Nunzio deve stare in gabbia

di Marco Calabria (*)

Nunzio D’Erme è stato portato in carcere per la sua storia, che è anche la storia di molti di noi. Perché ha avuto l’umiltà e l’intelligenza di saper ascoltare la gente e perché, di conseguenza, viene considerato dalla gente, cioè da molte migliaia di persone, un importante e autorevole punto di riferimento per provare a cambiare il mondo. Chiunque aspiri a trasformare Roma, una città che sta affogando nella paura di cambiare, deve chiedere che sia liberato subito.

E chi glielo dice adesso a Martín, a Lorenzo, a Enea e a tutti gli altri marmocchi in cuffia e costumino che Nunzio, il maestro sempre pronto a giocare, quello che sorridendo gli ha insegnato a reggersi a galla nella piscina comunale del Tufello, l’hanno portato in prigione? Non ci mette mica molto a raggiungere a Regina Coeli, Martín. Oggi non siamo potuti andare ma il primo giorno che non c’è scuola selliamo Dinamite, il cavallo che condivide con Tex Willer, prendiamo la stella da ranger, il winchester e via al galoppo a tirar fuori Nunzio D’Erme da quel postaccio brutto con le sbarre alle finestre.

È stata la signora Antonella Menunni, giudice per le indagini preliminari, figura che per definizione deve esercitare funzioni di garanzia, a decidere di rinchiudere Nunzio. La signora sostiene che, rimanendo in libertà, avrebbe potuto inquinare le prove. Questo ha spiegato ieri l’avvocato Lucentini. Non nutriamo alcun rispetto a priori per il “lavoro della magistratura”, come vuole un diffuso quanto assurdo e acritico senso comune, ma siamo certi che la signora Menunni non può aver preso a cuor leggero quella decisione. Quando si alza la mattina, un giudice che decide di privare una persona della libertà, deve certamente sentirsi l’animo leggero. La colazione potrebbe risultare indigesta, altrimenti.

Quel che non può non stupire tuttavia è che la convinzione della signora Menunni pare si fondi sic et simpliciter su un’interpretazione assai originale dell’utilizzo della misura coercitiva cautelare. Tanto originale che si fa una fatica del diavolo a cercarne i precedenti. Nunzio D’Erme non è stato portato in carcere (pregasi riservare il verbo “tradurre” alle prose questurine) perché, per sfuggire alle sue responsabilità, avrebbe potuto eclissarsi negli affollati spogliatoi della piscina romana di via del Gran Paradiso. E nemmeno perché sarebbe potuto fuggire in Chiapas o in Palestina, terre lontane a lui care, dove la violazione dei diritti umani è però ancor meno episodica che in Italia. No, il problema, per la signora giudice, non sarebbe ciò che Nunzio ha fatto o potrebbe fare. Il problema sarebbe chi è Nunzio D’Erme. Sì, insomma la sua storia, la voglia di cambiare il mondo, il “carisma”, espressione impegnativa che in questo caso potrebbe indicare l’umiltà e l’intelligenza di saper ascoltare la gente. Di conseguenza, il problema cautelare diventa anche di essere considerato dalla gente, cioè da molte migliaia di persone, un importante e autorevole punto di riferimento. Una persona capace di esprimere in piena libertà un pensiero indipendente critico e coraggioso. Una persona che si affanna a tentare di render migliore una società e un mondo in cui nuotiamo sempre più soli, ridotti a valore mercantile e dominati dalle ansie e dalle paure.

Conosciamo Nunzio D’Erme da molti anni. Ne abbiamo apprezzato in tante e diverse occasioni la generosità, la tenacia, la simpatia. Ne conosciamo l’allegria, qualche debolezza, l’incedere scanzonato, imprudente, spontaneo. Nunzio è refrattario alle astrazioni, alle gerarchie, alle definizioni rigide, alle classificazioni. Per questo gli vogliamo bene, per questo gli affidiamo i nostri figli. Non crediamo si sia mai pensato come un’avanguardia di lotta, come un leader. Nemmeno quando la sua popolarità, grazie al tasso di spettacolo che ogni maledetta competizione elettorale comporta, ha raggiunto livelli considerevoli.

Ci risulta francamente difficile immaginarlo intento a elaborare strategie volte a inquinare le prove di un reato che certamente non considera tale. Viene accusato, in sostanza, di aver difeso la possibilità di tenere un’iniziativa pubblica per affermare la democrazia. Un’iniziativa non solo legalmente autorizzata ma istituzionale, promossa a favore dell’educazione sentimentale, contro l’omofobia e quella galassia di violenze del corpo e della mente che passa impropriamente sotto il nome di bullismo. Roba che va tenuta lontano dai ragazzini, roba che può far male davvero, che può segnare in modo indelebile l’adolescenza e far annegare una vita nell’autolesionismo. Quel tema è, o dovrebbe essere, la sola cosa seria di questa assurda vicenda.

L’iniziativa del 21 maggio, promossa nella sede del VII Municipio, era però stata pubblicamente osteggiata da Militia Christi, un movimento fazioso e fondamentalista, cattolico e politico: i valori della destra contro la “deriva gender”, l’eterna crociata contro Sodoma e Gomorra. Militia Christi ha pochi e invasati seguaci ma è nota soprattutto per l’istigazione a opporsi con ogni mezzo all’autodeterminazione delle donne e alla pluralità degli orientamenti sessuali. La presenza di suoi esponenti all’iniziativa contro la discriminazione era dunque un’evidente provocazione. Come accade spesso in questi casi, quel 21 maggio ne è nata una piccola zuffa sulle scale dei locali del municipio. Due persone in abiti civili si sono in seguito qualificate come agenti della Digos. Sono loro ad accusare di resistenza anche Marco Bucci, un ragazzo del centro sociale Spartaco di Cinecittà, costretto agli arresti domiciliari, per il quale s’invoca una condanna esemplare quanto arbitraria.

Per Nunzio l’accusa è ancora più grave, tanto grave da spingere un giudice a privarlo del bene più prezioso, la libertà. Oltre alla resistenza aggravata (aggravata da che?), si parla di lesioni sull’agente (un referto serale del 21 maggio, stilato al pronto soccorso, aveva prescritto tre giorni di cure. Più tardi, però, i giorni sono diventati misteriosamente 40) e di aver favorito la fuga di un ragazzo già ammanettato accusato di aver minacciato gli uomini della Digos.

Fin qui i fatti, francamente tutt’altro che epocali. Decidere di arrestare Nunzio D’Erme non sembra solo una misura “sproporzionata”, aggettivo che in estate la città di Gaza ci ha insegnato a considerare con un’attenzione speciale. La sola spiegazione plausibile di tanto accanimento resta quella di attribuire alla “sproporzione” un valore squisitamente politico. Alle manifestazioni per l’affermazione del diritto a vivere in un’abitazione dignitosa, alle relazioni sociali non dominate dal denaro che si costruiscono ogni giorno negli spazi pubblici occupati e autogestiti, alla capacità di creare cultura indipendente, di inventare futuro e costruire speranza, le principali istituzioni della capitale rispondono ribadendo in modo implicito ma con fermezza che sono state create esclusivamente per controllare e dominare. Il resto, qualora ci fosse, resta del tutto secondario, ininfluente.«Questa città è in mano al prefetto» ha detto ieri Federico, compagno di lungo corso e di straordinarie avventure affrontate a viso aperto con Nunzio. Federico parlava in una conferenza stampa molto tesa e molto partecipata, indetta per aprire una campagna di giustizia cui l’ex consigliere comunale D’Erme non mancherà, ne siamo certi, di dare ancora un prezioso e originale contributo.

Sì, perché – ne pensi quel che più ritiene opportuno la procura di Roma – la speranza siamo noi. Come ricordava Gustavo Esteva nell’ultimo articolo che abbiamo messo su «Comune» a proposito di certi indigeni col passamontagna molto cari a Nunzio, a noi e ai suoi amici, quelli che stanno in alto distruggono. Quelli che stanno in basso, come Nunzio, invece, si trovino nelle montagne del sud-est messicano o nei quartieri romani depredati dalle speculazioni, sono destinati a costruire, nuotano come pesci nella ribellione e insegnano a tenere alta la testa e la dignità nell’oceano della vita. Per questo sono la speranza. Una speranza niente affatto simmetrica ai poteri istituzionali dell’arbitrio, del controllo e del dominio. L’esperienza universale –- ricordava ancora Esteva – mostra come chiunque abbia tentato, pur con le migliori intenzioni, di trasformare la società attraverso gli strumenti creati dal mondo contro cui lottava, prima o poi sia rimasto prigioniero di quegli stessi strumenti. Con la trappola della spirale violenza-repressione e con la conquista del potere dello Stato, dicono le ribellioni più interessanti degli ultimi anni, non ci fregate più.

Accade invece spesso qualcosa di diverso, di molto più indigesto per un sistema che agonizza ma riesce ancora a ricomporre, quasi magicamente, l’incantesimo che gli consente di dominare il pianeta. Accade che il dolore per la libertà sottratta in base al puro arbitrio, in certi quartieri delle periferie metropolitane si trasformi sovente in rabbia, e la rabbia divenga poi nuova determinazione a fare, ad agire, cioè ribellione. Ribellarsi contro un sopruso come quello subito da Nunzio non solo è giusto ma è un esercizio di libertà. A maggior ragione, se non ci si ribella chiedendo indennizzi allo Stato o spaccando tutto quel che c’è da spaccare, ma costruendo relazioni diverse e facendo mondi nuovi, come accade talvolta perfino a Roma. Al teatro Valle, per esempio, oppure al cinema America, al Corto Circuito, alla piscina Crowl 2000 e in molti altri spazi di libertà e di autogestione non dominati dal denaro.

Ci pensi, signora Menunni. Restituisca la libertà a Nunzio D’Erme. Si scusi con lui per un equivoco che non avrebbe certo giovato né alla verità né alla giustizia. Ci sorprenda lasciando da parte la maschera obsoleta dell’arbitro terrestre del bene e del male, per assumere quella saggia di chi si prende cura della nostra malandata società. Signora giudice, per favore, non diventi la cattiva maestra dei nostri bambini.

(*) Ripreso da «Comune info».

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