«Non voglio guai» e…
… butta in mare chi chiede aiuto: accadeva il 10 gennaio 2008 (*)
«Fu il primo caso di condanna in Italia per omicidio volontario e omissione di soccorso in mare». Quel processo lo ricorda bene l’avvocato Leonardo Marino di Agrigento.
Tutto era cominciato il 10 gennaio 2008. «Poco lontano da Lampedusa, un tentato sbarco d’inverno, anomalo ma neanche troppo» racconta Marino: «Il barcone, ancora in acque internazionali, sta per affondare e chiede aiuto. Lì accanto c’è un peschereccio italiano, l’Enza D, e uno dei naufraghi riesce a salire su. E viene rigettato in mare. Si chiamava Mohamed Abdisalam Mohamed, detto Sonwa, ed era nato a Galcaio (in Somalia) il 1 ottobre 1968. Lo stesso giorno, in serata, arriva una telefonata ai carabinieri di Agrigento: “voglio denunciare un omicidio in mare”. Racconta la storia, dice che non può dare il suo nome – “se no finisco in mare anche io” – e attacca».
Per mestiere Leonardo Marino si occupa di penale e di immigrazione ma per umana solidarietà segue molti progetti che riguardano profughi e migranti. Quando gli arriva la notizia di questo naufrago gettato in mare sta occupandosi di un caso molto simile ma… “a rovescio”: cioè di alcuni pescatori tunisini accusati di «favoreggiamento» per aver soccorso in mare 44 di quelli che i cronisti definiscono (sempre e comunque) «clandestini». Quel processo finì bene perché, sia pure dopo mesi di galera, i soccorritori vennero assolti; come prevede la logica, l’umanità e le più antiche e internazionali consuetudini del mare. «Eppure in primo grado – ricorda Leonardo Marino – i due comandanti tunisini erano stati condannati per “resistenza a nave di guerra”, una sorta di resistenza a pubblico ufficiale. Era caduta l’accusa più grave, cioè di aver favorito un’organizzazione criminale, ma comunque la condanna vi era stata. Poi in appello, nel 2011, furono tutti assolti, definitivamente: una sentenza importante».
Quando viene a sapere ciò che è accaduto sulla Enza D quel 10 gennaio 2008, l’avvocato Marino si muove subito: «Con alcuni colleghi riesco a rintracciare alcuni dei nigeriani che erano stati tratti in salvo (dal peschereccio Cesare Rustico) dopo altre 6 ore di terrore sul gommone alla deriva. Grazie a un pubblico ministero bravo si procede contro il comandante della Enza D», il quale curiosamente di cognome fa Marino anche lui: Ruggiero Marino. C’è subito un «incidente probatorio» – che tecnicamente serve a garantire le testimonianze quando non si ha la certezza di poter poi sentire i testimoni in tribunale – durante il quale quasi tutti i migranti testimoniano che uno di loro, arrivato sulla Enza D, era stato ributtato in mare dove era annegato. Sono queste conferme il clou del processo.
«Ricordo che, durante il procedimento, Ruggiero Marino si giustificò: in dialetto pugliese spiegò che lo aveva fatto “per non passare guai, non volevo che mi sequestrassero l’imbarcazione per complicità con i clandestini” e si accalorò, voleva convincere se stesso e tutti che non poteva fare altrimenti». L’avvocato Marino sottolinea che quelle pazzesche giustificazioni non erano soltanto l’aspetto più drammatico della vicenda che costò la vita a Sanwà ma anche il punto-chiave per spiegare un clima: «perché quello era davvero il messaggio che girava: non aiutate i profughi in mare, se no vi sequestriamo le barche e vi denunciamo». Non sempre lo si diceva apertamente ma il clima politico, le sparate dei leghisti (e non solo) martellavano in quella direzione.
Anche per questo – contro cioè quel clima avvelenato che tentò di condizionare i giudici non meno dei pescatori – la sentenza ha un valore storico. Il 21 luglio 2009 il tribunale di Agrigento (sentenza 236/09) condanna il comandante Ruggiero Marino; decisione che sarà confernata il 21 giugno 2010 dalla Corte d’assise d’appello: 12 anni di carcere. C’è il rito abbreviato e dunque la riduzione di pena. Ma è una condanna che non serve solo a tenere Ruggiero Marino in cella ma a ribadire l’obbligo di soccorrere in mare chiunque. Potrebbe essere altrimenti?
Una sorta di post scriptum sulla memoria e sulla rete
C’è chi sostiene che in rete, a saper cercare, c ‘è tutto. In questo caso non è vero. La mia memoria sul «clandestino» ributtato in mare, invece che soccorso, nel 2008 parte da un ritaglio di giornale, un solido appiglio: Stefano Galieni ne scrisse sul quotidiano «Liberazione» il 24 luglio 2009 (dunque dopo la condanna del tribunale di Agrigento). Ma dopo? In appello la sentenza potrebbe essere mutata o rovesciata. Vado in rete. Digito via via le parole chiave: su «Mohamed Abdisalam Mohamed» nulla; su Leonardo Marino molto ma riguardano un omonimo (la vicenda dell’assassinio di Luigi Calabresi); su «Enza D» nulla e nulla su «Ruggiero Marino». Niente su «Cesare Rustico», il peschereccio che invece soccorse i naufraghi. Prima di alzare la cornetta e chiedere a Stefano Galieni se ha conservato i recapiti dell’avvocato Leonardo Marino mi capita però di trovare in rete una “falsa” pista che mi pare illuminante. Digito «Lavinia»: è il nome di una nave della Marina Militare accorsa (richiamata dal comandante del peschereccio Cesare Rustico) per portare i migranti a Lampedusa. In rete mi compare l’articolo che incollo qui sotto.
Occhio alla data: è marzo 2002. Non c’entra dunque con quel naufragio del 2008 ma leggetelo.
Accuse al «Cassiopea» dall’equipaggio del peschereccio. L’Onu: accessi più sicuri all’Europa per i rifugiati
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI – LAMPEDUSA (Agrigento) – Le urla e il silenzio di chi cercava di restare in vita e moriva diventano rabbia nel più giovane dei soccorritori, il «giovanotto di macchina» dell’ Elide, Enzo Othomane, nome italiano e cognome tunisino, la madre di Mazara del Vallo e il padre di Tunisi, 18 anni, un cappello con la visiera sulla nuca, la barbetta appena accennata, il volto e gli occhi come quelli di Leonardo Di Caprio. E la sua rabbia esplode quando attracca a Lampedusa «solo con nove superstiti»: «E’ tutto colpa della “Lavinia”, della Marina militare». Si sfoga questo ragazzo rimasto al culmine della tragedia piegato sulla parte più bassa della fiancata del peschereccio, a poppa, con i piedi tenuti stretti da due suoi compagni, le braccia tese sull’acqua per afferrare i naufraghi. Parole dure le sue. Destinate ad alimentare una polemica politica esplosa nei Palazzi di Roma. «Quando alle sette di sera, col buio, dopo che trainavamo da due ore la barca carica di disperati, ho visto arrivare la nave militare ho sperato che fossimo tutti salvi. Perché la cosa più normale sarebbe stata di trasbordare i clandestini su quella nave», spiega il «giovanotto» al suo terzo anno di lavoro in mare. «Bisognava avvicinarsi ai naufraghi, trovare il modo di farli salire a bordo. E ancora si poteva perché il mare era forte, ma non violento. Bisognava approfittare nel movimento delle onde. E uno alla volta i militari avrebbero potuto prenderli. Magari, cominciando con i bambini, imbracandoli con le funi, tendendo una scaletta… Niente di tutto questo. Si sono messi a fianco solo controllando il traino della barca che andava su e giù, un’ onda dopo l’ altra, tenuta per miracolo dalla nostra gomena. L’ unico aiuto della “Lavinia” erano i fari. Illuminavano la disperazione», rimprovera Enzo aggrappandosi con i suoi occhi ad un vecchio marinaio, il suo maestro, lo «zio» Ciccio, Francesco Giacalone, che si definisce «una specie di nostromo». E anche lui sfoga rabbia: «L’ elicottero poteva imbracarli uno alla volta. Non lo fanno forse con il verricello anche per gli alpinisti in alta montagna? Perché non si può tentare in mare, calandosi su una barca in balia delle onde? E invece dopo due ore di rimorchio con i fari accesi ce li siamo visti morire sotto gli occhi, impotenti, come dei cretini… Adesso i generali e gli ammiragli dicono che un rimorchio in quelle condizioni può provocare tutto questo. Ma non si poteva capire prima?». I quesiti echeggiano da Lampedusa e s’incrociano con i dubbi di esponenti politici pronti a chiedere al governo di riferire alla Camera. Come fa il diessino Pietro Ruzzante: «Non è il momento della polemica, ma questi fatti debbono farci riflettere. L’ ennesimo viaggio della speranza si è trasformato in un viaggio senza ritorno». Dello stesso tono Marco Minniti, ex sottosegretario del governo D’ Alema, perché nel contrasto al fenomeno dell’immigrazione clandestina non si indulga «ad uso improprio della forza». Ma il ministro delle Comunicazioni Gasparri è convinto che il nuovo dramma confermi piuttosto la necessità di «una legge più severa sull’immigrazione». Resta l’ appello del sindaco di Lampedusa Totò Martello per «una soluzione politica». La stessa auspicata dalla Federazione internazionale dei diritti dell’uomo che a Palermo scende in campo con il responsabile siciliano Lino Buscemi invocando il recupero dei corpi senza ripetere lo «scandalo» di Pozzallo dove una nave affondò cinque anni fa «e tutti lasciano ancora 200 esseri umani sepolti in una carretta adagiata sul fondale». Il tema della solidarietà è rilanciato infine dall’Alto commissariato dell’ Onu per i rifugiati contrario «ad una politica di zero immigrazione». L’ Alto commissariato chiede «un approccio che permetta ai rifugiati di avere un accesso più sicuro in Europa».
L’articolo è firmato F. C. cioè Felice Cavallaro. Lo trovate in archiviostorico.corriere.it › Archivio (dunque «Corriere della sera») se sapete il titolo o la data (9 marzo 2002) oppure digitando, come ho fatto io, «Lavinia». A me sembra che questo articolo di 12 anni fa, quasi eguale a decine di altri, racconti l’altra faccia del crimine commesso dal comandante Ruggiero Marino; c’è tutto il rituale – le parole dure, le polemiche, i dubbi, i Gasparri – che si ripete e poi nulla cambia. Si continua a far morire migranti e profughi in mare perché questa è, al di là delle chiacchiere, la scelta politica dell’Italia. Si fa ma naturalmente non si dice.
(*) Questo mio articolo è uscito su «Corriere delle migrazioni».