Non sono una fetta di torta
intervista a Mona Eltahawy (*)
Nel tuo nuovo libro «Fazzoletti da testa e imeni: perché il Medioriente ha bisogno di una rivoluzione sessuale» tu scrivi di quando, adolescente, decidesti di indossare l’hijab. Cosa ti spinse a farlo?
Mona Eltahawy: «La mia famiglia si trasferì in Arabia Saudita dalla Gran Bretagna quando io avevo 15 anni. Sono stata molestata sessualmente due volte durante il pellegrinaggio alla Mecca. La cosa mi ha fatto sentire il desiderio di nascondere il mio corpo. Feci un patto con Dio, di questo tipo: “Dicono che una brava donna musulmana dovrebbe indossare la sciarpa per la testa. Lo farò se tu mi salverai dall’impazzire”».
Ma hai smesso di indossarlo a 25 anni. Cos’è accaduto?
«Ero in metropolitana a Il Cairo, con il mio hijab addosso, e una donna che indossava il niqab – un velo che copre completamente il viso – sedeva di fronte a me. Iniziammo una conversazione e capii che lei voleva io vestissi allo stesso suo modo. Mi disse: “Mangeresti più volentieri una fetta di torta con il suo involucro o una che non ce l’ha?”. Io le risposi: “Sono una donna, non una fetta di torta”».
Perché per te è importante restare musulmana, invece di rigettare del tutto la fede, come ha fatto Ayaan Hirsi Ali?
«Io menziono spesso Khadijah, la prima moglie di Maometto. Era un’imprenditrice e ha dato lavoro a Maometto. Era più anziana di lui di 15 anni, era divorziata ed è stata lei a proporre il matrimonio a lui. Se questa è la prima persona che diventò musulmana, c’è qualcosa in questa fede a cui vale la pena aggrapparsi».
Alcune donne del mondo arabo hanno criticato il tuo lavoro, dicendo che ritrai le donne arabe come impotenti.
«Io non sto dicendo “Venite a salvarci”. Io credo che nessuno possa o debba venire a salvarci. Io sto mettendo in luce quali sono i nostri nemici: la misoginia e il patriarcato».
Tu hai scritto che tali istanze non sono specificatamente islamiche. Pensi che tutte le fedi abramitiche siano essenzialmente anti-femministe?
«Sì. Se le riduci alla loro essenza trattano del controllare le donne e la loro sessualità. Io ho vissuto a Gerusalemme per un periodo, quando facevo la reporter per Reuters, e le famiglie ebree ultra-ortodosse che ho visto mi ricordavano le famiglie saudite».
Tu sei andata in Egitto durante la Primavera Araba. Ma quando sei arrivata hai scoperto che la rivoluzione politica non includeva necessariamente la rivoluzione sessuale.
«Eravamo per le strade a marciare con gli uomini, fianco a fianco, ma le donne continuavano a essere assalite durante le manifestazioni ed è diventato ovvio che gli uomini stavano tentando di spingerci fuori dallo spazio pubblico. Nulla è migliorato per le donne, nulla. E in un’era di rivoluzione questo è assolutamente inaccettabile e irragionevole».
Tu sei stata assalita mentre davi copertura giornalistica alle proteste in Piazza Tahrir. Cosa accadde?
«Ero in manifestazione con una mia amica attivista e siamo finite intrappolate da poliziotti in borghese. Poi la polizia antisommossa mi ha pestato, mi hanno rotto il braccio sinistro e la mano destra in due punti e mi hanno assalita sessualmente».
Quali sviluppi ha avuto la Primavera Araba per le donne?
«Le donne che sono state coinvolte nella rivoluzione all’esterno se la sono portata a casa. La copertura giornalista si concentra per la maggior parte sugli uomini, sulla politica. Ma io penso che la rivoluzione socio-sessuale sia più interessante e che alla fine salverà l’Egitto. Sia i militari sia gli islamisti sono autoritari, gerarchici e molto paternalistici. La chiave per il cambiamento è l’eguaglianza di genere».
Guardando allo stato della Libia e della Siria oggi, dopo la Primavera Araba, ti chiedi mai se ne è valsa la pena?
«No. Sovente paragono l’Egitto a una casa in cui ogni finestra e ogni porta sono rimaste chiuse per i passati 60/65 anni. Di base, la rivoluzione ha aperto una finestra in questa casa. E tu puoi immaginare la puzza che esce dall’edificio dopo tutti quegli anni. E’ orribile, il tuo primo impulso sarebbe di chiudere la finestra, per via del fetore. Ma l’unico modo per liberarsi dell’odore è continuare ad aprire le finestre, tutte le finestre».
(*) Testo ripreso dal blog «lunanuvola»: con il titolo «Mona Eltahawy Doesn’t Need to Be Rescued» questa intervista a Mona Eltahawy è stata pubblicata su «New York Times»; la traduzione e l’adattamento sono di Maria G. Di Rienzo.