Ogni volta che torna aprile
di Giulio Stocchi (*)
Nel ricordo di Claudio Varalli, Tonino Miccichè, Giannino Zibecchi, Rodolfo Boschi: ora e sempre Resistenza
Ogni volta che torna aprile, e Milano si mette al bello, col vento che pare stringerla in vita per portarsela via, è sempre la stessa rabbia di quei giorni che mi prende alla gola.
Entravano in piazza. Gli striscioni ormai li avevano arrotolati. Per tutto il pomeriggio, davanti al Comune, avevano gridato che la casa è un diritto. Ma adesso non sapevano nulla che non fosse il vento, l’aria tersa del tramonto, e quel profumo che stordiva. Poi i colpi. Uno, due, brevi, secchi. Per Claudio Varalli, la primavera finiva così, a sedici anni. Col viso solo un po’ stupito. I fascisti erano già scappati. Verso la Questura.
Il giorno dopo c’eravamo tutti. Scendevamo per corso di Porta Vittoria, in un silenzio strano. Di tanto in tanto, una voce: “Almirante”, e il corteo dietro, per quanto era lungo, “Assassino”, rispondeva. Sapevamo dove andare. Per anni, da via Mancini, dov’è la sede dell’Msi, erano usciti con catene, con coltelli, con pistole. Sapevamo anche che non ci avrebbero fatto arrivare fin là. Ma eravamo in tanti. E la fotografia di quel ragazzo sull’asfalto era negli occhi di tutti. Di cordone in cordone, poi, rimbalzava una notizia. Si diceva che ne avessero ammazzato un altro, a Torino. Uno di Lotta continua. Tonino Micciché.
E così continuavamo ad andare. Molti col fazzoletto sul viso. Altri coi tascapane gonfi di sassi. Ma tutti con quella decisione dura che sentivi anche da come ti si stringeva al braccio il compagno accanto. Non si vedeva un poliziotto.
Poi, d’improvviso, dove il corso si slarga in una piazza, quando già eravamo entrati per metà, e gli altri premevano dietro, le sirene, e una gran nuvola di fumo. C’è appena il tempo di chiedersi che cosa stia succedendo, che da tutto quel disastro, come impazziti, sbucano i camion dei carabinieri. Salgono sul marciapiede. Puntano diritto sulla gente.
I sassi, ormai, non servivano più.
Dopo un lungo giro per evitare i posti di blocco, salgo su un autobus. In un angolo, e questo non lo dimentico più, c’era un compagno, appoggiato al finestrino. E’ Tumminelli. E’ grande e grosso, Tumminelli. E così, davanti a tutti, piange. Mi dice di Giannino, di come l’abbiano massacrato le ruote, che lui era là, che non gli si riconosceva nemmeno più la faccia, e pensa che solo ieri al baretto scherzavamo insieme, e tutti gli volevano bene, non era giusto morire così, perché era tanto buono, Giannino, sì, Giannino Zibecchi.
La zona era ancora piena di fumo. A terra, una maglietta. Insanguinata. I compagni arrivavano ad uno ad uno, fin contro quel quadrato di scudi, di elmi, di fucili. Buttavano un fiore. In silenzio, come una promessa cupa. E se ne andavano. Intorno, i carabinieri si indicavano il luogo dello scempio. Ridevano.
C’eravamo divisi in due gruppi. Uno a far presidio sull’angolo di Giannino, in XXII marzo, e noi sotto i portici di piazza Cavour, vicino a Claudio. La sera prima, tornando a casa, la radio aveva aggiunto un altro nome all’elenco. Rodolfo Boschi, a Firenze. Davamo via dei volantini. Oh certo, la gente li prendeva. Un’occhiata distratta, e andava al cinema. Come se non fosse successo niente.
Passa Toscano (uno dei leader del Movimento studentesco milanese), con quella sua aria leggermente ironica e la giacca di sempre buttata sulle spalle, e mi fa: «Come va il poema, Giulio?». Ecco, penso che questa sia stata la molla. Quelle parole. O meglio, per come stridevano, quelle parole, con tutto ciò che mi stava intorno: i visi stravolti di stanchezza, le voci arrochite, le mani che avrebbero voluto strappare in pezzi anche la notte, e quei volantini, quei volantini che non riuscivano neppure a sfiorare le labbra dell’indifferenza.
Il poema… Già, mi conoscevano come il poeta, i compagni. Me lo dicevano così, tra lo scherzo e l’affetto. Ognuno era al corrente del mio piccolo segreto. Del mio vizio. Il poema… E rivedevo la mia stanza, tutte quelle notti dalla gola bruciata dal fumo, il ticchettio della macchina da scrivere, la felicità del mattino dopo, le pagine che negli anni avevano fatto mucchio. E solo Carole, la mia compagna d’allora, e pochi amici, qualche volta, seduti in cerchio ad ascoltarlo, il poema.
Perché avevo paura di mettermi in gioco, di espormi forse a un rifiuto, di andare dai compagni e dire: «Ecco, io sono qui, questa è la mia vita, il mio modo di lottare e di esservi accanto. Giudicateli voi». E invece no: tenevo tutto per me. Era il mio rifugio il poema. La tana che m’ero scavato, l’orgoglio di sentirmi diverso. Io, il poeta.
E mentre tutto questo, in un lampo, m’attraversava la mente, «Bene – rispondo – Va bene il poema». E poi, senza pensarci: «Una volta o l’altra ci si vede, così ne parliamo».
Il giorno dei funerali di Giannino, i Navigli brulicavano di gente, di bandiere, di striscioni. E tanti fiori. Li portavano, davanti a tutti, delle compagne. Giovanissime. Un canto sommesso rompeva appena lo scalpiccio dei passi. Era una giornata meravigliosa. Troppo, per dirsi addio. E ognuno quel contrasto l’avvertiva con un dolore sordo che cresceva dentro e saliva fino alle labbra. In un grido. Era come un’onda. Percorreva tutta quella fiumana, si spezzava d’improvviso, lo risentivi lontano, quasi venisse da un altro mondo, tornava ingrossandosi, t’afferrava di nuovo, ed eri lì a ripeterlo con tutta la vita che urlava, «Ora e sempre resistenza».
Voleva dire tante cose quel grido. Era un ponte gettato alla città. «Guardateci – voleva dire – guardateci bene in faccia. Vedete? Siamo noi, gli estremisti. No, non voltate la testa – voleva dire – guardatele quelle ragazzine dei fiori, quei visi chiari, guardate cosa c’è dentro quegli occhi. Eccoli, i teppisti, i provocatori, i delinquenti». «Ma non capite – voleva dire – non capite che non c’è niente da far luce? Che questi morti sono una catena che viene giù da Piazza Fontana? E da prima, da Avola, da Battipaglia? E da prima ancora, da Melissa, da Portella della Ginestra? E che tutto questo ha un nome?». «Scuotetevi dal torpore» voleva dire. Ma anche, voleva dire, che stessero bene in guardia quelli dei palazzi, delle croci, del saccheggio, e i loro sicari d’ogni specie, perché non sarebbero riusciti ad ammazzarci tutti; e che noi, i teppisti, i provocatori, i delinquenti, contro tutta quella morte avremmo sempre fatto muro.
Questo voleva dire. E la bara navigava per la sua città, sollevata fino al cielo da quella disperazione di pugni chiusi. Scendeva di strada in strada verso il Duomo, si fermava per un attimo ai crocicchi, riprendeva ondeggiando sui viali, attraversava i quartieri dei panni di ringhiera e quelli eleganti degli uffici. Milano le parlava, come parla una città. Si chinava a carezzarla coi rami dei tigli, si scuoteva dalle pietre dei selciati, abbassava gli occhi di pietà con le serrande dei negozi. Prometteva di non dimenticare. Poi tratteneva il respiro. E si tornava a udire solo il fruscio del vento, lo scalpiccio dei passi. E quel grido.
Ma non era solo il corpo straziato di Giannino che vedevo passare per le strade. In quei ragazzi che camminavano perdutamente stretti, nei loro occhi segnati d’ombra, e nella sfida tuttavia variopinta dei vestiti, era come se mi sfilassero davanti i sogni, la fantasia, l’amore, le speranze di quegli anni. Erano le sere attorno a una chitarra, le discussioni febbrili, le assemblee piene di fumo, le vigilie di manifestazione, i letti felici, la scommessa dei corpi abbracciati, le cene messe su con niente, lo scavo ansioso del futuro, la voglia di capire, il bisogno di trovare finalmente un confine al grigio, la ricchezza nuda delle nostre mani. Tutto questo vedevo passare in corteo. Ed era tutto ciò di cui s’era nutrita la mia poesia in quegli anni.
Allora capivo perché la domanda di Toscano m’avesse tanto colpito, lasciandomi con un turbine di pensieri e risvegliando un’eco strana, un bisogno nuovo di dire. «Come va il poema, Giulio?», sussurrato nel clima spettrale di piazza Cavour, e così apparentemente fuori luogo, significava solo quello che stavo vedendo in quel momento, mi indicava semplicemente dov’era e in che direzione dovesse andare la mia poesia. Era come quando uno squarcio di luce ti mostra due cose che sono sempre state vicine: tu in fondo lo sapevi, eppure ci voleva quel lampo per riconoscerle.
Anche quel grido tornava a parlare, e questa volta solo a me. Sfilava il corteo, e mi diceva che bastava un passo per immergermi m quella corrente, per unire la mia alla voce di tutti. Mi diceva di quanto misere, di quanto piccole fossero le mie paure, e smisurato il loro abisso d’orgoglio. Perché ciò che credevo fosse solo mio, e prendesse forma nel chiuso della mia stanza, nel cerchio dei miei sogni, nella solitudine più segreta dei bicchieri, in realtà nasceva ed era nato lì. E lì doveva tornare: nelle strade, accanto ai compagni, durante la lotta, perché ogni parola, nell’infinita varietà dei volti, dei gesti, dei sogni, delle speranze di quegli uomini, ritrovasse le sue radici e la sua ragione, la pienezza riconquistata del proprio destino.
E così, mentre il corteo continuava ad andare, e le vecchine si segnavano, io buttavo su un foglio le parole rabbiose che dalla notte del presidio mi battevano alle tempie.
La sera dopo, all’Università, nell’aula magna che ancora risuonava della rivolta dissonante delle note di Liguori, salivo sul palco a urlare quelle parole.
Era il 21 aprile 1975. Avevo cominciato.
(*) Da «Compagno poeta» (Einaudi, 1980)