Non ho visto niente
di Alexik (*)
A giudicare dal suo sito web e dagli articoli entusiasti della Stampa, la casa circondariale ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino deve essere proprio un gran bel posto dove stare: impianti sportivi, occasioni di lavoro, sale mense progettate da “interior designers”, cene con chefs stellati ….
Verrebbe quasi voglia di farsi arrestare apposta per poterne vivere l’esperienza !
Prima di compiere l’apposito reato ritengo però opportuno ascoltare la testimonianza diretta di chi ha avuto, a vario titolo, l’occasione di entrarci, per misurare se non vi sia una certa distanza fra l’immagine e la realtà.
Angela Giordano per quattro anni, fino al settembre 2015, ha attraversato quei cancelli in qualità di educatrice a partita IVA in ‘sub-convenzione’ – in convenzione, cioè con una realtà associativa a sua volta convenzionata con l’amministrazione penitenziaria.
Angela lavorava nel ‘Blocco E’, all’interno della sezione a custodia attenuata ‘Arcobaleno’, dove il Dipartimento Dipendenze della ASL torinese gestisce un programma terapeutico rivolto a detenuti con dipendenza da sostanze stupefacenti, alcol e gioco d’azzardo.
Un settore che ha una funzione delicata, a cui la Direzione carceraria – come recita il sito istituzionale del ‘Lorusso e Cutugno’ – ha dedicato a suo tempo del personale ad hoc, accuratamente scelto fra gli agenti di Polizia Penitenziaria “particolarmente sensibili al progetto e disposti a lavorare in equipe, cercando di creare un clima favorevole al percorso terapeutico del detenuto”. Sentiamo come viene descritto da Angela questo ‘clima’:
“sventola un foglio (la sua busta paga) davanti allo sguardo attonito e disgustato di dieci detenuti … “Duemilacinquecento euro per guardare quattro prigionieri del cazzo! Niente male!” … Ma non è niente in confronto alla frase che gli sento gridare mentre esce dalla stanza, non prima di aver urtato la mia spalla: “10,100,1000 Cucchi!” … Lo stesso, la mattina della vigilia di Natale 2014, era riuscito a suggerire, urlando perché tutti lo sentissero, che il regalo giusto per i detenuti lì presenti era “più corde e sgabelli per tutti”.
Che spessore umano e quanta professionalità! Che sia il frutto della speciale formazione ricevuta?
Racconta Angela:
“un giovedì dell’estate 2015 ero al campo di calcio del Blocco E a organizzare il pomeriggio di gare d’atletica, che proprio in quel campo, con modalità sempre uguali, venivano svolte da almeno 10 anni…. Era stato necessario un gran lavoro burocratico per mettere insieme le autorizzazioni necessarie…
Eravamo autorizzati a restare in campo fino alle 18.00, e tutto si stava svolgendo nel migliore dei modi possibili, fino a quando non avvenne il cambio turno fra gli agenti….
Già dal lento passo e dallo sguardo torvo, avevo capito che T. quel giorno era di cattivo umore, e non aveva nessuna voglia di rimanere sotto il sole ad osservare quei prigionieri che si divertivano… Improvvisamente era sparita la ‘domandina’ con l’autorizzazione a stare in campo fino alle 18.00 …
T. chiamò altri due agenti, perché il tentativo di un volontario di trovare una mediazione che rendesse possibile l’attività era diventata una ‘istigazione’, e i detenuti che chiedevano di poter terminare la gara ‘si opponevano agli ordini di tornare in sezione’.
Nell’incredulità più totale di chi assisteva a quell’assurda distorsione della realtà, T. avvisò anche la sorveglianza del muro di cinta…
L’attività era saltata.”
L’episodio dà il senso di come ogni aspetto della vita dei detenuti, anche il più semplice, sia quotidianamente appeso a un filo di arbitrarietà, che quando viene minimamente contrastata diventa immediatamente minaccia.
Possono essere appese a un filo le decorazioni per i bambini nelle sale colloqui, rimosse perché se no i figli dei detenuti le rompono, o le domande dei permessi premio, che rischiano misteriosamente di perdersi, o il rispetto della dignità dei familiari in visita, e in particolare delle donne.
Angela non trova in tutto ciò nulla che assomigli al concetto di ‘rieducazione del condannato‘, scolpito nella nostra Costituzione all’art. 27. Ma tutto sta ad intendersi su quale ‘rieducazione’ si voglia.
L’onnipotenza delle divise, la precarietà di ogni aspetto della vita, la distruzione dei diritti, la disponibilità a farsi umiliare chinando la testa, sono principi basilari non solo del carcere, ma della società nella quale i prigionieri dovranno reinserirsi al momento del fine pena.
Il carcere li allena, ne verifica l’idoneità ad affrontare ciò che, in versione un po’ più soft, troveranno anche fuori.
Vale anche per il lavoro.
E’ interessante, a proposito il racconto di Angela sulla cena organizzata nel ‘Padiglione E’ per festeggiare l’anniversario della nascita di ‘Pausa Caffè’, la cooperativa che gestisce la torrefazione del carcere. Pausa Caffè è una coop che ha come obiettivo quello di “dare nuova dignità alla vita in carcere, offrendo opportunità di lavoro per i detenuti, aiutandoli a sviluppare importanti competenze produttive e dando vita a imprese sociali di altissimo livello”.
Angela ricorda “una cena in grande, con molti invitati, un catering esterno e la presenza di un cuoco stellato, con cui alcuni nostri detenuti addetti alla cucina ‘avrebbero avuto l’onore di lavorare’”. Un onore a cui difficilmente, anche volendo, avrebbero potuto sottrarsi.
Ma che bello ! Cene in grande ! Cuochi stellati ! Musica dal vivo !
Sento già risuonare nelle orecchie il berciare del populismo forcaiolo da talk show: “Altro che carcere ! Guarda che albergo a 5 stelle, dove i criminali mangiano manicaretti cucinati dagli chefs ! Alla faccia della della gente onesta che li mantiene!!!”
In realtà le cocotte al tartufo e il brasato di fassona non erano destinati ai detenuti, ma ad avventori esterni dal portafogli pieno (prezzo della cena 100 euro a testa, da devolvere ai progetti della cooperativa), alla ricerca di esperienze eccentriche.
Ai prigionieri era riservato il ruolo di camerieri e sottocuochi, e dovevano esserne anche ‘paghi’…. perché altra paga non c’era !
Angela ricorda come “alle nostre richieste che venissero perlomeno remunerate regolarmente le persone che quella sera avrebbero prestato il loro servizio – ci era stato risposto che “i detenuti avrebbero dovuto essere già contenti di poter partecipare a tale evento, e di poter usufruire della formazione che gli addetti al catering avrebbero fatto loro”.
Dovevano essere ‘già contenti’ di poter toccare con mano l’abissale differenza fra il cibo per i ricchi e il vitto carcerario a loro riservato, e di servire alle tavole dei clienti eleganti litri di vino di ottima qualità, di norma severamente vietato in un padiglione per il recupero degli alcolisti (nello stesso stile, potrei suggerire un utile tirocinio come croupiers per i detenuti affetti da ludopatia).
L’esperienza era molto educativa anche dal punto di vista della sempre invocata legalità.
La legge 354/75 sull’ordinamento penitenziario prevede infatti, all’art. 22:
“Le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro”.
È bello vedere come anche questa norma, già di per se discriminatoria, possa essere tranquillamente ignorata in nome della “nuova dignità della vita in carcere”, ed è bello vedere come questo genere di formazione sia veramente propedeutica ad un reintegro nella vita civile. La vita civile ai tempi del Job Act, dove il lavoro e un privilegio e il salario è un favore.
Soffermiamoci sull’argomento ‘cibo’. Il rancio del ‘Blocco E’ non viene, normalmente, cucinato da Nicola Batavia o Cristina Bowerman, né sponsorizzato da Eataly.
Dice Angela, tranchant, che “il digiuno spesso diventa preferibile”.
Consultando il “Referto sulla gestione dei contratti pubblici segretati o caratterizzati da particolari misure di sicurezza”, redatto dalla Corte dei Conti, se ne capisce anche il perché: l’accordo quadro per l’affidamento del servizio somministrazione pasti dell’Istituto penitenziario di Torino prevede una spesa giornaliera di € 3,585 per il vitto di ogni detenuto, dalla colazione alla cena, il che ti lascia immaginare la quantità e qualità delle forniture.
Nella sezione ‘Arcobaleno’ il rancio carcerario è ineluttabile.
Non è prevista infatti la possibilità di cucinare in cella, a differenza delle sezioni ordinarie dove si può acquistare, a caro prezzo, il sopravvitto. Un prezzo oggetto di proteste, come quella dell’agosto 2014, quando quaranta detenuti del “Lorusso- Cutugno” si rifiutarono di rientrare in cella al momento del pasto, cominciando la battitura di posate e stoviglie contro le inferriate. Poi incendiarono giornali e cartoni.
Comunque, il sopravvitto non è un problema dei reclusi della sezione ‘Arcobaleno’, che tanto non possono cucinare.
Chissà se vanno tutti i giorni a mangiare al ristorante di Liberamensa/Cibi per menti libere ?
Angela non può conoscerlo. L’hanno buttata fuori nel settembre 2015 mentre il ristorante è stato inaugurato all’interno del carcere più di un anno dopo, grazie al significativo apporto finanziario fornito dalla Compagnia di San Paolo.
È veramente carino !!! E’ il fiore all’occhiello del ‘Lorusso e Cutugno’, indicato da La Stampa come esempio virtuoso di integrazione possibile.
Architetti di valore ne hanno curato il design, e un sito web ne decanta le qualità gastronomiche e sociali, visto che, assieme al panificio e alla torrefazione, dà lavoro ai detenuti.
Ma… a quanti ?
Il rapporto di Antigone sulla casa circondariale, datato 13 aprile 2017, recita:
“Le lavorazioni all’interno dell’istituto hanno una bassa incidenza per quanto riguarda il numero di persone detenute coinvolte (inferiore alle 10 in totale)”… che sui 1357 detenuti presenti a quella data è una percentuale non da poco (0,73%)!!!
Il rapporto di Antigone dice anche che non esistono sale mensa comuni per i detenuti.
E allora Liberamensa, tolta la clientela esterna del venerdì e sabato, è la mensa di chi ?
“L’esercizio, destinato tra l’altro alla pausa pranzo dei vari operatori penitenziari che lavorano all’interno della suindicata struttura…”, recita il sito della casa circondariale.
Insomma, è la mensa del personale penitenziario, non dei reclusi.
I soldi degli sponsor e gli architetti di grido non sono serviti a ristrutturare gli spazi destinati ai detenuti ma agli agenti, perché evidentemente quelli per i prigionieri non ne hanno un maggior bisogno. Non necessitano, anzi, di nessuna ristrutturazione che ne garantisca se non il design e la bellezza, almeno l’igienicità e la decenza.
Recenti sopralluoghi dei radicali e di SEL presso il “Lorusso e Cutugno” hanno verificato nei reparti sanitari del Sestante (una delle più grandi strutture per la salute mentale in carcere a livello nazionale) e del Centro Diagnostico Terapeutico condizioni di fatiscenza, con ascensori rotti (tutti gli ascensori del blocco A, che ospita il CDT), perdite dai tubi, infiltrazioni d’acqua dentro i muri, cascate nei cavedi, bagni e turche senza porte, con relativa diffusione di tanfo…. ma la priorità è la ristrutturazione della mensa degli agenti di custodia e l’apertura al pubblico di un ristorante.
Forse perché non produce solo alta cucina, ma anche tanta tanta immagine, molto più rassicurante rispetto a quella trasmessa dai 121 casi di autolesionismo attuati dai detenuti nel 2016.
Cercandole da altre parti, dal ‘Lorusso e Cutugno’ affiorano realtà decisamente meno televisive. Come quella registrata da un rapporto del Garante dei detenuti, relativa alle condizioni di un recluso del reparto di Osservazione psichiatrica:
“Le condizioni igieniche della stanza sono apparse scadenti e scarse di corredo. Il letto è allestito esclusivamente con una coperta, senza lenzuolo, perché, come riferito dagli agenti del reparto, trattandosi di persona ad alto livello di sorveglianza viene applicata la cosiddetta “rimozione”, cioè la privazione di tutto quello che può essere usato per farsi del male.”
Ma torniamo per un attimo all’argomento lavoro.
Il Rapporto di Antigone segnala che al ‘Lorusso e Cutugno’ 60 detenuti sono inseriti in percorsi lavorativi all’esterno, grazie a protocolli d’intesa fra l’Amministrazione penitenziaria e gli enti locali. “Il Comune di Torino inserisce 30 persone all’AMIAT (l’azienda di raccolta e trattamento rifiuti). Si nota come queste mansioni non tengano conto di un eventuale sbocco professionale futuro (il lavoratore, concluso il semestre di lavoro – per i più fortunati 18 mesi – non viene stabilizzato in azienda) e garantiscano stipendi molto bassi (intorno ai 130 Eu mensili tramite voucher, che ora si trasformeranno in 400 euro mensili)”.
No, non 400. Trecento per la precisione, gli euro mensili, per i sei detenuti impiegati dal 31 gennaio nel parco della Mandria e per il Comune di Druento.
Trecento gli euro mensili per trenta ore settimanali di lavoro e ‘volontariato’ nella manutenzione del parco, rimozione della neve, accudimento scuderie, pulizia dei fossi, lavori di tinteggiatura e muratura.
Ora, uscire da quelle mura è fondamentale.
Fondamentale riconquistare i colori uccisi dal grigio della prigione, riconquistare l’aria, un pasto normale, una birra bevuta nel bicchiere di vetro, il rapporto solidale con i lavoratori dell’AMIAT. Lontano da quelle celle soffocanti, dall’arbitrio e dall’arroganza dei guardiani.
Ma tutta l’operazione ha anche aspetti meno nobili, visto che abbassa i salari della manutenzione parchi dai livelli contrattuali di un operaio AMIAT a quelli di un bracciante di Villa Literno.
E’ questa la rieducazione alla dignità del lavoro ? E dov’è la dignità del salario ?
Recentemente, c’è anche chi ha pensato di costruire degli strumenti finanziari basati su progetti di reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute.
E’ il caso dei ‘Social Impact Bonds’, strumenti Pay by Results (PbR) progettati proprio a misura del ‘Lorusso e Cutugno’ dalla Human Fundation (la fondazione presieduta da Giovanna Melandri), dalla Fondazione Sviluppo e Crescita Crt, dal Politecnico di Milano, dall’Università di Perugia e dalla multinazionale KPMG. La filosofia che sottende il progetto è la seguente:
“Un possibile strumento finanziario aggiuntivo è rappresentato dai PbR, attraverso i quali gli investitori privati forniscono il capitale iniziale per la gestione di progetti sociali di natura innovativa a fronte dell’impegno, da parte delle Amministrazioni Pubbliche titolari istituzionali di quei progetti, di elargire, come remunerazione sul capitale investito, i risparmi generati per le casse pubbliche dal successo dei progetti stessi“.
Personalmente mi sembra una follia, ma in questo mondo sempre più folle non ci si deve stupire più di niente.
Angela è già al riparo da tutto questo. Lei è già fuori, estromessa dal suo lavoro.
Le partite IVA, anche quando da anni lavorano 40 ore settimanali per lo stesso committente, non godono di tutele o di preavviso. E poi ormai non ne godono nemmeno più i dipendenti.
La sua convenzione è stata chiusa perché ha abbracciato una sua amica in presidio davanti al carcere, perché è andata alle manifestazioni No Tav, perché ha messo le magliette sbagliate.
Perché è colpevole di abbraccio e di avere delle idee, ma anche perché non è mai riuscita a star zitta di fronte a quello che vedeva oltre i cancelli.
Peggio: insisteva, formalizzava, scriveva (e continua a scrivere). Comportamenti invisi a tutte le catene di comando, che a fronte della parola scritta non possono più fingere di non sapere.
Il libro: Angela Giordano, Non ho visto niente. Sul come essere No Tav comporti perdere il lavoro, Sensibili alle Foglie, 2017, p. 95.
(*) Tratto da Carmilla on line.
Bisogna lavorare ad uno statuto dei diritti della persona detenuta che abbia come riferimento gli stessi diritti delle persone non detenute;
soprattutto decarcerizzare; ho appena finito di leggere di Marmot “la salute diseguale” ; In Islanda ci sono 150 persone detenute; cioè 50 per 100.000 abitanti;negli USA sono 800 per 100.000;
se in Italia le peone detenute fossero nella stessa percentuale dell’Islanda sarebbero mi pare 30.000 cioè la metà degli attuali; quantomeno gli spazi sarebbero diversi e c sarebbero i refettori invece che dover mangiare praticamente nei cessi;
Come si fa a trovare il libro?
Lo leggerò senz’altro.
Vito Totire
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