Nonsense e disincanto
«La vita ha un dente d’oro» di Rita Frongia con la regia di Claudio Morganti
di Susanna Sinigaglia
La bizzarria della pièce teatrale traspare già dal titolo che, pare, sia la traduzione impossibile di un’espressione ormai in disuso della lingua bulgara secondo la quale anche nelle cose più autentiche si nasconde una finzione.
Le luci si accendono su due uomini seduti, l’uno di fronte all’altro, a un tavolino dove si trovano un piccolo bicchiere, sembra da liquore, e una bottiglia di quelle che ci portano ancora in trattoria quando chiediamo dell’acqua non minerale. Uno dei due uomini, sul palco a sinistra per il pubblico (Gianluca Stetur) ha una fascia che gli avvolge le tempie (è caduto in stato di ebrezza e ha sbattuto la testa?); l’altro (Francesco Pennacchia) no. Sulla scena illuminata domina il rosso: delle sedie, dei pantaloni di Stetur, della maglia di Pennacchia. I due ingaggiano una strana competizione con bottiglia e bicchiere, li spostano sul tavolo come fossero le pedine di qualche passatempo da osteria, tessere del gioco delle tre carte, poi iniziano a parlarsi in una strana lingua che si finge croata, scimmiottando la parlata degli slavi che popolano le nostre città, passano a un dialetto meridionale, forse pugliese, e infine si attestano sull’italiano. In realtà non si capisce molto di che cosa parlino, dicono frasi buffe, a volte senza senso e a volte scontate. Il personaggio-Pennacchia reitera, a più riprese, il gesto di versare il liquido della bottiglia nel bicchierino che tiene in mano il personaggio-Stetur. Però il liquido è talmente centellinato che solo poche gocce ne arrivano in fondo al bicchiere, con il personaggio-Stetur che boccheggia in attesa di potersi cacciare in gola quelle poche gocce, palesemente d’acqua; ma, dalle smorfie che fa quando arrivano a destinazione, mostrano la pretesa d’essere d’un qualche tipo di acquavite, o grappa, o vodka. A un certo punto il personaggio-Pennacchia riempirà invece il bicchiere fino all’orlo e oltre, con il liquido che finisce sul tavolo fra le proteste dell’altro: prima troppo poco, ora troppo. Sembra davvero la metafora di quanto spesso accade nella vita, soprattutto a chi – avendo un impiego precario – oscilla fra uno stato di disoccupazione e uno di sovraccarico di lavoro, mal pagato. Un lavoro che non può permettersi di rifiutare perché deve compensare i periodi d’inattività e perciò, quando c’è, straborda oltre i confini generalmente accettati invadendo la vita privata.
Infine il personaggio-Stetur crolla sul tavolo addormentato, l’altro si ritrova improvvisamente senza interlocutore e inizia un monologo triste. La pièce, che finora si è mantenuta su una nota comica pur se un po’ delirante e velata di malinconia, vira decisamente su un tono drammatico e il personaggio rimasto sveglio, terminato il monologo, si avvia verso il fondo da cui si levano suoni elettronici stridenti e assordanti. Buio.
Anche se il finale lascia un po’ perplessi, il lavoro è nel complesso apprezzabile – sia per la regia sia per l’interpretazione dei due bravi attori – e divertente. Evoca il teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco innanzitutto per l’uso del linguaggio e in secondo luogo perché anche i due personaggi di Rita Frongia potrebbero trovarsi nell’ipotetica attesa di un salvifico Godot che non arriverà mai. Le loro strane parlate, inoltre, rimandano al Massimo Troisi dei ragionamenti smozzicati e stralunati. Quando in un lavoro artistico si possono ritrovare nobili riferimenti significa che l’obiettivo è raggiunto e l’operazione, riuscita.