Non ha nome…

«labambina» del libro di Mariella Mehr (*)

Una delle più resistenti leggende (paesane e metropolitane) parla di una organizzazione mondiale per rapire bambine/i che fa capo agli “zingari”, ai nomadi. Se poi 998 casi che arrivano alla cronaca smentiscono, un caso resta dubbio e solo un altro potrebbe essere un rapimento …. comunque la forza del pregiudizio fa sì che la memoria cancelli i 998 e conservi gli altri due.

Se invece che alle “voci” ci si affidasse ai documenti storici non si faticherebbe molto a scoprire che in vari luoghi e in varie epoche accadde esattamente il contrario: i bravi cittadini sedentari (o le loro rappresentanze istituzionali) sottrassero – spesso accampando quelle buone intenzioni che, come si sa, lastricano l’inferno – i figli dei “cattivi” nomadi per affidarli a famiglie o a istituzioni che erano più carcerarie che filantropiche.

Un vicenda simile riguarda anche la Svizzera. Nel 1926 una società filantropica ottenne di occuparsi degli Jenische, una popolazione che come origini ha ben poco a che fare con rom o sinti ma che adottò il loro stile di vita nomade. Così in Svizzera “i figli della strada” vennero tolti ai genitori, rinchiusi negli istituti o affidati a famiglie contadine. I cognomi vennero cambiati, si disse loro che i genitori erano morti, molte ragazze furono anche sterilizzate. Come ricorda Mirella Karpati nella introduzione a «Steinzeit» (1995, Guaraldi-Aiep) di Mariella Mehr – che fu una delle vittime di questa “sedentarizzazione” – nel 1950 la Svizzera si fece gran vanto di aver «beneficiato» così 500 bambini «su una popolazione di circa 20 mila persone». Nel 1973 si chiuse definitivamente questa pagina buia, ma solo nel 1986 «Alfons Egli, presidente della confederazione elvetica, chiese scusa pubblicamente».

La tragedia degli Jenische in Svizzera costituisce una delle due chiavi di lettura, appunto quella storica, di uno straordinario libro, sempre di Mariella Mehr che finalmente (cioè dopo 11 anni) è tradotto in italiano da Effigie che ha in catalogo anche «Notizie dall’esilio», antologia poetica della Mehr. Nonostante l’autrice sia assai nota e da anni viva in Toscana, a un anno dall’uscita ben poche sono le recensioni. Eppure rari sono i libri capaci di tale forza e di una scrittura adeguata alla sfida che propongono a chi legge. Questa è la seconda chiave di lettura possibile: si può ignorare tutto degli Jenische e buttarsi nel gorgo di un libro che ti prende al laccio fin dalla prima riga. Questa: «Non ha nome, Labambina. Viene chiamata Labambina».

Una protagonista senza nome dunque. Ma anche senza voce: non parla. Senza stupore e senza sentimenti; in paese spiegano: «è caduta dal carro del diavolo». Senza casa: ha un tetto sulle spalle ma resta «l’intrusa». Senza senso perché il mondo non l’accetta e può essere presa a cinghiate ignorandone i perché. Senza sogni o tregua nel vivere: «perché nel suo mondo sognare significava dimenticare per un istante che bisognava guardarsi alle spalle, sempre e ovunque perché sempre e ovunque c’è un pericolo che ci minaccia». E ancora senza tempo, senza regali (neppure una bambola di pezza), senza pietà, senza luce (per nessuna ragione lei può accenderla)… Senza storia.

E’ uno di quei libri che “fa male” ma che allo stesso tempo è difficile interrompere. Un mondo disperato. Ci sono «alberi che accarezzano» e c’è una persona che sembra/è diversa dall’inferno in cui vive: dunque si accende qualche luce di speranza ma è solo per poco. Perché il villaggio si svela un incubo non solo per «Labambina» ma per tutti i suoi abitanti, soprattutto le donne, vittime di una ignoranza che si fa scudo d’un dio crudele.

Chi vuole scrivere non deve solo trovare – o inventare – storie ma anche, a volte, forzare i linguaggi perché possa essere detto ciò che prima era indicibile o che era stato censurato all’origine (cioè nella testa delle persone). Questo è uno dei rarissimi libri che lo sa fare. Se faticate a trovarlo (è nota la difficoltà dei piccoli editori nel trovare canali) ordinatelo a effigiedizioni@effigie.com. Vale aggiungere che a libro chiuso si avverte la sensazione – assai curiosa – che prestare il libro, consigliarlo non basti; si vorrebbe avere magicamente in tasca 1600 euro in più… per regalarlo subito a 100 amiche e amici; o magari ad alcuni fra gli sciagurati, anche giornalisti, che attribuiscono ai nomadi tutti i mali del mondo.

Mariella Mehr, «Labambina», Effigie ed., Milano, 2006: 156 pagine, 16 euri

(*) Su codesto blog ci sono (intorno al 15 maggio) oltre 3200 post. Ho pensato che valeva la pena riproporne qualcuno dei più vecchi, come questa mia recensione: che avevo messo in data 01-09-2006, all’incirca quando fu pubblicata… mi pare sul quotidiano «Liberazione» (db).

 

 

Redazione
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Un commento

  • M. Piras Keller

    Quando ero ogni giorno a contatto con gli zingari e seguivo un po’ i percorsi scolastici di molti bambini, mi capitava spesso di imbattermi in testi che i bambini zingari, soprattutto i Sinti italiani, scrivevano a scuola. Alcuni sono stati pubblicati anche in opuscoli informativi.
    Dai vari ‘Pensieri’ o ‘Temi’ scritti, veniva spesso fuori una paura ricorrente: la paura di venire rubati, rapiti dai gagi, dai non zingari. Curioso, no? Potrà confermarlo più di un insegnante, più di un direttore didattico di un qualche scuola. Nelle famiglie dei Sinti italiani la cosa è una paura molto diffusa.
    Vicendevoli sospetti, paure, pregiudizi riguardano tante cose: chiedete a un rom o a un sinto se ritiene che i gagi educhino bene i propri bambini. Anche molte cose riguardanti la pulizia, spesso legata a tabù, il sesso, sarebbe curioso andare a fondo per vedere i giudizi generali o pregiudizi che gli uni esprimono sugli altri. È impressionante come per molte cose tali giudizi siano uguali e contrari.
    Per quella che è la mia esperienza, però, una differenza l’ho notata: gli zingari che io ho conosciuto, per quanto una generalizzazione possa essere accettate e ammessa, sono mediamente più tolleranti dei gagi, hanno l’atteggiamento mentale in base al quale, in fondo, tutti hanno diritto di essere come sono, e non pretendono di cambiare chi è diverso o di annientarlo o di annullarlo come tante è tante volte è stato fatto e si fa con gli zingari.
    Se questo dei rapimenti di bambini da parte degli zingari è una “leggenda dipaese o metropolitana”, il rapimento dei bambini zingari non è certo leggenda. L’esempio cronologicamente più vicino, di rapimento di massa è proprio quello ad opera della svizzera Pro Juventute. In epoche precedenti, basti citare il rapimento di massa di bambini zingari compiuto sotto l’illuminata Maria Teresa d’Austria.
    Nella vicenda della Pro Juventute, io ritengo che le scuse presentate, di cui parla Barbieri, non sono state soddisfacenti. Le scuse in questi casi, anzi, la richiesta di perdono deve essere senza ‘se’ e senza ‘ma’, senza alcun tentativo di attenuazione; e quanto di terribile è stato fatto non può essere rimosso e dimenticato, soprattutto se la discriminazione continua.
    Naturalmente potremmo citare anche i trasferimenti forzati nel sud e nel nord America, in qualità di schiavi, in pratica e in Australia e la schiavitù in Romania, senza dimenticare lo sterminio nazista. M aci si allontana un po’ dal tema che riguarda in particolare la sottrazione dei bambini. Certo è, comunque che il popolo degli Zingari non si è mai macchiato di crimini attribuibili a esso in quanto popolo.
    Né si pensi che il fenomeno del rapimento o sottrazione dei bambini alle famiglie zingare non esista più. Oggi, spesso tali ‘rapimenti’ si compiono entro i tribunali, con l’affidamento di bambini zingari a famiglie non zingare, previa sottrazione del bambino, alla famiglia d’origine. Le motivazioni potete immaginarle: un genitore alcolizzato, vagabondo, ‘incapace di educare i propri figli’, sulla base di criteri che chissà chi stabilisce. Spesso l’unica motivazione, se si va a vedere ben bene è che si tratta di genitori semplicemente poveri. E, spesso questa è una vera ragione per la sottrazione di bambini a famiglie anche non zingare.
    Mi chiedo, solo per fare riflettere: un genitore, per esempio, che dirige un grande istituto finanziario e che mette in atto pratiche truffaldine, tali da determinare sconquassi finanziari e rovinare magari migliaia di persone, succederà mai che gli tolgano un figlio, in quanto persona obbiettivamente non raccomandabile, moralmente riprovevole, delinquente, criminale, truffatore, antisociale?
    No, in questi casi il problema non si pone. Eppure questo genitore sta educando il figlio a mal fare, col suo esempio. Si può dire che con il suo comportamento antisociale sia un buon genitore, un buon educatore, un buon esempio? O lo stesso ci si potrebbe chiedere per un politico disonesto che ruba i soldi della comunità o un imprenditore nella cui industria si abbiano lavorazioni inquinanti al punto di determinare malattie morti e questi ne sia cosciente.

    Un’annotazione. Che gli Jenisch svizzeri non siano collegabili etnicamente agli Zingari è cosa, per me controversa anche se io stesso ho letto più volte che gli Jenisch non hanno nulla a che fare con gli zingari. Ma, se non ricordo male, la stessa Mariella Mehr in un’intervista che credo si trovi in You tube parla degli Jenisch come di Rom. Certamente nella lingua degli Jenisch ci sono molti elementi della lingua Ròmani, ma ciò non basta, perché lessico del Romàni lo si trova in varie lingue ‘segrete’ e gerghi di certi ambiti e mestieri, come, per esempio, in maniera molto consistente, nel gergo dei ramai di Isili in provincia di Cagliari (s’arromanìsca).

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