avere colloqui con parenti e avvocati, per difficoltà strutturali derivanti da spazi pensati esclusivamente come zoo temporanei per persone.
Per parecchi anni, soprattutto fino al 2007, si sono realizzate mobilitazioni per chiedere la chiusura dei centri, giudicati dai più irriformabili, la più grande a Torino nell’inverno 2002, ma tante e in tutte le città in cui c’erano CPT o in cui si minacciava di aprirli. Mobilitazioni a volte creative e che riuscivano a parlare alla popolazione e alle persone rinchiuse, in altri casi aspramente e duramente conflittuali, spesso represse dalle forze dell’ordine.
Ma anche nei palazzi della politica, per alcuni anni, ci si interrogò sul senso di queste strutture che non sono state “imposte dall’Europa” come ha lasciato passare una vulgato pseudo progressista (l’Europa con Schengen ha solo chiesto a ogni Stato di vigilare sui propri confini), ma create più per soddisfare esigenze propagandistico securitarie che già da allora venivano utilizzate da buona parte del parlamento. Ci furono però parlamentari, senatori ed europarlamentari che cominciarono, essendo gli unici ad avere il mandato ispettivo, a visitare quei luoghi, a denunciarne le carenze e le condizioni di vita che vi venivano imposte, a provare a scardinare questo sistema. Certo, di centri ce ne erano in tutta Europa, nel 2005 (fonte Migreurop) 174, in Italia si arrivò a un massimo di 14 strutture che costarono milioni di euro l’anno e che, anche in base agli scopi per cui erano stati aperti si dimostrarono fallimentari. I dati di 14 anni fa indicano come al massimo il 48% delle persone trattenute veniva poi effettivamente rimpatriato con costi che si aggiravano attorno agli 8000/12000 euro per ogni espulsione. Il tutto per detenere 2000/3000 persone l’anno, rispetto ai dichiarati “500 mila clandestini”, in parte rinchiusi nei centri dopo periodi di detenzione in cui non erano stati identificati, i cui provvedimenti di convalida del trattenimento erano affidati a giudici di pace (mai utilizzati finora per autorizzare la limitazione della libertà personale) e che, una volta non rimpatriati, tornavano fuori in condizioni di irregolarità con l’obbligo di lasciare entro pochi giorni il territorio nazionale ma senza alcun paese intenzionato ad accoglierli.
Solo propaganda insomma e costruzione della fortezza escludente per rinchiudere il “nemico interno” e dimostrare che lo Stato si prende cura della sicurezza dei cittadini. Oltre che gli ex detenuti sono finiti nei centri persone che avevano perso il lavoro e quindi il diritto di restare in Italia, richiedenti asilo a cui non era stata riconosciuta la protezione internazionale o umanitaria, lavoratori e lavoratrici al nero (in particolar modo nel lavoro di cura), vittime di tratta per sfruttamento sessuale che non usufruivano delle normative atte a tutelarle, a volte persino minori.
Nel 2006 venne istituita una Commissione indipendente per analizzare il funzionamento dei CPT, presieduta dal diplomatico Staffan De Mistura, che presentò un suo rapporto il 1 febbraio del 2007. La conclusione era pilatesca: i CPT non dovevano essere chiusi ma “superati”, riducendo al minimo il numero delle persone da trattenere, il tutto proprio mentre si riconosceva il fallimento di tali strutture. Nel 2009 col cambio di governo, il nuovo ministro dell’Interno, Roberto Maroni, incentivò invece l’utilizzo dei trattenimenti. I CPT cambiarono acronimo diventando CIE (Centri per l’Identificazione e l’Espulsione) rompendo almeno una ipocrisia di fondo e si portò a 6 mesi il tempo massimo di trattenimento, trasformandoli di fatto in carceri senza neanche gli elementi propri di un sistema penitenziario e dando via così a un ciclo di rivolte e sommosse. Non solo non aumentò il numero dei rimpatriati (per gli stessi funzionari di polizia chi non è identificato nei primi 15 giorni raramente riesce a rientrare nei programmi di rimpatrio coattivo), ma aumentarono le rivolte e le sommosse, ancora monitorate da società civile e meno dalla politica. Uno degli aspetti poco considerati di quel periodo riguarda il cospicuo business dei CPTA. In ogni città in cui se ne creava uno era la locale prefettura a definire l’ente gestore, raramente con gara pubblica d’appalto, col risultato che c’erano centri in cui il costo di un trattenuto al giorno era di 72 euro (Modena, Misericordie di Daniele Giovanardi) e altri in cui si scese a 26 euro (Malgrado Tutto, Lamezia Terme). Si aggiunga il costo della vigilanza, affidato ai vari corpi militari e di polizia dello Stato e l’indennità percepita da ogni prefetto della città in cui nasceva un centro. In molte strutture poi, per garantire i servizi, si giunse a definire una clausola per cui, anche in caso di centro poco affollato, l’ente preposto percepiva giornalmente la somma spettante qualora i presenti fossero il 50% +1 dei posti stabiliti. Impossibile rimetterci insomma.
Nel 2011 il governo arrivò a vietare a giornalisti, operatori di organizzazioni umanitarie non accreditati, amministratori locali e a tutte le altre figure esterne, l’accesso ai CIE. Da un appello di alcuni operatori dell’informazione raccolto dalla Federazione Nazionale della Stampa e dalla mobilitazione di settori sensibili di società nacque la campagna “LasciateCIEntrare” che tentò di riportare l’attenzione su questo buco nero in cui non debbono affacciarsi scomodi testimoni.
Il governo successivo, con la ministra Cancellieri, sospese l’efficacia della circolare che vietava l’accesso ai centri ma il potere di limitare le visite restò nelle mani dei prefetti. Nel frattempo furono tante le rivolte che scoppiarono e portarono a dover chiudere sezioni dei centri quando non le intere strutture. In poco tempo i CIE aperti si ridussero a 4, ma intanto si stava entrando già nel periodo vicino ai giorni nostri.
Il ministro Minniti rinominò i centri che diventarono CPR (Centri Permanenti per il Rimpatrio). Ci sono in tutti questi cambiamenti di acronimi modifiche normative che illustreremo in seguito ma il tentativo, da anni perseguito, è quello di aprirne almeno uno in ogni regione. A oggi (settembre 2019) le strutture aperte sono 7: Torino, Roma, Bari, Brindisi, Potenza (Palazzo S. Gervasio), Caltanissetta e Trapani (Contrada Milo), a cui vanno aggiunti gli hotspot, Lampedusa, Taranto, Pozzallo, che pur non avendo ufficialmente scopi di trattenimento finiscono con svolgere tale funzione.
Prima della crisi di governo si stava lavorando alacremente per riaprire i centri di Milano e di Gradisca D’Isonzo (Gorizia), quello rimasto aperto per pochissimi mesi di Santa Maria Capua Vetere nel Casertano, uno nuovo a Macomer in Sardegna e un altro nel bresciano. Progetti che potrebbero realizzarsi presto anche se chi tenta di aggiudicarsi gli appalti per la gestione si ritrova a fare i conti col fatto che i loro predecessori sono spesso finiti sotto inchiesta per reati vari, tanto dal punto di vista amministrativo (distrazione di fondi) quanto penale per il trattamento riservato agli “ospiti”.
Infine, menzioniamo due capitoli che meriterebbero da soli ulteriori e molto attenti approfondimenti. In autunno sono previste mobilitazioni per impedire la riapertura o la apertura di CPR, per denunciare quanto sta avvenendo dopo che, se si esclude un periodo in cui i termini massimi di trattenimento erano stati riportati a 3 mesi, sono attualmente a 180 giorni con alcune forze politiche che hanno chiesto di arrivare a 18 mesi di detenzione.
Il futuro dei CPR è incerto. Tutti i tentativi di dichiararli incostituzionali sono falliti seppure la stessa sovraordinante Direttiva Europea 115/2008 considera il trattenimento come una estrema ratio e non la norma. Il primo decreto sicurezza permette a oggi di trattenere chi risulta essere privo dei requisiti per restare in Italia anche in luoghi diversi dai “CPR” ritenuti idonei. Quali sono? Zone aeroportuali, camere di sicurezza, sezioni riservate di penitenziari? Tutto è oggi possibile salvo, per chi ne fa richiesta, potersi regolarizzare e uscire dall’invisibilità.
Le strutture di detenzione amministrativa sono state pensate e potenziate come adeguate a garantire i confini europei e la “sicurezza interna”, ma si sono rivelati enormi voragini in cui sparivano persone, soldi pubblici e moriva lo Stato di diritto. Una ragione in più per parlarne con maggior cognizione di causa e per tornare a chiederne a gran voce la definitiva abolizione anche in quanto istituzioni totali dove neanche i più elementari diritti delle persone possono essere rispettate.
P.S. Il libro che proponiamo è un lavoro collettivo che non può esaurire quanto accaduto in 21 anni. Non troverete storie molto importanti e mancheremo di citare tante e tanti che nel corso degli anni si sono impegnati in lavori di ricerca, di informazione, di ascolto delle vicende qui narrate o che hanno dato vita a mobilitazioni di ogni tipo. Soggettività variegate che hanno provato a far sì che questo angolo nero di Storia italiana non venisse rimosso o dimenticato. Ma questa è soprattutto una storia di donne e uomini incontrati, anche per un solo momento nei Centri, in fuga, in ospedale, che in prima persona hanno pagato le conseguenze di un sistema ingiusto e non da ultimo, coloro che per queste ingiuste detenzioni hanno perso la vita. A loro è dedicato questo lavoro, perché nessuno possa più dire domani “io non sapevo”.
Non ci sono poteri buoni. E nemmeno governi amici. Gli innocenti devono solo sperare nell’aiuto di un qualche dio…
Mai più: La vergogna italiana dei lager per immigrati
Domenica 1 Marzo in piazza Casa Professa 1 Palermo c/o Arci porco rosso
Avvio di una mobilitazione regionale contro i CPR e i Decreti Sicurezza
ore 11:30 ASSEMBLEA REGIONALE
ore 16, 30 Presentazione del libro “Mai più. La vergogna italiana dei lager per immigrati”,
curato da Yasmine Accardo (LasciateCIEntrare) e Stefano Galieni (Associazione diritti e frontiere).
Il 18 gennaio scorso si è svolto davanti al CPR Pian del Lago di Caltanissetta un presidio indetto da Sportello Immigrati dopo la notizia del decesso, all’interno del CPR, di Aymed, un giovane tunisino morto in circostanze, poco chiare. Quel giorno dalle realtà presenti è nata l’esigenza di rilanciare un gruppo di lavoro a livello regionale sui CPR capace di studiare il fenomeno, informare su quanto accade all’interno di questi lager e costruire mobilitazioni periodiche.
A questa esigenza al momento hanno aderito realtà di varie realtà che hanno elaborato una piattaforma di pochi punti.
1. I CPR non sono migliorabili, l’unica soluzione è l’abolizione di questi luoghi di detenzione.
2. Va rivendicata a gran voce la libertà di movimento , l’apertura delle frontiere (a partire dai porti) ed il dissequestro delle navi umanitarie.
3. La campagna contro i CPR va saldata alla più generale rivendicazione di COMPLETA ABOLIZIONE dei dercreti Sicurezza e alla cessazione immediata di ogni tentativo politico, giuridico e mediatico di criminalizzazione delle Organizzazioni che Salvano vite nel mediterraneo.
Per questo invitiamo tutte e tutti, singoli e realtà politiche da tutta la Sicilia a partecipare a una
ASSEMBLEA REGIONALE a Palermo
domenica 1 marzo alle ore 11:30 al Circolo Arci Porco Rosso in Piazza casa Professa n. 1
A seguire alle ore 16, 30 si terrà al circolo Arci Porco Rosso
la presentazione del libro
“Mai più. La vergogna italiana dei lager per immigrati”,
curato da Yasmine Accardo (LasciateCIEntrare) e
Stefano Galieni (Associazione diritti e frontiere).
La presentazione del libro sarà un’opportunità per approfondire insieme degli abusi e delle violazioni di diritto che avvengono all’interno dei CPR. Portare uno sguardo all’interno di questi luoghi è importante per riflettere sul loro funzionamento. Sono strutture nate da politiche europee e nazionali precise ma ancora il loro funzionamento resta opaco ed inaccessibile, rendendoli dei luoghi in cui le violazioni dei diritti fondamentali sono all’ordine del giorno: impossibilità di chiedere l’asilo, di fare un ricorso, far rispettare il diritto alla salute.
Intervengono: Yasmine Accardo, Fulvio Vassallo Paleologo, Raffaella Cosentino
Promotori :
Sportello Immigrati Caltanissetta
Rete Antirazzista Catanese,
ARCI Porco Rosso, Palermo
Comitato antitazzista COBAS, Palermo
San Berillio Resiste, Catania
LaciateCIEntrare,
Forum Antirazzista di Palermo
ARCI Sorcio Rosso, Catania
Borderline Sicilia
“Il Cpr di Caltanissetta va chiuso”: l’appello di LasciateCIEntrare
di Serena Termini
La campagna nazionale denuncia le condizioni del centro: “inumane e degradanti”. Il tema verrà affrontato domenica 1 marzo presso l’Arci Porco Rosso di Palermo
PALERMO – Vetri rotti, bagni non funzionanti, letti con la base in cemento pieni di umidità e assistenza sanitaria scarsa e tardiva. Sono alcune delle gravi condizioni in cui sono costretti a vivere i 19 migranti dentro il Cpr (Centro per il rimpatrio) di Caltanissetta. A chiedere con forza la sua chiusura ed il riconoscimento dei diritti delle persone sottoposte a questa detenzione è la campagna nazionale LasciateCIEntrare. Nonostante, infatti, lo scorso gennaio sia morto dentro la struttura il giovane tunisino Aymen di 34 anni, la situazione non è cambiata. Secondo le informazioni raccolte da LasciateCIEntrare le 19 persone, tutte molto giovani, provenienti da Gambia, Ghana, Senegal, Tunisia e Marocco sono controllate e seguite da uno staff di 80 persone tra operatori di vario livello e polizia.
“Nonostante ci sia stato negato da sempre l’accesso, siamo in contatto con alcuni dei 19 ‘reclusi’ che ci dicono come le condizioni di permanenza dentro la struttura siano pessime e possano considerasi davvero ‘inumane e degradanti’ – sottolinea la referente nazionale della campagna LasciateCIEntrare Yasmine Accardo -. Sono persone che soffrono il freddo a causa delle finestre rotte e dei letti in muratura con materassi sottili pieni di umidità e coperte leggere non adeguate alla stagione. A questo si aggiungono i bagni rotti e l’acqua fredda. La cosa altrettanto grave è che non vengono seguiti tempestivamente dal punto di vista sanitario. Chiediamo, pertanto, con forza che il centro venga chiuso perché è in condizione di forte degrado già da aprile 2019. Anche il sindacato di polizia aveva sottolineato l’inadeguatezza della struttura anche per quanto riguardava le fognature”.
“Nessuno dice loro quanto devono ancora permanere e di conseguenza quale sarà la loro sorte – continua Yasmine Accardo -. Viviamo anche un momento molto difficile perché notiamo purtroppo l’indifferenza e la mancata disponibilità ad affrontare il tema da parte dei parlamentari italiani. Proveremo anche a coinvolgere gli euro-parlamentari. Queste 19 persone, alcune delle quali ci stanno da oltre 6 mesi, devono attraverso l’assistenza legale, avere riconosciuti i loro diritti, anche a partire da un foglio di via. Sono persone molto provate psicologicamente, stanche di questa detenzione amministrativa di tipo punitivo e repressivo e vittime di un trattamento inumano e degradante. Il sistema che è stato creato sta facendo crescere a dismisura tanti invisibili irregolari la cui violazione continua dei diritti umani non interessa a nessuno”.
“Nei giorni scorsi, di notte all’improvviso la polizia – racconta ancora Yasmine Accardo – è entrata nel Cpr di Caltanissetta per effettuare dei rimpatri a sorpresa di alcuni reclusi, che hanno iniziato una protesta per evitare la deportazione. Tra loro c’era un cittadino tunisino, S., da poco arrivato a Lampedusa e che, come tanti, non ha nemmeno avuto il tempo di chiedere i suoi diritti che è stato subito trasferito al Cpr. Durante la protesta, la polizia si è scagliata con violenza sui manifestanti e, in particolare contro S., buttandolo a terra e determinando gravi ferite alle gambe ed alla caviglia. Nonostante il dolore e la richiesta di soccorso, soltanto dopo le proteste degli altri reclusi, il giovane è stato condotto in ospedale per poi essere ‘ributtato’ nel centro. I compagni hanno ricominciato a protestare pretendendo un trattamento adeguato alla sua condizione di salute poichè nel centro non vi è mai stata adeguata assistenza sanitaria”.
“Ricordiamo che questo Cpr doveva essere chiuso in gennaio, per lavori di ristrutturazione, poichè in condizioni di inagibilità e di invivibilità. La ristrutturazione è inutile, ovviamente, riteniamo, infatti, che i Cpr vadano chiusi tutti a prescindere, perchè restano luoghi di segregazione su base etnica di persone che non hanno commesso reato. L’unico abuso, a nostro avviso, continua ad essere quello di un sistema fallimentare nella regolarizzazione delle persone che abitano il nostro territorio. Un sistema che nasconde i suoi crimini contro l’uomo e che continua a restare impunito”.
Il tema dei Cpr e di tutte le forme di detenzione amministrativa avvenute negli ultimi 20 anni verrà affrontato domenica prossima presso l’Arci Porco Rosso di Palermo. Il 1 marzo, dopo un’assemblea prevista per le ore 11, per l’occasione, alle 16.30 verrà presentato dai referenti della campagna LasciateCIEntrare e da tutta la rete antirazzista siciliana il libro “Mai più”.
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Processo Gregoretti: Al peggio non c’è fine!
Una decisione inquietante sul caso Gregoretti che mette in crisi lo Stato di diritto perche’ afferma che esiste un area di discrezionalità politica, esercitata in questo caso limitando la liberta’ personale per ottenere la redistribuzione in Europa, sottratta a qualsiasi controllo giurisdizionale.
A Catania, sul processo Gregoretti, con la complicità della Procura, questo tentativo sembra riuscito, ignorando così quello che afferma la Corte di Cassazione sulla differenza tra giudizio politico, rimesso al Palrlamento e giudizio tecnico di competenza della magistratura. Il processo Gregoretti non può essere assimilato al processo Open Arms, perché la Gregoretti era una nave militare, territorio dello Stato , alla quale non poteva applicarsi il divieto di sbarco sulla base del decreto sicurezza bis n.53 del 2019. I naufraghi non potevano certo essere sbarcati a Malta o in Spagna. Il trattenimento su quella nave era identico a quello che si sarebbe potuto verificare in una caserma di polizia italiana.
Come se oggi si fosse dichiarata la inapplicabilità dell’art. 13 della Costituzione italiana che stabilisce il principio di legalità e la riserva di giurisdizione in favore di tutte le persone private della liberta’ personale. Oggi tocca ai migranti ostaggio di una trattativa politica con l’Unione Europea, domani potrebbe toccare a qualsiasi cittadino italiano vittima di una “scelta politica” di un ministro dell’interno.
In merito al protrarsi del boicottaggio dei soccorsi in mare ed alla criminalizzazione delle Ong delle navi umanitarie facciamo appello a tutte le realtà solidali siciliane ed a livello europeo a potenziare il sostegno sociale all’apertura dei porti all’accoglienza delle e dei migranti, a impedire i respingimenti in Libia e Tunisia, a monitorare il processo Salvini/Open Arms a Palermo (prossima udienza il 15 settembre), affinché non si ripetano indebite limitazioni della libertà personale per finalita’ di trattativa politica e per odiose strumentalizzazioni elettorali .
Non in nostro nome, Noi vi accusiamo!
Ct 14 maggio 2021
ADIF, LasciateCIEntrare, Rete Antirazzista Catanese, Accoglienza ControVento
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http://www.mediterraneocronaca.it/2021/05/14/salvini-la-spunta-a-catania-ma-la-magistratura-perde-in-tutta-italia/?fbclid=IwAR3KDPlRYlEP6iQQJKtKaYdCFgQnybqExnzaoukT8LSjdzqwVvE8JS-WGKQ
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/caso-gregoretti-il-gup-archivia-le-accuse-per-salvini?fbclid=IwAR1oxbI-e-QFAYeUNxY_cXYyFR0AN63yBNar3Uf5YyBXc9sdEWSOUk9HFcE