Non evitare le parole: “Genocidio”, “Pulizia Etnica” e “Territorio Occupato”
Gaza. 1944
articoli e video di Michael Hudson, Richard Falk, Elena Basile, Jonathan Cook, Bruna Bianchi, Human Right Watch, Jeremy Scahill, Ryan Grim, Ariella Aïsha Azoulay, Tamir Sorek, Linda Xheza, Pepe Escobar, Clara Statello
Un documento trapelato dal New York Times su Gaza dice ai giornalisti di evitare le parole: “Genocidio”, “Pulizia Etnica” e “Territorio Occupato” – Jeremy Scahill e Ryan Grim
Il New York Times ha dato istruzioni ai giornalisti che si occupavano della guerra di Israele nella Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini “Genocidio” e “Pulizia Etnica” e di “evitare” di usare l’espressione “Territorio Occupato” nel descrivere la terra palestinese, secondo una copia trapelata di un documento interno.
La circolare interna dà inoltre istruzioni ai giornalisti di non usare la parola Palestina “tranne in casi molto rari” e di evitare il termine “Campi Profughi” per descrivere le aree di Gaza storicamente abitate da palestinesi sfollati espulsi da altre parti della Palestina durante le precedenti guerre arabo-israeliane. Le aree sono riconosciute dalle Nazioni Unite come campi profughi e ospitano centinaia di migliaia di rifugiati registrati.
Il documento, scritto dal principale editore del Times Susan Wessling, dall’editore internazionale Philip Pan e dai loro delegati, “offre indicazioni su alcuni termini e altre questioni con cui ci siamo confrontati dall’inizio del conflitto in ottobre”.
Sebbene il documento sia presentato come uno schema per mantenere principi giornalistici oggettivi nel riferire sulla guerra di Gaza, diversi membri del personale del Times hanno dichiarato che alcuni dei suoi contenuti mostrano prove della passività del giornale nei confronti delle narrazioni israeliane.
“Penso che sia il genere di cose che sembrano professionali e logiche se non si ha conoscenza del contesto storico del conflitto israelo-palestinese”, ha detto un giornalista della redazione del Times, che ha chiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, riguardo il documento su Gaza. “Ma se lo sai, sarà chiaro quanto sia dispiaciuto per Israele”.
Inviata per la prima volta ai giornalisti del Times a novembre, la guida, che raccoglieva e ampliava le precedenti direttive sul conflitto israelo-palestinese, è stata regolarmente aggiornata nei mesi successivi. Presenta una finestra interna sul pensiero degli editori internazionali del Times mentre affrontano gli sconvolgimenti all’interno della redazione che circondano la copertura del giornale sulla guerra di Gaza…
La Nakba ha colpito anche gli ebrei – Ariella Aïsha Azoulay
Intervista di Linda Xheza
La regista e accademica ebrea-palestinese Ariella Aïsha Azoulay sostiene che le potenze occidentali si sono servite del sionismo per liberarsi delle comunità sopravvissute alla Shoah e al tempo stesso razzializzare i palestinesi
Nata in Israele, Ariella Aïsha Azoulay, regista, curatrice e accademica, rifiuta l’identità israeliana. Prima di diventare israeliana all’età di diciannove anni, sua madre era semplicemente un’ebrea palestinese. Per gran parte della storia non c’è stato nulla di strano in questa combinazione di parole. In Palestina, per secoli, una minoranza ebraica ha convissuto pacificamente accanto alla maggioranza musulmana.
La situazione è cambiata con il movimento sionista e la fondazione di Israele. La pulizia etnica degli ebrei dall’Europa ha condotto, grazie ai sionisti europei, non solo a quella dei musulmani dalla Palestina ma anche degli ebrei del resto del Medio Oriente, con quasi un milione di persone in fuga a seguito della guerra arabo-israeliana del 1948, molti dei quali in Israele.
Azoulay, professoressa di letteratura comparata alla Brown e autrice di Potential History: Unlearning Imperialism (Verso, 2019), contestualizza il genocidio di Israele a Gaza nella lunga storia dell’imperialismo europeo e statunitense
Ti definisci ebrea palestinese. Potresti dirci di più a riguardo? Per molte persone queste parole sono in opposizione.
Il fatto che questi termini siano intesi come mutualmente esclusivi o in opposizione, come suggerisci, è un sintomo di due secoli di violenza. Nel giro di poche generazioni, diversi ebrei che vivevano in tutto il mondo sono stati privati dei loro vari attaccamenti alla terra, alle lingue, alle comunità, alle occupazioni e alle forme di condivisione del mondo.
La questione che dovrebbe preoccuparci non è come dare un senso alla presunta impossibilità di un’identità ebraico-palestinese, ma piuttosto il contrario: com’è possibile che l’identità fabbricata conosciuta come israeliana sia stata riconosciuta come normale da molti in tutto il mondo dopo la creazione dello stato in Israele nel 1948? Questa identità non oscura soltanto la storia e la memoria delle diverse comunità e forme di vita ebraica, oscura anche la storia e la memoria di ciò che l’Europa ha fatto agli ebrei in Europa, in Africa e in Asia nei suoi progetti coloniali.
Israele ha un interesse condiviso con quelle potenze imperiali a oscurare il fatto che «lo Stato di Israele non è stato creato per la salvezza degli ebrei; è stato creato per la salvezza degli interessi occidentali», come scrisse James Baldwin nel 1979 nella sua Lettera aperta ai rinati. Nel suo testo, Baldwin paragona lucidamente il progetto coloniale euro-americano per gli ebrei al progetto americano per i neri in Liberia: «Gli americani bianchi responsabili dell’invio di schiavi neri in Liberia (dove sono ancora schiavi per la piantagione di gomma Firestone) non l’hanno fatto per liberarli. Li disprezzavano e volevano liberarsene».
Prima della proclamazione dello Stato di Israele e del suo immediato riconoscimento da parte delle potenze imperiali, l’identità ebraico-palestinese era una delle tante che esistevano in Palestina. Il termine «palestinese» non aveva ancora un significato razzializzato. I miei antenati materni, che furono espulsi dalla Spagna alla fine del XV secolo, finirono in Palestina prima che il movimento euro-sionista iniziasse le sue azioni lì e prima che il movimento iniziasse gradualmente a confondere l’assistenza agli ebrei in risposta agli attacchi antisemiti in Europa con l’imposizione di un progetto di colonizzazione sul modello europeo a cui gli ebrei possono partecipare – un progetto non solo interpretato come liberazione ebraica ma basato sulla crociata europea contro gli arabi. La decolonizzazione richiede il recupero delle identità plurali che un tempo esistevano in Palestina e in altri luoghi dell’Impero Ottomano, in particolare quelle in cui ebrei e musulmani coesistevano.
Nel tuo film più recente, The World Like a Jewel in the Hand, parli della distruzione di un mondo ebraico-musulmano condiviso. Metti in primo piano l’appello degli ebrei che, alla fine degli anni Quaranta, rifiutarono la campagna sionista europea e esortarono i loro compagni ebrei a resistere alla distruzione della Palestina. Considerata la recente distruzione di vite umane, infrastrutture e monumenti a Gaza, pensi che sia ancora possibile per ebrei e musulmani rivendicare un mondo condiviso?
Innanzitutto c’è la storia. I sionisti hanno cercato di cancellare per sempre dalla nostra memoria questo appello degli ebrei antisionisti. Questi anziani ebrei facevano parte di un mondo ebraico-musulmano e non volevano allontanarsene. Mettevano in guardia contro il pericolo che il sionismo rappresentava per gli ebrei come loro in tutto il mondo che esisteva tra il Nord Africa e il Medio Oriente, compresa la Palestina.
Dobbiamo ricordare che fino alla fine della Seconda guerra mondiale, il sionismo era un movimento marginale e poco importante tra i popoli ebrei di tutto il mondo. Quindi, fino a quel momento, i nostri anziani non dovevano nemmeno opporsi al sionismo; potevano semplicemente ignorarlo. Fu solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando gli ebrei sopravvissuti in Europa – che per la maggior parte non erano sionisti prima della guerra – non avevano quasi nessun posto dove andare, che le potenze imperiali euro-americane colsero l’opportunità di sostenere il progetto sionista. Per loro, si trattava di una valida alternativa alla permanenza degli ebrei in Europa o alla migrazione negli Stati uniti, e utilizzarono gli organismi internazionali da loro creati per accelerarne la realizzazione.
Così facendo, propagarono la menzogna secondo cui le loro azioni costituivano un progetto di liberazione ebraica, mentre, in realtà, questo progetto perpetuava lo sradicamento di diverse comunità ebraiche lontano dall’Europa. E, cosa ancora peggiore, la liberazione ebraica venne usata come licenza e motivo per distruggere la Palestina. Ciò non avrebbe potuto essere perseguito senza che un numero crescente di ebrei diventassero mercenari d’Europa: gli ebrei che erano emigrati in Palestina mentre fuggivano dal genocidio in Europa o dopo essere sopravvissuti, gli ebrei palestinesi che precedettero l’arrivo dei sionisti e quegli ebrei che furono attirati a venire in Palestina o non avevano altra scelta se non quella di abbandonare il mondo ebraico-musulmano da quando Israele è stato istituito, con un programma chiaro: essere uno stato anti-musulmano e anti-arabo. Tutti sono stati spinti dall’Europa e dai sionisti europei a vedere arabi e musulmani come loro nemici.
Non dobbiamo dimenticare che i musulmani e gli arabi non sono mai stati nemici degli ebrei e, inoltre, che molti di questi ebrei che vivevano nel mondo a maggioranza musulmana erano essi stessi arabi. È solo con la creazione dello Stato di Israele che queste due categorie – ebrei e arabi – si escludono a vicenda.
La distruzione di questo mondo ebraico-musulmano in seguito alla Seconda guerra mondiale permise l’invenzione di una tradizione giudaico-cristiana, che sarebbe diventata, da quel momento in poi, una realtà, poiché gli ebrei non vivevano più al di fuori del mondo cristiano occidentale. La sopravvivenza di un regime ebraico in Israele richiedeva più coloni, e quindi gli ebrei del mondo ebraico-musulmano furono costretti ad andarsene per diventare parte di questo stato etnico. Distaccati e privati delle loro storie ricche e diversificate, finirono per essere socializzati al ruolo assegnato loro dall’Europa: mercenari di questo regime coloniale di insediamento per ripristinare il potere occidentale in Medio Oriente.
Comprendere questo contesto storico non riduce la responsabilità degli autori sionisti per i crimini commessi contro i palestinesi nel corso dei decenni; piuttosto, ricorda il ruolo dell’Europa nella distruzione e nello sterminio delle comunità ebraiche principalmente, ma non solo, in Europa, e il suo ruolo nella consegna della Palestina ai sionisti, i presunti rappresentanti dei sopravvissuti a questo genocidio che formarono una postazione occidentale per questi stessi attori europei in Medio Oriente.
Paradossalmente, l’unico posto al mondo in cui ebrei e arabi – la maggior parte dei quali musulmani – condividono oggi lo stesso pezzo di terra è tra il fiume e il mare. Ma dal 1948 questo luogo è stato caratterizzato dalla violenza genocida. Le domande urgenti ora sono come fermare il genocidio e come fermare l’introduzione di più armi in quest’area.
Ne La banalità del male, Hannah Arendt descrive i sentimenti contraddittori provati dagli ebrei sopravvissuti all’Olocausto durante gli anni trascorsi nei campi per sfollati in Europa. Da un lato, sosteneva, l’ultima cosa che potevano immaginare era di vivere ancora una volta con gli autori del reato; d’altra parte, disse, la cosa che desideravano di più era tornare ai loro posti. Non dovrebbe sorprenderci che, dopo questo genocidio a Gaza, i palestinesi potrebbero non essere in grado di immaginare di condividere un mondo con i loro autori, gli israeliani. Tuttavia, è questa una prova che anche questo mondo, dove arabi ed ebrei sionisti si sono ritrovati insieme, dovrebbe essere distrutto per ricostruire la Palestina dalle ceneri? È solo nell’immaginazione politica imperiale euro-americana che una tragedia della portata della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto avrebbe potuto concludersi con soluzioni brutali come le spartizioni, i trasferimenti di popolazione, l’indipendenza etnica e la distruzione di mondi.
Noi, su scala globale, abbiamo l’obbligo di rivendicare quello che ho chiamato il diritto a non essere autori di reati e di esercitarlo in ogni modo possibile. Lavoratori portuali che si rifiutano di spedire armi in Israele, studenti che si impegnano in scioperi della fame per fare pressione sulle loro università affinché disinvestano dalle aziende che traggono profitto dalle violazioni dei diritti umani in Palestina, ebrei che sconvolgono le loro comunità e famiglie e rivendicano i loro diritti ancestrali di essere e parlare come antisionisti, manifestanti che occupano edifici statali e stazioni ferroviarie e rischiano di essere arrestati: sono tutti motivati da questo diritto anche se non lo articolano in questi termini. Capiscono il ruolo che i loro governi, e più in generale i regimi sotto i quali sono governati come cittadini, svolgono nella perpetuazione di questo genocidio, e capiscono, come recita lo slogan, che ciò viene fatto in loro nome.
Sono ebrei anche coloro che chiedono il cessate il fuoco. Ma anche le voci ebraiche vengono messe a tacere. In Germania, ad esempio, il lavoro di artisti ebrei affermati è stato cancellato. Pensi che ci sia un interesse a rafforzare una narrativa dominante in vigore dal 1948 da parte dell’Occidente e dello Stato di Israele, sopprimendo al tempo stesso le voci ebraiche che si oppongono alla violenza perpetrata in loro nome?
È vero che le voci ebraiche vengono messe a tacere, non è certo una novità. Le voci degli ebrei furono messe a tacere subito dopo la Seconda guerra mondiale, quando ai sopravvissuti non fu lasciata altra scelta se non quella di rimanere per anni nei campi sradicati. Durante quel periodo, le proprietà saccheggiate dalle loro comunità, anziché essere restituite ai luoghi europei da cui erano state depredate, furono divise come trofei dalla Biblioteca nazionale di Gerusalemme e dalla Biblioteca del Congresso di Washington. E non solo il trauma collettivo dei sopravvissuti – e di noi, i loro discendenti – non è stato preso in considerazione, ma siamo stati messi a tacere attraverso questa menzogna di un progetto di liberazione basato su una narrativa sionista di liberazione attraverso la colonizzazione della Palestina, che a sua volta avrebbe fornito alle potenze euro-americane un’altra colonia al servizio dei propri interessi imperiali.
L’eccezionalizzazione della sofferenza degli ebrei non era un progetto discorsivo ebraico ma occidentale, parte dell’eccezionalizzazione della violenza genocida dei nazisti. Nella grande narrazione del trionfo occidentale su questa forza estrema del male, lo Stato di Israele è diventato un emblema della forza d’animo occidentale e ha segnato la resistenza del progetto imperiale euro-americano. All’interno di questa grande narrazione, gli ebrei furono costretti a trasformarsi da sopravvissuti traumatizzati in carnefci. Ebrei provenienti da tutto il mondo furono inviati per vincere una battaglia demografica, senza la quale il regime israeliano non avrebbe potuto durare. La seconda e la terza generazione nate da questo progetto sono nate senza storie o ricordi dei loro antenati antisionisti o non sionisti, per non parlare dei ricordi degli altri mondi di cui facevano parte i loro antenati. Inoltre, erano totalmente dissociati dalla storia di quella che era la Palestina e dalla sua distruzione. Pertanto, furono facili prede per uno stato-nazione commercializzato dai sionisti e dalle potenze euro-americane come il culmine della liberazione ebraica.
La Nakba, in questo senso, non è stata solo una campagna genocida contro i palestinesi ma, allo stesso tempo, anche contro gli ebrei, ai quali l’Europa ha imposto un’altra «soluzione» dopo quella finale. Senza i massicci finanziamenti e le armi delle potenze imperiali, le uccisioni di massa a Gaza sarebbero cessate in breve tempo, e gli israeliani avrebbero dovuto chiedersi cosa stavano facendo, come sono arrivati a questo punto, sarebbero stati costretti a fare i conti con il 7 ottobre e a chiedersi perché è successo e come si può realizzare una vita sostenibile per tutti tra il fiume e il mare.
Le voci ebraiche in luoghi come la Germania o la Francia continuano a essere le prime messe a tacere per mantenere sia la colonia sionista sia la coesione artefatta di un popolo ebraico rappresentato da forze che sostengono il progetto euro-americano di supremazia bianca. Ma la natura genocida del regime israeliano è stata svelata e non può più essere nascosta a nessuno.
Pensi che ci sia ancora una speranza per i palestinesi e per tutti noi che vogliamo rivendicare un mondo da condividere con gli altri?
Se non c’è speranza per i palestinesi, non c’è speranza per nessuno di noi. La battaglia della Palestina va oltre la Palestina, e i tanti che protestano in tutto il mondo lo sanno.
* Ariella Aïsha Azoulay è una saggista cinematografica, curatrice e professoressa di cultura moderna e letteratura comparata alla Brown University. Linda Xheza si occupa di fotografia e immigrazione alla Amsterdam School for Cultural Analysis, Università di Amsterdam. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
Guerra regionale: tempismo perfetto per espellere i palestinesi – Tamir Sorek
Rabbini del Sionismo Religioso lo dicono esplicitamente: non può esserci Pulizia Etnica senza una guerra totale (un milione furono espulsi nelle guerre del 1948 e del 1967), e non può esserci Pulizia Etnica globale oggi senza una grande guerra.
Opportunisti come Netanyahu e imbecilli come Gantz e Galant reagiscono solo agli eventi senza alcuna strategia. Pertanto, coloro che determinano la direzione politica del governo israeliano sono quei ministri che hanno una visione del mondo strutturata e un obiettivo chiaro a cui aspirano. Se il “miracolo” del 7 ottobre è stato una grande spinta al Sionismo Religioso, immaginate cosa potrebbe fare una guerra regionale con edifici in fiamme nel cuore delle nostre città.
Non può esserci Pulizia Etnica senza una guerra totale (un milione di persone furono espulse nelle guerre del 1948 e del 1967), e non può esserci Pulizia Etnica globale senza una grande guerra. I Rabbini del Sionismo Religioso lo dicono esplicitamente. Ecco la dichiarazione di Eliezer Melamed, capo della yeshivah (scuola religiosa ebraica) dell’insediamento di Har Bracha, impiegato statale:
“Pertanto, solo dopo aver espulso tutti coloro che si identificano apertamente come nostri nemici, siano essi all’interno o all’esterno della Linea Verde, potremo offrire alla popolazione rimasta la vera scelta: vivere qui come residenti secondo i principi di moralità e giustizia incarnati nella tradizione ebraica (senza diritto di voto) o immigrati in un altro Paese.
“Tutte queste cose dovrebbero applicarsi nell’ambito di conflitti limitati, ma in guerra le regole sono diverse: non esaminiamo ogni persona come individuo, ci relazioniamo invece con la comunità che ci è ostile nel suo insieme, e poi, oltre a lottare per vincere una battaglia della guerra, devono cambiare le regole, l’intera popolazione deve essere espulsa e solo coloro che notoriamente ci hanno sostenuto nella pratica potranno essere ammessi rimanere”.
(Per coloro che cercano riferimenti, tra i diplomati di questa yeshivah ci sono il comandante della Brigata della Giudea, Yishai Rosilio, e il capo del Dipartimento Legale del Forum Kohelet, Aviad Bakshi)
Il “Piano di Trionfo” di Smotrich si basa sulla stessa logica ma è espresso in un linguaggio più diplomatico. Ma anche secondo esso, solo la volontà di vivere sotto un Regime di Apartheid farà guadagnare agli arabi la licenza di rimanere nel Paese e, per il resto, “adattarsi alle circostanze”. Ma non è tutto. “Non abbiamo approfondito questo aspetto qui”, scrive Smotrich, “ma il Piano di Trionfo deve essere accompagnato da una serie di piani per migliorare l’equilibrio demografico”.
Quindi proprio qui e ora il piano diventa realtà. Per coloro che sostengono il Piano di Trionfo, la crescente ostilità nei confronti dell’Iran e il costante sforzo di presentare agli israeliani un senso di minaccia esistenziale fanno parte di un piano, non di un incidente. Il Messia è alle porte e i sussulti si sentono già.
E quelli che fanno il lavoro sporco? Scrivono articoli contro Judith Butler e rimproverano i pochi israeliani che cercano di fermare questa follia.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
Il genocidio di Gaza come politica esplicita: Michael Hudson elenca tutti i nomi,
di Pepe Escobar
In quello che può essere considerato fino ad oggi il podcast più cruciale del 2024 [1], il professor Michael Hudson – autore di opere fondamentali come Super-Imperialism e il recente The Collapse of Antiquity, tra gli altri – stabilisce clinicamente il contesto essenziale per comprendere l’impensabile: un genocidio del 21° secolo trasmesso in diretta 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in tutto il pianeta.
In uno scambio di e-mail, il Prof. Hudson ha spiegato che ora sta sostanzialmente “svuotando il sacco” su come, “50 anni fa, quando lavoravo all’Hudson Institute con Herman Kahn [il modello per il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick], i membri del Mossad israeliano venivano addestrati, tra cui Uzi Arad. Ho fatto due viaggi internazionali con lui e mi ha descritto più o meno quello che sta succedendo oggi. È diventato capo del Mossad e ora è il consigliere di Netanhayu”.
Il professor Hudson dimostra come “il piano di base di Gaza è lo stesso che Kahn progettò con la divisione in settori della guerra del Vietnam, con canali che tagliavano ogni villaggio, come stanno facendo gli israeliani con i palestinesi. Inoltre, già all’epoca, Kahn individuò il Belucistan come l’area in cui fomentare disordini in Iran e nel resto della regione”.
Non è un caso che il Belucistan sia stato per decenni un territorio gioiello della CIA, e recentemente con l’ulteriore incentivo dell’interruzione con ogni mezzo necessario del corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC) – un nodo chiave della connettività per l’Iniziativa cinese del Belt and Road (BRI).
Il professor Hudson poi collega i punti principali: “Per quanto ho capito, ciò che gli Stati Uniti stanno facendo con Israele è una prova generale per passare poi all’Iran e al Mar Cinese Meridionale. Come sapete, non esiste un piano B nella strategia americana per un’ottima ragione: se qualcuno critica il piano A, non viene considerato un giocatore della loro squadra (o addirittura il burattino di Putin), quindi chi critica deve andarsene quando si accorgono di non avere la sua collaborazione. Ecco perché gli strateghi statunitensi non si fermeranno e riconsidereranno ciò che stanno facendo”.
Isolarli in insediamenti strategici per poi uccideteli
Nel nostro scambio di email, il Prof. Hudson ha sottolineato “questo è fondamentalmente ciò che ho detto” nel podcast con Ania K, attingendo ai suoi appunti (qui la trascrizione completa e rivista [2]). Allacciate le cinture di sicurezza: la verità nuda e cruda è più letale di un missile ipersonico.
Sulla strategia militare sionista a Gaza racconta:
“Il mio background negli anni ’70 è stato all’Hudson Institute con Uzi Arad e altri tirocinanti del Mossad. Il mio campo di studio era il BoP [la Bilancia dei Pagamenti], ma ho partecipato a molte riunioni in cui si discuteva di strategia militare e sono andato in aereo due volte in Asia con Uzi e ho avuto modo di conoscerlo.
La strategia statunitense/israeliana a Gaza si basa per molti versi sul piano di Herman Kahn attuato in Vietnam negli anni ’60.
L’interesse principale di Herman era l’analisi dei sistemi. Si inizia definendo l’obiettivo generale e poi ci si domanda come possiamo raggiungerlo?
Come prima cosa isolandoli in Insediamenti Strategici. Gaza è stata suddivisa in distretti, dove si chiedono pass elettronici per passare da un settore all’altro o per andare nell’Israele ebraico a lavorare.
Poi si inizia a ucciderli. Idealmente con bombardamenti, perché questo riduce al minimo le vittime nel tuo esercito.
Il genocidio a cui stiamo assistendo oggi è la politica esplicita dei fondatori di Israele: l’idea di “una terra senza popolo” vuol dire una terra senza persone non ebree. Bisognava cacciarli – già prima della fondazione ufficiale di Israele, durante la prima Nakba, l’olocausto arabo.
Due primi ministri israeliani erano membri della banda terroristica Stern. Fuggirono dal carcere britannico e si unirono per fondare Israele.
Ciò a cui stiamo assistendo oggi è la soluzione finale di questo piano. Che si adatta anche al desiderio degli Stati Uniti di controllare il Medio Oriente e le sue riserve petrolifere. Per la diplomazia americana, il Medio Oriente è (in maiuscolo) il petrolio. E l’Isis fa parte della legione straniera americana sin da quando fu organizzato per la prima volta in Afghanistan per combattere i russi.
Ecco perché la politica israeliana viene coordinata con gli Stati Uniti. Israele è la principale oligarchia cliente degli Stati Uniti in Medio Oriente. Il Mossad si occupa della maggior parte della gestione dell’Isis in Siria e Iraq, e ovunque gli Stati Uniti vogliano inviare i terroristi dell’Isis. Il terrorismo e perfino l’attuale genocidio sono centrali per la geopolitica statunitense.
Ma come gli Stati Uniti hanno appreso durante la guerra del Vietnam, le popolazioni protestano e votano contro il presidente che supervisiona questa guerra. Lyndon Johnson non poteva apparire in pubblico senza i fischi della folla. Doveva sgattaiolare dall’ingresso di servizio degli hotel dove aveva parlato.
Per evitare situazioni imbarazzanti come quella di Seymour Hersh che descrive il massacro di My Lai, si devono bloccare i giornalisti dal campo di battaglia. Se sono lì, bisogna ucciderli. Il team Biden-Netanyahu ha preso di mira soprattutto i giornalisti.
Quindi l’ideale è uccidere indirettamente la popolazione, per ridurre al minimo i bombardamenti visibili. Ma la linea di minor resistenza è quella di affamare la popolazione. Questa è la politica israeliana dal 2008”.
Non dimenticare di farli morire di fame
Il Prof. Hudson fa un riferimento diretto a un articolo [3] di Sara Roy pubblicato sul New York Review of Books, che cita un dispaccio inviato dall’ambasciata statunitense a Tel Aviv al Segretario di Stato il 3 novembre 2008. Che recita: “Come parte del loro piano generale di embargo contro Gaza, i funzionari israeliani hanno confermato in più occasioni [ai funzionari dell’ambasciata] che intendono mantenere l’economia di Gaza sull’orlo del collasso senza però spingerla oltre il limite”.
Questo, secondo il professor Hudson, ha indotto Israele a “distruggere i pescherecci e le serre di Gaza per privarla della possibilità di potersi nutrire autonomamente”.
Successivamente si è unito agli Stati Uniti per bloccare gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite e di altri paesi. Gli Stati Uniti si ritirarono rapidamente dall’agenzia di soccorso delle Nazioni Unite non appena iniziarono le ostilità, subito dopo la conclusione della Corte Internazionale di Giustizia di un plausibile genocidio. Erano stati i principali finanziatori di questa agenzia. La loro speranza era che questo potesse rallentare l’attività dell’agenzia.
Israele ha semplicemente smesso di far entrare gli aiuti alimentari. Ha istituito lunghe, lunghissime code per le ispezioni, cioè una scusa per rallentare i camion solo al 20% della loro capacità pre-ottobre 7 – da un ritmo normale di 500 al giorno a soli 112. Oltre a bloccare i camion, Israele ha preso di mira anche gli operatori umanitari – circa uno al giorno.
Gli Stati Uniti hanno cercato di evitare la condanna fingendo di costruire un molo per scaricare il cibo via mare. L’intento era che quando fosse terminata la costruzione del molo, la popolazione di Gaza sarebbe già stata distrutta dalla fame”.
Biden e Netanyahu come criminali di guerra
Il professor Hudson traccia sinteticamente il collegamento chiave dell’intera tragedia: “Gli Stati Uniti stanno cercando di incolpare una persona, Netanyahu. Ma questa è la politica israeliana dal 1947. Ed è anche la politica degli Stati Uniti. Tutto ciò che è accaduto dal 2 ottobre, quando la moschea di Al-Aqsa è stata attaccata dai coloni israeliani, provocando la rappresaglia di Hamas [Al-Aqsa Flood] il 7 ottobre, è stato strettamente coordinato con l’amministrazione Biden. Come anche tutte le bombe che sono state sganciate, mese dopo mese, oltre a bloccare gli aiuti delle Nazioni Unite.
L’obiettivo degli Stati Uniti è impedire a Gaza di avere i diritti sul gas offshore che aiuterebbero a finanziare la sua prosperità e quella di altri gruppi islamici che gli Stati Uniti considerano nemici. E anche per mostrare ai paesi vicini cosa gli si potrà fare, proprio come gli Stati Uniti hanno fatto alla Libia poco prima di Gaza. La conclusione è che Biden e i suoi consiglieri sono dei criminali di guerra tanto quanto lo è Netanyahu”.
Il Prof. Hudson sottolinea come “l’Ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, Blinken e altri funzionari statunitensi hanno affermato che la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sul genocidio, oltre che chiedere la sua fine, non è vincolante. Quindi, Blinken ha appena dichiarato che non sta avvenendo alcun genocidio.
La finalità di tutto questo da parte degli Stati Uniti è di porre fine allo stato di diritto internazionale rappresentato dalle Nazioni Unite. Deve essere sostituito dall’“ordine basato sulle regole” degli Stati Uniti, di cui non esistono regole pubblicate.
L’intenzione è quella di rendere immuni le politiche degli Stati Uniti da qualsiasi opposizione che si basi sui principi giuridici del diritto internazionale o sulle leggi locali. Una mano totalmente libera: il caos.
I diplomatici statunitensi guardano al futuro e hanno visto che il resto del mondo intende ritirarsi dall’orbita statunitense ed europea della NATO.
Per far fronte a questo movimento irreversibile, gli Stati Uniti stanno cercando di attenuarlo cancellando tutte le tracce rimanenti delle regole internazionali che sono alla base della fondazione delle Nazioni Unite, e in pratica del principio westfaliano del 1648 di non interferenza negli affari degli altri paesi.
L’effetto reale, come al solito, è esattamente l’opposto di ciò che gli Stati Uniti intendono. Il resto del mondo è costretto a creare proprie nuove Nazioni Unite, insieme a un nuovo FMI, una nuova Banca Mondiale, una nuova Corte Internazionale dell’Aia diverse dalle organizzazioni controllate dagli Stati Uniti.
Quindi la protesta mondiale contro il genocidio israeliano a Gaza e in Cisgiordania – non dimenticate la Cisgiordania – è il catalizzatore emotivo e morale per la creazione di un nuovo ordine geopolitico multipolare per la maggioranza globale”.
Sparire o morire
La domanda chiave rimane: cosa accadrà a Gaza e ai palestinesi. Il giudizio del Prof. Hudson è minacciosamente realistico: “Come ha spiegato Alastair Crooke, oramai non può esserci alcuna soluzione a due Stati in Israele. Deve essere tutto israeliano o tutto palestinese. E ora pare tutto israeliano: il sogno fin dall’inizio nel 1947 di una terra senza persone non ebree.
Gaza sarà geograficamente ancora lì, insieme ai suoi diritti sul gas nel Mediterraneo. Ma verrà svuotata e occupata dagli israeliani”.
Quanto a chi potrà “aiutare” a ricostruire Gaza, ci sono già alcuni solidi acquirenti: “Società edili turche, l’Arabia Saudita che finanzia lo sviluppo, gli Emirati Arabi Uniti, investitori americani – forse Blackstone. Saranno gli investimenti esteri. Se si considera il fatto che gli investitori stranieri di tutti questi paesi stanno cercando ciò che possono ottenere dal genocidio dei palestinesi, si comprende perché non c’è alcuna opposizione al genocidio”.
Il verdetto finale del Prof. Hudson sul “grande vantaggio per gli Stati Uniti” è che “nessuna rivendicazione potrà essere avanzata contro gli Stati Uniti – e contro qualsiasi guerra e cambio di regime che stanno pianificando per Iran, Cina, Russia e per ciò che è stato fatto in Africa e in America Latina.
Israele, Gaza e Cisgiordania dovrebbero essere viste come l’inizio di una Nuova Guerra Fredda. In sostanza un piano su come finanziare genocidi e distruzioni. I palestinesi o emigreranno o verranno uccisi. Questa è la politica annunciata da oltre un decennio”.
- https://www.youtube.com/watch?v=gNu_OGbqyWk&t=14s
- https://michael-hudson.com/2024/04/gaza-the-strategic-imperative/
- https://www.nybooks.com/online/2023/12/19/the-long-war-on-gaza/
Guerra a Gaza: le potenze occidentali non hanno mai creduto in un ordine basato sulle regole – Richard Falk
Le democrazie liberali rimangono vergognosamente complici di Israele, nonostante la perpetrazione del genocidio a danno della popolazione Palestinese.
Gli studenti di politica internazionale, hanno capito che quando si tratta di interessi strategici degli Stati leader, il diritto internazionale diventa marginale a meno che non sia utile alla propaganda di guerra contro gli avversari.
Infatti, le Nazioni Unite sono state concepite in modo da concepire questa caratteristica della vita politica internazionale. Altrimenti, dare ai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, il diritto di veto, non avrebbe avuto senso.
Tale esenzione dal diritto internazionale è stata evidente anche nei processi per crimini di guerra tenutisi a Norimberga e a Tokyo dopo la Seconda Guerra Mondiale, in cui solo i crimini degli sconfitti sono stati esaminati per la responsabilità legale, mentre i crimini evidenti dei vincitori – come il bombardamento indiscriminato di Dresda e gli attacchi con bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki – non sono stati perseguiti.
Ad oggi, per ragioni comprensibili, molti in Giappone, credono che l’uso delle armi di distruzione di massa contro la popolazione civile di queste due città, abbiano rappresentato un genocidio.
Allo stesso tempo, le democrazie vincitrici, dopo il 1945 sembravano genuinamente impegnate alla costruzione di un ordine mondiale che fosse stabile, che tutelasse i diritti umani e rispettasse i diritti di sovranità dei paesi più deboli. Ovviamente, la Guerra Fredda ha interferito con questi piani idealistici, ha paralizzato l’ONU nei contesti di pace e sicurezza e ha sminuito in modo significativo l’adesione al diritto internazionale.
Con la fine della Guerra Fredda, simboleggiata dalla caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica, è sembrato che i valori della democrazia liberale- incluso il rispetto del diritto internazionale dei procedimenti globali-sarebbero stati promossi e avrebbero riempito il vuoto geopolitico provocato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, che ha lasciato gli Stati Uniti come unica superpotenza sopravvissuta.
Ma ciò non è avvenuto. Gli Usa hanno investito molto nell’ordine mondiale successivo alla Guerra Fredda ma lo ha fatto basandosi soprattutto sul proprio potere militare ed economico, mirando a plasmare un futuro costruito su mercati, alleanze e militarismo. Ha trascurato le opportunità di rafforzare le Nazioni Unite e di raggiungere il disarmo nucleare, nonché i modi per combinare lo status geopolitico con una concezione sostenibile e fondata sul diritto della politica internazionale.
Occasioni mancate
Queste occasioni mancate di migliorare l’ordine mondiale fondendo gli interessi strategici con una politica estera orientata al diritto non sono mai state prese seriamente in considerazione dai think tank di Washington o dalle élite della politica estera, poiché il militarismo interno era troppo profondamente radicato nell’economia, nella cultura politica e nel consenso sulla sicurezza della burocrazia militarizzata.
Le conseguenze della Guerra Fredda hanno portato a un’era di unilateralismo geopolitico, che comprendeva il sostegno tangibile ad alleati speciali, come Israele, Taiwan e Ucraina, a prescindere da quanto profondamente sfidassero il diritto internazionale e si sottraessero alle procedure di risoluzione pacifica.
La crescita della Cina autocratica, con la combinazione di violazioni di diritti umani e una rapida ascesa allo stato di superpotenza, ha rappresentato una sfida al centralismo preferito della Nato a guida statunitense e alla visione del futuro orientata al mercato.
Nel 2021, con l’avvento della leadership Biden-Blinken in politica estera, a Cina è stata severamente richiamata a conformarsi a “un ordine internazionale basato sulle regole”, che Pechino è stata accusata di violare nel trattamento dei tibetani e della minoranza uigura, nell’incoraggiare politiche repressive a Hong Kong e nel minacciare l’indipendenza di Taiwan.
Sembrava strano che queste “regole” non fossero mai collegate, dal Segretario di Stato Antony Blinken al diritto internazionale o all’autorità dell’ONU. Questo appello alla governance delle regole è sembrato più che altro una riaffermazione del primato geopolitico degli Stati Uniti, senza limitare il comportamento di Washington in politica estera…
Il “bullo” occidentale fra Teheran e Israele – Elena Basile
La classe di servizio costituita da burocrati e intellettuali è all’opera. Bisogna difendere il bullo e trasformare, con un’operazione che nei rapporti interpersonali è chiamata dagli psicologi gaslighting, le vittime in carnefici. Non abbiamo alcuna simpatia per la teocrazia iraniana, siamo tuttavia costretti con onestà intellettuale a ristabilire un ritratto vero delle dinamiche internazionali.
L’Occidente, che a partire dal 1999 con i bombardamenti su Belgrado ha smarrito la sua identità, ha violato le regole da esso stesso create e si è gradualmente allontanato dalla democrazia liberale, agisce come il bullo del quartiere, pronto a punire chi non si inginocchia ai suoi atti di prepotenza e osa alzare la testa. L’abbiamo visto con la Russia. L’aggressione strategica occidentale doveva essere ingoiata dal perdente della guerra fredda (così lo chiamava Condoleezza Rice e a pappagallo alcuni nostri brillanti analisti), pena sanzioni e guerra per procura attraverso l’Ucraina. In Medio Oriente, Israele potenza occupante dal 1967, che ha violato il diritto internazionale e onusiano, in seguito al barbarico attacco di Hamas del 7 ottobre ha iniziato un’operazione di pulizia etnica (o di possibile genocidio secondo la Corte internazionale) decimando bambini e donne a Gaza. Ha avuto come unica risposta muscolare la reazione degli Hezbollah, degli Houthi e delle milizie sciite in Iraq e Siria, che del resto sono state ripetutamente attaccate da Israele. Reazioni povere e deboli che non hanno fatto gravi danni e servivano più che altro a calmare il furore delle pubbliche opinioni arabe. L’Iran non ha mai avuto intenzione di iniziare un conflitto aperto con Israele. Sarebbe stato suicida, data la disparità di forze e la prevedibile discesa in campo di Washington. È stato costretto alla reazione, a cadere nella trappola, non perché – come inventano anche i migliori editorialisti – sia un regime che considera le “insurrezioni della popolazione insurrezioni contro Dio”; ma perché ha dovuto seguire la logica di potenza che guida tutti gli Stati. Dopo aver subito l’atroce attacco terroristico che ha prodotto centinaia di vittime civili innocenti da parte di un fantomatico Isis in grado, guarda caso, di attuare operazioni che vanno a vantaggio dell’Occidente e dopo aver ingoiato continue provocazioni, attacchi in Libano e in Siria, contro le proprie milizie, fino all’indecente attentato alla rappresentanza diplomatica iraniana a Damasco, Teheran ha compreso che abbassare la testa e non reagire avrebbe incoraggiato il nemico nell’escalation cui mirava. Ha risposto consapevole di non fare danni irrimediabili. Un avvertimento e una supplica agli Usa di non scendere in guerra.
L’attacco all’Iran è perorato dalla lobby israeliana da anni. Purtroppo la tenacia del governo terrorista di Netanyahu e l’insipienza occidentale vi è pervenuta. Uno dei migliori nostri editorialisti stigmatizza Teheran che si permette di dettare regole a Israele: “Ho risposto, ora siamo pari”. Sembra di leggere i giornali che descrivevano le insurrezioni coloniali al tempo dell’Impero inglese. Come è possibile che qualche Stato, qualche popolo si rivolti contro le regole per quanto ingiuste e brutali dell’Impero bianco e colonizzatore? Sul giornale che un tempo ospitava Giorgio Bocca ed era un riferimento del socialismo riformista, si legge che l’Iran starebbe tramando contro l’Occidente per operazioni ostili: guerra ibrida delle milizie e tentativo egemonico in Medio Oriente contro Riad e i poveri Usa che con gli accordi di Abramo volevano creare una zona di sicurezza e prosperità. Il giornalista non è informato. Riad e Teheran collaborano nei Brics. Washington ha creato solo morti e disperazione in Medio Oriente “esportando la democrazia”. Gli accordi di Abramo avrebbero normalizzato la regione sulla pelle del popolo palestinese. L’Iran non è un isolato Stato canaglia, non è la Libia distrutta dall’azione scellerata di Regno Unito e Francia. Di quante morti è responsabile l’attuale ministro degli Esteri Cameron in Libia? Nella sua visita recente a Washington ha cercato di convincere i conservatori Usa a sbloccare gli aiuti finanziari in Ucraina, “operazione vincente perché neanche un americano muore in guerra”, ha affermato. Muoiono infatti solo ucraini, sacrificio necessario per la “potenza indispensabile”. Teheran non è l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia. È legata da alleanze a due potenze nucleari: Cina e Russia. L’Arabia Saudita e gli altri Paesi arabi non si uniranno, dato il massacro in Palestina, alla guerra contro Teheran. Il bullo celebrato dai suoi cortigiani agirà isolato e contro ogni regola. L’Occidente smarrisce il suo significato e appare come forza brutale e ingiusta al “resto del mondo”. Calcoli elettoralistici, date le Presidenziali vicine, fermeranno forse queste classi dirigenti che hanno perso moralità e strategia?
La tigre di carta è nuda – Clara Statello
Gli Stati Uniti pongono ancora una volta il veto sull’esistenza della Palestina come Stato indipendente che ha diritto alla stabilità, all’autodeterminazione e alla pace. In sede di Consiglio di Sicurezza, giovedì sera, Washington ha esercitato il suo potere per fermare una bozza di risoluzione che avrebbe consentito all’Assemblea generale di accettare lo Stato palestinese come membro dell’ONU.
Il documento, presentato dall’Algeria, ha ricevuto i voti favorevoli di 12 membri del Consiglio di Sicurezza, tra cui Russia e Cina. Gran Bretagna e Svizzera si sono astenute.
Mentre la principale potenza al mondo imponeva per l’ennesima volta la propria volontà alla comunità internazionale, a Gaza veniva scoperta una nuova fossa comune con 30 corpi dentro l’ospedale Al Shifa, la polizia statunitense arrestava in massa attivisti filo-palestinesi e studenti della Columbia University a New York e in Israele manifestanti e familiari protestavano a Tel Aviv per il rilascio degli ostaggi.
Mentre sull’intera regione dell’Asia Minore pende la spada di Damocle dello scontro diretto tra Iran e Israele, gli Stati Uniti compiono un altro passo avanti verso la destabilizzazione, per garantire il cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole”, che diverge sempre più dall’ordine mondiale basato sul diritto internazionale e – soprattutto – non è neanche più garante della Pax Americana.
Basta uno sguardo più profondo, tuttavia, per comprendere che dietro i doppi standard e il continuo spregio per le istituzione internazionali, si nasconde una grande difficoltà di Washington nella gestione di quello che considera il suo impero, ovvero lo scacchiare globale. La tigre è di carta, per parafrasare Mao.
Gli Stati Uniti legittimano il proprio eccezionalismo ergendosi a Paese guida del “Mondo Libero”, impugnando la bandiera dei diritti umani, civili e della democrazia. Questo ruolo è incompatibile con la difesa ad oltranza ed il sostegno illimitato ad Israele, uno Stato occupante, che infrange tutte le leggi di guerra e siede davanti alla Corte internazionale di Giustizia come imputato, per il peggiore dei crimini: genocidio.
In questi lunghi mesi di distruzione e orrore a Gaza, gli Stati Uniti hanno mostrato una cinica ambiguità: da un lato appoggiano il “diritto alla difesa” di Israele con il sostegno militare, politico, finanziario e diplomatico in sede ONU, per scongiurare il suo isolamento dalla comunità internazionale. Dall’altro chiedono di rispettare almeno un po’ del diritto internazionale, di “limitare” le morti dei civili palestinesi e dichiarano di volere per il post- guerra una soluzione a due Stati, invisa a Netanyahu e all’estrema destra al governo.
Tale approccio duale e ipocrita ha almeno due conseguenze grottesche:
- Il paradosso di mandare aiuti umanitari per i palestinesi a Gaza e – allo stesso tempo -bombe per ucciderli a Israele;
- La crescente difficoltà a giustificare davanti al mondo una condotta anti-palestinese e a coprire le violazioni del diritto internazionale dell’esercito israeliano.
Tralasciando il primo punto, viene da chiedersi: se davvero gli Stati Uniti intendono trovare una soluzione diplomatica del conflitto, che contempli il riconoscimento dello Stato palestinese, perché hanno bloccato una risoluzione per l’ingresso della Palestina all’ONU?
“Chiediamo da tempo all’Autorità Palestinese di intraprendere le riforme necessarie per contribuire a creare gli attributi necessari per essere uno Stato pronto. Notiamo inoltre che l’organizzazione terroristica Hamas attualmente ha potere e influenza a Gaza, che è parte integrante dello Stato previsto in questa risoluzione . Per questi motivi gli Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione del Consiglio di Sicurezza”, ha detto il vice ambasciatore statunitense all’ONU, Robert Wood, dopo aver alzato la mano per bloccare la risoluzione approvata dalla stragrande maggioranza dei restanti Paesi.
La posizione statunitense è sempre più isolata. Il capo dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha risposto accusando gli Stati Uniti di sostenere il “genocidio” compiuto da Israele.
“La politica americana incoraggia la continuazione della guerra di genocidio di Israele contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania”, ha detto Abbas.
L’inviato della Federazione Russa all’ONU, Vassily Nebenzia, ha messo in evidenza come “la maggioranza assoluta della comunità globale” sia favorevole ad accogliere la Palestina nella comunità internazione. Esercitando il loro veto, gli Stati Uniti hanno dimostrato “quello che pensano veramente dei palestinesi”, ha aggiunto Nebenzia al Consiglio di sicurezza, e cioè che i palestinesi “non meritano un proprio Stato”. Washington, prosegue, tiene in considerazione soltanto gli interessi di Israele e chiude un occhio sui suoi crimini.
“L’obiettivo è spezzare la volontà dei palestinesi, costringerli una volta per tutte a sottomettersi al potere occupante, trasformarli in servi e persone di seconda classe e, forse, costringerli una volta per tutte a lasciare il loro territorio natale”, ha detto. Tuttavia “questa politica sta avendo solo l’effetto opposto”.
Gli altri tre Paesi dei BRICS membri del CdS, Egitto, Arabia Saudita, Cina hanno espresso il loro rammarico per il veto statunitense.
La risoluzione aveva bisogno di nove voti e nessun veto per essere approvata dal Consiglio di Sicurezza. Ciò avrebbe permesso il passaggio in Assemblea generale, dove avrebbe necessitato dei due terzi per essere approvata. Secondo Al Jazeera, su 193 stati membri delle Nazioni Unite, 139 hanno riconosciuto lo stato della Palestina, inclusi Paesi europei come Svezia, Ungheria, Islanda, Serbia, Bulgaria, Slovacchia, Ucraina, Polonia e Romania. Pertanto si vede come il voto di un solo Stato abbia impedito alla comunità internazionale di prendere una decisione.
L’Onu ed i suoi meccanismi di funzionamento risultano obsoleti, meri strumenti del vecchio mondo scaturito da Bretton Woods, pertanto incapaci di riflettere il nuovo ordine internazionale, di assegnare protagonismo a nuovi attori sempre più determinanti a livello planetario.
Presumibilmente, davanti a questi continui fallimenti, o l’ONU si riformerà o verrà superato da nuove organizzazioni più aderenti alla realtà. Gli Stati Uniti non sono più capaci di gestire l’ordinamento internazionale e nuovi blocchi emergono sempre più preponderantemente nel viale della Storia dell’umanità.
L’OCCIDENTE VUOLE ORA “MODERAZIONE”… – Jonathan Cook
… dopo aver alimentato per mesi un genocidio a Gaza.
Il Medio Oriente è sull’orlo della guerra proprio perché i politici occidentali hanno assecondato per decenni ogni eccesso militare di Israele
Improvvisamente, i politici occidentali, dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden al primo ministro britannico Rishi Sunak, sono diventati ardenti campioni di “moderazione”, in un tentativo dell’ultimo minuto di evitare la conflagrazione regionale.
Nel fine settimana l’Iran ha lanciato una salva di droni e missili contro Israele, in quella che è stata una dimostrazione di forza ampiamente simbolica. Molti sembrano essere stati abbattuti, sia dai diversi livelli di sistemi di intercettazione finanziati dagli Stati Uniti che dai jet da combattimento statunitensi, britannici e giordani. Nessuno è stato ucciso (così sembrerebbe, N.d.T.).
È stato il primo attacco diretto da parte di uno Stato contro Israele da quando l’Iraq lanciò i propri missili Scud durante la [prima] guerra del Golfo nel 1991.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito in fretta e furia domenica, con Washington e i suoi alleati che hanno chiesto di smorzare le tensioni che potrebbero portare troppo facilmente allo scoppio di una guerra in tutto il Medio Oriente e oltre.
“Né la regione né il mondo possono permettersi altre guerre“, ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, alla riunione. “Ora è il momento di disinnescare [la crisi] e di smorzare le tensioni“.
Israele, nel frattempo, ha giurato di “esigere il prezzo” contro l’Iran in un momento a sua scelta.
Ma la brusca conversione dell’Occidente alla “moderazione” necessita di alcune spiegazioni.
Dopo tutto, i leader occidentali non hanno mostrato alcuna moderazione quando Israele ha bombardato il consolato iraniano a Damasco due settimane fa, uccidendo un generale e più di una dozzina di altri iraniani – causa immediata della rappresaglia di Teheran di sabato sera.
Secondo la Convenzione di Vienna, i consolati non solo sono missioni diplomatiche protette, ma sono anche considerati territorio sovrano del relativo stato. L’attacco di Israele è stato un atto di aggressione sfrenata – il “crimine internazionale supremo“, come stabilito dal tribunale di Norimberga alla fine della Seconda guerra mondiale.
Per questo motivo, Teheran si è appellata all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che le consente di agire per autodifesa.
Proteggere Israele
Eppure, invece di condannare la pericolosa belligeranza di Israele – un palese attacco al cosiddetto “ordine basato sulle regole” tanto venerato dagli Stati Uniti – i leader occidentali si sono schierati a favore dello Stato cliente preferito di Washington.
Durante la riunione del Consiglio di Sicurezza del 4 aprile, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno intenzionalmente rifiutato la moderazione, bloccando una risoluzione che avrebbe condannato l’attacco di Israele al consolato iraniano – un voto che, se non fosse stato ostacolato, sarebbe bastato a placare Teheran.
Nel fine settimana, il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha ribadito l’approvazione alla distruzione della sede diplomatica iraniana da parte di Israele, affermando di poter “comprendere pienamente la frustrazione che Israele prova” – anche se ha aggiunto, senza alcun accenno di consapevolezza della propria ipocrisia, che il Regno Unito “prenderebbe provvedimenti molto forti” se un Paese bombardasse un consolato britannico.
Mettendo al riparo Israele da qualsiasi conseguenza diplomatica per il suo atto di guerra contro l’Iran, le potenze occidentali non hanno fatto altro che assicurare le condizioni per cui Teheran dovesse invece perseguire una risposta militare.
Ma non è finita qui. Dopo aver fomentato il senso di rabbia dell’Iran all’ONU, Biden ha promesso un sostegno “ferreo” a Israele – e gravi conseguenze per Teheran – se avesse osato rispondere all’attacco al suo consolato.
L’Iran ha ignorato queste minacce. Sabato sera ha lanciato circa 300 droni e missili, protestando allo stesso tempo a gran voce per “l’inazione e il silenzio del Consiglio di Sicurezza, uniti alla mancata condanna delle aggressioni del regime israeliano“.
I leader occidentali non ne hanno preso nota. Si sono nuovamente schierati con Israele e hanno denunciato Teheran. Alla riunione del Consiglio di Sicurezza di domenica, gli stessi tre Stati – Stati Uniti, Regno Unito e Francia – che in precedenza avevano bloccato una dichiarazione di condanna dell’attacco di Israele alla missione diplomatica iraniana, hanno cercato una condanna formale di Teheran per la sua risposta.
L’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vasily Nebenzya, ha ridicolizzato quella che ha definito “una parata di ipocrisia occidentale e di doppi standard“. Ha aggiunto: “Sapete bene che un attacco a una missione diplomatica è un casus belli secondo il diritto internazionale. E se le missioni occidentali venissero attaccate, non esitereste a vendicarvi e a dimostrare le vostre ragioni in questa sala“.
L’Occidente ha celebrato pubblicamente la sua collusione con Israele nello “sventare” l’attacco iraniano.
Il primo ministro britannico Rishi Sunak ha elogiato i piloti della RAF per il loro “coraggio e professionalità” nell’aiutare a “proteggere i civili” in Israele.
In una dichiarazione, Keir Starmer, leader del partito laburista di opposizione, ha condannato l’Iran per aver generato “paura e instabilità“, piuttosto che “pace e sicurezza“, rischiando di alimentare una “guerra regionale più ampia“. Il suo partito, ha dichiarato, “si batterà per la sicurezza di Israele“…
Per fermare le atrocità – Bruna Bianchi
Affamare, dilaniare, distruggere tutto ciò che sostiene la vita. Siamo di fronte all’ultimo atto del progetto sionista? Malgrado tutto sono tante le persone che a Gaza con straordinaria forza d’animo soccorrono, proteggono, consolano, salvano umani e animali. Intanto ovunque nel mondo non smettono di svolgersi manifestazioni per chiedere il cessate il fuoco e la fine della occupazione. Dare risonanza a queste voci, denunciare le sofferenze inflitte, conservare la memoria, contribuire a spezzare la catena delle complicità denunciando gli stati che inviano armi, che accettano di sospendere gli aiuti, chiarire la natura del colonialismo sionista, contribuire a creare un movimento di opinione, sono le uniche vie per fermare l’orrore della violenza coloniale e genocida che si è fusa con la violenza delle armi pesanti all’avanguardia.
Foto di Al kamandjati, associazione nata per insegnare musica ai bambini palestinesi. AssopacePalestina promuove insieme a Al kamandjat un progetto per offrire formazione musicale a 55 bambini/e nei campi profughi di Qalandiya, Gerusalemme Est e di Alamari, Ramallah: qui le informazioni per sostenerlo.
“Israele ha bisogno di creare una crisi umanitaria a Gaza […]. Gaza diventerà un luogo in cui nessun essere umano può esistere…”
(Giora Eiland, ex generale del Cons. nazion. sicurezza israeliano, 8/10/23)
“Coloro che ritorneranno qui, se mai ritorneranno, troveranno terra bruciata. Niente case, niente agricoltura, niente di niente…”
(Yogev Bar-Shesht, colonnello resp. amministrazione civile a Gaza, 4/11/23)
A partire dal 7 ottobre 2023 dichiarazioni simili a quelle di Eiland e Bar-Shesht sono state reiteratamente e pubblicamente espresse da autorità politiche, militari e di governo. Frasi di incitamento a radere al suolo Gaza sono apparse con insistenza sui social.
Mentre la Corte penale internazionale, ritenendo plausibile l’esistenza di un genocidio a Gaza, ha adottato alcune misure cautelari richieste dal Sud Africa in attesa della verifica delle violazioni commesse, non si ferma l’invio di armi ad Israele e le vittime non cessano di aumentare (ad oggi oltre 32.000 oltre alle migliaia, forse decine di migliaia, ancora sepolte sotto le macerie), dilaniate dalle bombe, stroncate dalla fame, dalla sete, dalle malattie che colpiscono la popolazione civile a cui si impedisce di ricevere gli aiuti, bloccando i camion, sparando sulla folla che si accalca per ricevere un po’ di cibo. Tutto ciò che consente la vita, e quindi il ritorno – le case, gli ospedali, i luoghi di culto, i negozi, i panifici, le infrastrutture, le coltivazioni, le imbarcazioni da pesca – sono state distrutte e l’acqua è stata contaminata. I bambini e le donne pagano il prezzo più alto e rappresentano il 70 per cento di coloro che hanno perso la vita (9.000 donne e 12.000 bambini). Alla metà di febbraio il 90 per cento dei bambini al di sotto dei due anni e il 95 per cento delle donne gravide e delle nutrici erano in una condizione di grave denutrizione.
L’arma della fame
I bambini e le bambine, coloro che rappresentano il futuro, sono stati i bersagli privilegiati di una violenza volta a spezzare la continuità della popolazione. Lo rivelarono già nel 2008-2009, nel corso della operazione Cast Lead, i disegni che i soldati israeliani scelsero per le loro magliette e che ponevano bambini e donne gravide al centro del mirino. Oggi la volontà di annientamento si esprime anche con l’oltraggio ai segni della presenza dei bambini – uccisi, dispersi o profughi – che ancora rimangono tra le rovine delle case abbandonate. I video diffusi attraverso i social media dai soldati israeliani e che li ritraggono mentre distruggono i giocattoli, pedalano in mezzo alle macerie in segno di trionfo su biciclettine infantili, sono drammaticamente eloquenti. Quegli stessi video riprendono i soldati mentre appiccano il fuoco a casse di cibo e travolgono filari di ulivi con i carri armati.
Ha detto Michael Fakhri, giurista canadese-libanese, esperto in diritti umani e relatore speciale ONU a proposito dell’inedia che ha colpito le giovani generazioni di Gaza:
La velocità con la quale si è manifestata la denutrizione nei bambini piccoli è stupefacente. I bombardamenti e le uccisioni dirette sono brutali, ma l’inedia, il deperimento e l’arresto della crescita dei bambini sono forme di tortura e sono vili. Tutto ciò avrà un impatto a lungo termine sulla popolazione dal punto di vista fisico, cognitivo e morale […]. Tutto indica che questo è stato intenzionale.
Israele, continua Fakhri, non si limita a colpire i civili, ma “cerca di lanciare una maledizione sul futuro del popolo palestinese” facendo del male ai suoi bambini.
Si spiega in questo modo anche l’accanimento sulle donne e tra loro le più vulnerabili, le donne in gravidanza e le puerpere che sono costrette a partorire senza assistenza e senza acqua e dopo poco molte di loro vedono morire i loro bambini. “L’aggressione ai diritti riproduttivi è parte essenziale della sproporzione con cui la guerra ha colpito le donne palestinesi” si legge in un post della Carnegie Endowment for International Peace a firma di Shahad Safi. E questa aggressione è stata “senza sosta e particolarmente allarmante” come hanno dimostrato gli studi di Nadera Shalhoub-Kevorkian.
Le ragioni della rapidità con cui si è sviluppata la crisi alimentare, e che ha colpito anche gli studiosi della morte di massa per fame come Alex de Waal, direttore della World Peace Foundation alla Tufts University e autore dell’opera Mass Starvation: The History and Future of Famine, risalgono alla struttura della occupazione e a sedici anni di blocco e di assedio. Quando è scoppiata la guerra l’80 per cento della popolazione di Gaza dipendeva dall’aiuto umanitario e la “fine improvvisa di quell’aiuto sulla base di presunte accuse contro un piccolo numero di persone” ha gettato la popolazione in una condizione disperata. I paesi che hanno sottratto questa fonte di sopravvivenza, ha aggiunto Fakhri, sono indubbiamente complici della morte per fame dei palestinesi. L’Italia è tra questi.
L’inedia di massa è aggravata dall’impossibilità di trarre sostentamento dalla pesca. Dal 7 ottobre quasi l’80 per cento del settore della pesca di Gaza è stato distrutto, una attività che anche prima del conflitto era stata limitata dal divieto imposto da Israele di praticare la pesca oltre sei-quindici miglia dalla costa. L’inquinamento dell’acqua ora ridurrà ulteriormente l’attività delle poche imbarcazioni rimaste. Al pari della pesca, le coltivazioni sono state prese di mira dai bombardamenti; le immagini satellitari raccolte da Human Rights Watch hanno rivelato che le forze di terra israeliane hanno “sistematicamente” raso al suolo frutteti, ulivi, campi e orti, creando una terra desolata di sabbia e detriti. Secondo un rapporto del gennaio 2024 a cura dell’Operazione satellitare delle Nazioni Unite, almeno il 35% del suolo agricolo è stato devastato.
Anche la scarsità dell’acqua e la sua contaminazione con le acque reflue (130.000 metri cubi sversati in mare ogni giorno) hanno aggravato la condizione sanitaria della popolazione infantile. Dopo quattro mesi di guerra, almeno il 90 per cento dei bambini sotto i cinque anni ha contratto almeno una malattia infettiva.
Devi Sridhar, docente di salute pubblica all’Università di Edimburgo, ha calcolato che un quarto della popolazione di Gaza potrebbe perdere la vita a causa delle malattie nell’arco di un anno. Ma le epidemie sono le benvenute; lo ha auspicato Giora Eiland perché accelererebbero la vittoria di Israele.
Ciò a cui stiamo assistendo, ha osservato Saree Makdisi, in Tolerance Is a Wasteland: Palestine and the Culture of Denial (2022) non ha precedenti nella storia coloniale […] è forse la prima fusione della violenza coloniale e genocida della vecchia scuola con armi pesanti all’avanguardia; un amalgama contorto del XVII secolo e del XXI, confezionato e avvolto in un linguaggio che rimanda a tempi primitivi e a fragorose scene bibliche che prevedono il massacro di interi popoli: i Gebusei, gli Amelikiti, i Cananei e, naturalmente, i Filistei.
Un tale micidiale connubio non ha incontrato ostacoli sul suo cammino, né dalla politica, né dal diritto. Il diritto internazionale, infatti, non è stato invocato a difesa della popolazione palestinese con la stessa forza con cui è stata denunciata la violazione delle sue norme nel conflitto in Ucraina. Israele continua a godere di una impunità mai concessa a nessun altro stato che abbia commesso simili violazioni delle risoluzioni delle Nazioni unite, degli accordi sottoscritti e delle Convenzioni internazionali. In questo conflitto non c’è norma del diritto internazionale che non sia stata violata, con gravissime conseguenze per le persone e per l’ambiente…
Cisgiordania: Israele è responsabile della crescente violenza dei coloni
L’esercito israeliano ha preso parte o non ha protetto i palestinesi dai violenti attacchi dei coloni in Cisgiordania che hanno sfollato persone da 20 comunità e hanno sradicato completamente almeno 7 comunità dal 7 ottobre 2023, ha affermato oggi Human Rights Watch. .
I coloni israeliani hanno aggredito, torturato e commesso violenze sessuali contro palestinesi, rubato i loro averi e il loro bestiame, minacciato di ucciderli se non se ne fossero andati definitivamente e distrutto le loro case e scuole sotto la copertura delle ostilità in corso a Gaza. Molti palestinesi, comprese intere comunità, hanno abbandonato le loro case e le loro terre. L’esercito non ha assicurato agli sfollati che proteggerà la loro sicurezza né permetterà loro di ritornare, costringendoli a vivere altrove in condizioni precarie.
“Coloni e soldati hanno sfollato intere comunità palestinesi, distruggendo ogni casa, con l’apparente sostegno delle più alte autorità israeliane”, ha affermato Bill Van Esveld, direttore associato per i diritti dei bambini presso Human Rights Watch. “Mentre l’attenzione del mondo è focalizzata su Gaza, gli abusi in Cisgiordania, alimentati da decenni di impunità e compiacenza tra gli alleati di Israele, sono in forte aumento”.
Human Rights Watch ha indagato sugli attacchi che hanno sfollato con la forza tutti i residenti di Khirbet Zanuta e Khirbet al-Ratheem a sud di Hebron, al-Qanub a est di Hebron, e Ein al-Rashash e Wadi al-Seeq, a est di Ramallah, nell’ottobre e novembre 2023. Le prove mostrano che i coloni armati, con la partecipazione attiva di unità dell’esercito, hanno ripetutamente bloccato l’accesso stradale e fatto irruzione nelle comunità palestinesi, detenuto, aggredito e torturato i residenti, cacciati dalle loro case e dalle loro terre sotto la minaccia delle armi o costretti ad andarsene con minacce di morte e impedendo loro di prendere i propri averi.
Human Rights Watch ha parlato con 27 testimoni degli attacchi e ha visionato i video filmati dai residenti, che mostrano molestie da parte di uomini in uniforme militare israeliana che imbracciano fucili d’assalto M16. Al 16 aprile, le forze di difesa israeliane non hanno risposto alle domande inviate da Human Rights Watch via e-mail il 7 aprile.
Gli attacchi dei coloni contro i palestinesi sono aumentati nel 2023 al livello più alto da quando le Nazioni Unite hanno iniziato a registrare questi dati nel 2006. Questo accadeva anche prima degli attacchi guidati da Hamas del 7 ottobre che hanno ucciso circa 1.100 persone in Israele.
Dopo il 7 ottobre, l’esercito israeliano ha richiamato 5.500 coloni riservisti dell’esercito israeliano, tra cui alcuni con precedenti penali di violenza contro i palestinesi, e li ha assegnati ai battaglioni di “difesa regionale” della Cisgiordania. Le autorità hanno distribuito 7.000 armi da fuoco ai membri del battaglione e ad altri, comprese le “squadre di sicurezza civile” stabilite negli insediamenti, secondo Haaretz, e gruppi israeliani per i diritti. I media hanno riferito che i coloni hanno lasciato volantini e inviato minacce sui social media ai palestinesi dopo il 7 ottobre, con avvertimenti di “fuggire in Giordania” o di essere “sterminati[d]”, e che “il giorno della vendetta sta arrivando”.
L’ONU ha registrato più di 700 attacchi di coloni tra il 7 ottobre e il 3 aprile, con soldati in uniforme presenti in quasi la metà degli attacchi. Gli attacchi dal 7 ottobre hanno provocato lo sfollamento di oltre 1.200 persone, tra cui 600 bambini, dalle comunità rurali di pastori. Almeno 17 palestinesi sono stati uccisi e 400 feriti, mentre i palestinesi hanno ucciso 7 coloni in Cisgiordania dal 7 ottobre, ha riferito l’ONU.
Il 12 aprile è stato ritrovato il corpo di un ragazzo israeliano di 14 anni dopo che era scomparso dall’avamposto della colonia di Malachei Hashalom. Da allora, secondo l’OCHA, i coloni hanno attaccato almeno 17 villaggi e comunità palestinesi in Cisgiordania. Yesh Din, un gruppo israeliano per i diritti umani, ha riferito che quattro palestinesi, tra cui un ragazzo di 16 anni, sono stati uccisi in questi incidenti, e che case e veicoli sono stati dati alle fiamme, mentreil bestiame è stato ucciso.
Nessuno degli sfrattati dalle cinque comunità indagate è riuscito a ritornare, ha riscontrato Human Rights Watch. L’esercito israeliano ha respinto o non ha risposto alle richieste di consentire il ritorno dei residenti, lasciando i palestinesi senza protezione da parte degli stessi coloni armati e soldati che hanno minacciato di ucciderli se fossero tornati. Una famiglia con sette figli, costretta a fuggire a piedi da al-Qanub, ora vive in un piccolo magazzino di cemento senza soldi per pagare l’affitto.
Haqel: In Defense of Human Rights, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha presentato una petizione all’Alta Corte israeliana per incaricare l’esercito di proteggere cinque comunità palestinesi dalle minacce di sfollamento dovute alla violenza dei coloni e di consentire alle famiglie Khirbet Zanuta di tornare nelle loro terre. La risposta del 20 febbraio del procuratore di stato israeliano affermava che a Khirbet Zanuta non si era verificato alcuno sfollamento forzato e che i palestinesi se ne erano andati volontariamente a causa di problemi legati alla pastorizia e all’agricoltura. La prossima udienza del caso è prevista per il 1 maggio.
I residenti sfollati allevavano pecore. Alcuni hanno affermato che gli aggressori israeliani hanno rubato veicoli, contanti ed elettrodomestici, nonché pecore e foraggio che le famiglie avevano acquistato a credito e che ora non possono rimborsare. Altre famiglie sono fuggite con le loro greggi ma hanno dovuto costruire nuovi rifugi e non hanno nessun posto dove pascolare.
Secondo i gruppi per i diritti, i coloni hanno successivamente fatto pascolare le proprie pecore sulle terre delle comunità. Il gruppo israeliano per i diritti B’Tselem ha riferito che a metà marzo i coloni avevano preso più di 4.000 dunam (circa 988 acri) di pascoli palestinesi dal 7 ottobre.
I ripetuti attacchi dei coloni, spesso notturni, hanno causato paura e danni alla salute mentale. I bambini e i loro genitori hanno affermato che i bambini hanno avuto incubi e difficoltà di concentrazione. Gli attacchi hanno distrutto le scuole in due delle cinque comunità. La maggior parte dei bambini non è riuscita ad andare a scuola per un mese o più dopo essere stata sfollata…
Un gruppo di persone che vivono a Montaletto tra Cervia e Cesena hanno sentito l’urgenza di realizzare un atto creativo per scuotere le coscienze su ciò che sta succedendo a Gaza, perché l’attenzione su quella tragedia non si spenga dopo sei mesi di bombe e migliaia di morti in gran parte bambini e donne. Il diritto di sognare è soltanto la prima tessera di un mosaico di eventi diffusi sul territorio resa possibile grazie a Sara mosaicista e a sua figlia Erika che hanno realizzato un murale sul fianco di una antica casa romagnola di Via del Confine. Il murale raffigura un bambino seduto a terra e con la testa china fra le mani che pensa e sogna quando giocava felice prima dei bombardamenti israeliani dell’ottobre 2023 ma anche prima dell’occupazione che dura da 70 anni dove l’unica via di fuga per resistere è immaginare un futuro di libertà. Questa opera d’arte che si staglia, colorata e solitaria sull’orizzonte dei campi ancora aridi della campagna cesenate, ci pone delle domande, ci invita a delle riflessioni sulla nostra civiltà ormai forse già post-civiltà. E un murale non è un caso come il sogno del bambino, perché al campo profughi palestinese di Dheisheh, vicino a Betlemme, dove vivono 18 mila persone sfollate dalle loro case, dove si crede che lo spirito comunitario e solidale assieme al desiderio e all’immaginazione di un futuro libero siano le uniche forze umane in grado di sconfiggere l’oppressione delle forze politiche economiche esistenti, ci si orienta proprio grazie ai murali. Non ci sono nomi nelle vie del campo profughi di Dheisheh ma centinaia di murali, come in nessun altro posto al mondo, che tutti conoscono e guidano chi ci vive e non solo per raggiungere qualsiasi persona e qualsiasi luogo. E forse questo murale porterà in qualche luogo della coscienza anche chi percorrerà Via del Confine a Montaletto di Cervia.