Obbligati a produrre rifiuti e a devastare i nostri territori

Il caso di Valledora.

da Infoaut

Dal primo pannolino all’ultimo pannolone, oggi il sistema ci impone non solo di essere consumatori di prodotti, ma anche produttori di rifiuti: senza tregua e senza alcuna possibilità di sottrarci a questo ruolo quotidiano obbligato, per quanto frugali cerchiamo di essere.

Specialmente in Italia, dove ancora ogni acquisto non digitale genera uno scontrino (stampato su carta termica: rifiuto da gettare nell’indifferenziato). Produciamo direttamente rifiuti urbani e indirettamente, e in quantità e varietà molto maggiore, rifiuti speciali: quelli delle industrie, tra i quali anche rifiuti pericolosi.

La nostra attività quotidiana di produttori di scarti oggi è talmente pervasiva da farci dimenticare che fino a meno di un secolo fa l’immondizia era, come dice la parola, soltanto ciò che era troppo sporco o corrotto per essere riutilizzato, e la sua quantità talmente esigua da non costituire un problema per la collettività. Nel secondo dopoguerra, al boom economico si è accompagnata l’esplosione dei rifiuti, dovuta alla crescita demografica, all’espansione dei centri urbani e all’avvento della Grande Distribuzione Organizzata favorito, tra l’altro, dalla diffusione delle materie plastiche (compreso il polipropilene isotattico, invenzione italiana del premio Nobel per la chimica Giulio Natta, nota al pubblico con il nome commerciale di Moplen, prodotta dalla Montecatini). È allora che la gestione degli scarti urbani diventa servizio pubblico, di cui si fanno carico le amministrazioni comunali: gestione che a quell’epoca significava esclusivamente smaltimento in discarica.

Qualche decennio più tardi, proprio quando avrebbe dovuto aprirsi una riflessione sulla necessità assoluta della riduzione dei rifiuti alla fonte, perché le quantità da smaltire erano divenute critiche e lo Stato e gli Enti locali erano chiamati a trovare nuove soluzioni, i privati hanno cominciato a fiutare un certo odore di business in mezzo alla puzza dei rifiuti. Ed ecco entrare in campo società che si occupano di riciclare alcune specifiche categorie di rifiuti urbani e di trattare quelli speciali.

Il sistema neoliberista come sappiamo prospera sulle emergenze e sulle catastrofi, nonché sull’applicare ai problemi soluzioni che non li risolvono alla radice, ma consentono di continuare a guadagnarci su. Così, per esempio, la produzione di imballaggi in plastica, benché così impattante, ha continuato a crescere, perché limitarla significherebbe non solo mettere in difficoltà i produttori, ma anche la filiera del riciclo. E per quanto folle sia proseguire a distruggere bottiglie di vetro che potrebbero essere sterilizzate e riutilizzate, il vuoto a rendere di cui le persone di una certa età hanno ancora nostalgia è ben lontano dall’essere ripristinato come prassi.

Da 15-20 anni a questa parte, poi, grandi attori privati (multiutility come Iren, A2A, Acea, Hera, ecc.) sono entrati anche nel settore dello smaltimento, gestendo discariche e inceneritori (ribattezzati termovalorizzatori, uno dei termini più antichi della neolingua del greenwashing).
Quando il privato gestisce il servizio idrico, la riduzione dei consumi d’acqua si blocca; quando il privato gestisce lo smaltimento dei rifiuti, la raccolta differenziata si arena e l’indifferenziato, di cui i forni di incenerimento gestiti da questi giganti economici hanno una fame insaziabile, riprende ad aumentare, com’è necessario, perché crescano gli utili e i dividendi degli azionisti. Che a volte sono anche pubblici, ma in minoranza, e raccattano le briciole.

Tutti gli impianti di trattamento dei rifiuti comportano, per di più, consumo di suolo e devastazione a tempo indeterminato dei territori, spesso con pericolo di inquinamento delle falde acquifere nonché dell’aria, per non parlare delle emissioni climalteranti. La battaglia contro il business dei rifiuti però conta meno attivisti di altre lotte ambientali: l’argomento non è gradevole, richiede ancora più approfondimenti tecnici e ha per avversari colossi che si procurano il consenso a suon di accordi con sindaci di comuni sul lastrico cui promettono lucrose compensazioni. Così, piccoli comitati locali lottano con coraggio e tenacia talora per decenni, con appoggio discontinuo da parte delle amministrazioni, e senza purtroppo fare molti proseliti, specialmente tra le ultime generazioni, che spesso ignorano quale fosse l’aspetto dei luoghi in cui vivono prima che suscitassero gli appetiti degli imprenditori della monnezza.

Valledora è un pezzetto di Piemonte a cavallo tra le province di Vercelli e Biella. Terra di frutteti fino a qualche decennio fa, sotto il suo suolo fertile conservava i giacimenti di ghiaia e sabbia purissime dell’antico letto del fiume Dora, poi spostatosi più a ovest.
Le prime attività di estrazione di tali materiali furono limitate a qualche cava di piccole dimensioni, ma una quindicina di anni fa arrivarono da queste parti grandi aziende del Milanese, interessate a uno sfruttamento intensivo di quei depositi di materiali per l’edilizia e per grandi opere a due passi da lì, come il rifacimento dell’autostrada Torino Milano, la costruzione della ferrovia ad alta velocità, ecc.
I coltivatori dei comuni di Cavaglià e Alice Castello cedettero volentieri le loro terre, pagate anche quattro volte il prezzo di mercato da chi sapeva che con le quantità esorbitanti di materie estratte avrebbe guadagnato molto di più. Così Valledora diventò un paesaggio extraterrestre, con profondissime voragini larghe centinaia di metri ciascuna.

Poi, più o meno negli stessi anni in cui veniva alla luce la spaventosa realtà delle discariche abusive della Terra dei Fuochi tra le province di Caserta e Napoli, anche le immense buche scavate nella terra piemontese della Valledora diventarono discariche, pur con tutti i crismi di legge e approvate dalle amministrazioni, ma spesso con rifiuti urbani e speciali affiancati, e sovente viziate da gravi irregolarità nella realizzazione.
Per esempio quella chiamata Alice 2, dove i teli che avrebbero dovuto garantire l’impermeabilizzazione del fondo furono posati male, provocando il percolamento dei liquami e l’inquinamento della falda. Un altro soggetto privato si offrì di risolvere il problema, in cambio del permesso di colmare la discarica con ulteriori rifiuti. La discarica è stata riempita, ma non risanata, le perdite continuano, e l’amministrazione locale ha infine dichiarato ufficialmente che è impossibile arrestarle. Si può solo sperare che l’inquinamento da metalli pesanti non raggiunga la falda profonda.

A distanza di una quindicina d’anni, Anna, Alba, Enrica e Mario del Movimento Valledora, che hanno accompagnato alcuni attivisti del neonato gruppo Confluenza a visitare il sito della devastazione, si trovano ancora a dover lottare contro un colosso privato, A2A. Come le altre multiutility già citate, A2A è attiva in settori di cui i cittadini non possono fare a meno: a Brescia gestisce, oltre all’inceneritore, il servizio idrico integrato (in barba al referendum del 2011 a seguito del quale la gestione avrebbe dovuto tornare integralmente in mano pubblica in tutta Italia); a Milano la raccolta dei rifiuti e l’inceneritore Silla 2; in vari Comuni il teleriscaldamento; nel nord Italia offre contratti per gas e luce. A Cavaglià A2A occupa già, con i suoi impianti di trattamento rifiuti, una vasta area nei pressi delle discariche, e ora ha acquistato anche il lotto dello stabilimento dismesso della Zincocelere, dove vorrebbe costruire un inceneritore di rifiuti speciali.
Il Movimento Valledora aveva tirato un respiro di sollievo in occasione della pronuncia dell’ASL di Vercelli, che ha posto il veto sulla costruzione di altre discariche nella zona di sua competenza (mentre nella parte di Valledora biellese l’ASL tace e le discariche continuano a moltiplicarsi), ma ora si trova a dover nuovamente combattere per difendere, dopo la terra e l’acqua, anche l’aria del proprio territorio già tanto piagato. Aria già comunque compromessa dal via vai incessante di camion che in questi anni hanno portato via ghiaia e sabbia e scaricato rifiuti.

Come è emerso dall’intervista al presidente del Circolo Legambiente Biella Daniele Gamba del 15 marzo 2024, Legambiente nazionale appoggia A2A e ha sospeso il circolo locale, che invece si oppone al progetto. Ma ci vuol altro per far demordere Gamba e il Movimento Valledora, formato da persone del tipo che, quando scoprono da che parte si deve stare, le trovi sempre lì. Lo stesso si può dire per Oscar Brunasso e Laura Piana dell’associazione RifiutiZero Piemonte, che studiando le normative europee, nazionali e regionali, offrono supporto ai Comitati che combattono contro impianti concepiti per procurare incassi ai titolari, più che per gestire correttamente i rifiuti.
Come il biodigestore di Govone, che dovrebbe digerire non rifiuti, ma sottoprodotti della Ferrero, acquistati dal titolare dell’impianto. Spesso questi impianti, che si tratti di discariche, inceneritori, biodigestori o altro, sono sovradimensionati rispetto alle esigenze del territorio, in spregio al vincolo di prossimità che dovrebbe valere quantomeno per i rifiuti urbani. Così, per esempio, l’inceneritore del Gerbido, progettato per bruciare 400.000 t l’anno, e già arrivato a 600.000 t, dovrebbe ora dotarsi di una quarta linea. Per bruciare rifiuti che arrivano da lontano, ma non solo…

Quanto forte sia la spinta contraria alla riduzione dei rifiuti e a favore dello smaltimento e dei suoi profitti milionari, aumentati dagli incentivi pubblici (dai CIP6 introdotti nel 1992 ai certificati verdi tuttora vigenti), lo si capisce anche imbattendosi in una virulenta critica alla raccolta differenziata porta a porta da parte di una voce eccellente e influente, vicina al governo attuale, come quella di Luca Beatrice, nuovo presidente della Quadriennale di Roma.
In un articolo apparso il 3 marzo scorso sul Corriere di Torino, Beatrice s’incarica di scagliarsi con virulenza contro l’impegno del porta a porta: mettendone in dubbio il risultato con la diceria popolare per cui “gran parte dei rifiuti finiranno insieme” ed etichettandola come “colossale montatura demagogica”. Beatrice dichiara addirittura di accarezzare l’idea di andare nottetempo a riempire con i propri rifiuti gli ultimi bidoni in giro per la città…
Qualcuno crede davvero che il prof. Beatrice, professore universitario e critico d’arte, la raccolta differenziata la faccia con le sue mani, e che gli cambi qualcosa che diventi porta a porta anziché stradale, nel quadrilatero torinese?
Forse il problema è piuttosto che, anche se a Torino città la raccolta differenziata è ferma a un vergognoso 54%, all’inceneritore non finiscono mai abbastanza rifiuti, e quindi occorre dare un illustre cattivo esempio che si avventura in rami dello scibile a lui evidentemente ignoti, producendosi in incaute affermazioni, senza nemmeno degnarsi di buttare uno sguardo distratto ai bilanci AMIAT, secondo i quali i ricavi da recupero delle raccolte differenziate hanno fruttato €. 16.734.912 nel 2021 e €. 19.971.622 nel 2022 (pag. 81 Bilancio 2022).

Aggiornamento!

Qualche giorno fa il Circolo Biellese Tavo Burat con i Circoli di Legambiente di Vercelli e di Ivrea ha depositato le osservazioni nella procedura di VIA del termovalorizzatore proposto da A2A a Cavaglià.

Solo 15 i giorni a disposizione per chi segue queste problematiche (in ambito di volontariato) per leggere e commentare una enorme mole di documenti redatti da decine di professionisti ed accademici assoldati all’uopo da A2A, con 180 giorni a disposizione.

Questo, purtroppo, è uno dei nefasti effetti della riduzione dei termini nelle procedure: stessi tempi indifferentemente la complessità progettuale, sia che si tratti di un impianto energetico da rifiuti da pochi MWh/anno o impianti di taglia maggiore, da centinaia di GWh anno. In tal modo sono limitate le possibilità di fare rilievi da parte del pubblico e ridotta la capacità di esame delle amministrazioni competenti.

Per chi vuole approfondire le osservazioni sono disponibili qui.
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alexik

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