Oh, Sole mio…

Un articolo – anzi un breve saggio – di Vittorio Catani vagabondando fra scienza e fantascienza (*)

1. Stella della vita

Il Sole è la stella della vita, ma sappiamo bene che una medaglia ha sempre due facce. L’evidenza inoppugnabile che tutto quanto ci circonda, e ogni aspetto delle attività vitali terrestri siano fortemente influenzati dalla presenza del Sole, suggerisce che variazioni sia pur minime nel plurimillenario equilibrio dell’astro sconvolgerebbero la biosfera, se non l’intero volto del nostro pianeta.

D’altro canto, non sempre il Sole è stato come si mostra a noi oggi. Il disco che ci illumina e riscalda è il risultato evolutivo di una stella (“nana gialla”, tipo spettrale G2V) che ha circa 5 miliardi di anni. Quattro miliardi di anni fa, quando la vita cominciò a formarsi nei mari, il Sole aveva uno splendore inferiore del 30%, e l’atmosfera era ricchissima di anidride carbonica. E appena poche ere fa la situazione sulla Terra, benché “migliorata”, era ancora diversa: un uomo dei nostri giorni che si trasferisse agli inizi del Paleozoico (Cambriano, 570 milioni di anni fa) non sopravviverebbe senza tuta anti-radiazioni e bombole. L’aumento percentuale e progressivo di ossigeno fu un portato delle forme vitali e si ritiene che la moderna atmosfera si formasse non prima del Devoniano, 200 milioni di anni più tardi.

Il nostro pianeta e le sue forme viventi costituiscono oggi una particolare “macchina termica” che assorbe energia solare, la trasforma in varie modalità, ne espelle gli scarti. Eppure in alcuni periodi la percentuale di energia in assorbimento è mutata, e potrebbe mutare ancora: per piccole variazioni periodiche dell’emissione solare; o per il meccanismo della precessione degli equinozi, che espone in modo diverso zone del pianeta all’astro; per variazioni dell’eccentricità dell’orbita terrestre, e così via. Queste cause astronomiche possono provocare – e hanno provocato – grandi cambiamenti nella temperatura terrestre (i periodi glaciali e interglaciali) o variazioni minori, come quelle legate ai cicli undecennali delle macchie solari. Siamo, a ogni modo, nell’ambito di sconvolgimenti “fisiologici” benché talora drammatici, appartenenti cioè alla tormentata storia del mondo. Diverso sarebbe il caso di improvvise e impreviste modificazioni che cogliessero di sorpresa gli studiosi: il fenomeno sarebbe da considerarsi normale o anomalo? Non abbiamo esperienze in merito e alcuni eventi del passato ci lasciano perplessi. Per esempio, negli ultimi millenni il diametro del Sole si è mantenuto costante? La risposta dovrebbe essere positiva, eppure alcuni dati insinuano dubbi; secondo testimonianze storiche l’eclissi del 9 aprile 1567, che in base ai nostri calcoli doveva essere totale, fu invece anulare: il che confermerebbe che in passato il diametro solare possa essere stato maggiore di quello attuale (mistero francamente inquietante…). E d’altro canto se il Sole è stato diverso nei millenni trascorsi non ha alcuna logica pretendere che esso rimanga com’è ora e non continui a percorrere un ciclo vitale che lo vedrà (fra almeno altri 5 miliardi di anni) trasformarsi in “nova” o, secondo più accreditate previsioni, in “gigante rossa” e poi “nana bianca” (in ogni caso cancellando ogni forma di vita sulla Terra).

Alcuni ricercatori della Nasa hanno analizzato una lunga serie di dati rilevati a mezzo satelliti dal 1978 a oggi, scoprendo che negli ultimi 25 anni il ciclo solare undecennale non è stato costante. Sembra coesistere, con esso, un andamento di crescita dell’attività pari a uno 0,05% per decennio; il che equivale a un incremento di energia di 0,68 watt a metro quadro per decade. Se così fosse, se ne dedurrebbe che nell’ultimo venticinquennio l’irradiazione solare avrebbe contribuito per ben il 60% al surplus energetico; laddove l’apporto all’effetto serra da attività umane si ridurrebbe a meno del 40%. Attendiamo di saperne di più (è anche questo un fenomeno “normale”? Sono da escludere errori? Sappiamo bene che le origini dell’effetto serra restano tuttora argomento molto sensibile, in quanto collegato a interessi industriali di dimensioni planetarie…). Va inoltre notato che alcuni cambiamenti climatici registrati nell’ultimo millennio sembrano provocati, almeno in buona parte, da piccole oscillazioni della sua luminosità.

Sta di fatto che, a parte eventuali temporanee irregolarità, per sua natura il Sole continuerà a diventare sempre più luminoso e “forte”: un aumento peraltro talmente lento e graduale che non costituirà, di per sé, alcun pericolo per centinaia di milioni di anni. D’altronde – almeno finora – ogni oscillazione è sempre stata tranquillamente assorbita da una biosfera che continua ormai a evolversi stabilmente da 4 miliardi di anni.

E per quanto riguarda noialtri appassionati di fantascienza? Ebbene, noi possiamo affermare qualcosa che sorprenderà molti: le presunte variazioni anomale della costante solare (l’energia dell’astro incidente sulla Terra) non ci colgono affatto di sorpresa. Verrebbe anzi da dire: ci fanno un baffo! Vero è che il caldo di questa estate 2003 sta regalando momenti da collasso, ma noi “fantascientisti” ci limitiamo a reagire razionalmente, per esempio installando al muro uno split (inquinamento consequenziale a parte) o azionando una ventola. Il fatto è che noi – della sf – siamo vaccinati alle catastrofi: soprattutto quelle solari! Ne abbiamo vissute, nelle pagine di romanzi e racconti, davvero tante. E intendiamo ora prospettarne alcune fra le più interessanti, spettacolari, insomma “divertenti” (prima di tuffarci nella forn… ehm, lettura si consiglia, ovviamente, di indossare una tuta a prova di radiazioni e di altissime temperature).

2. Se il Sole fa i capricci

Entriamo subito nel “vivo” (si fa per dire) con un celebre racconto di Arthur C. Clarke, «Spedizione di soccorso» del 1946. Si tratta di una delle storie più caratteristiche dello scrittore inglese e in cui egli più felicemente riesce a creare un suo intenso sense of wonder misto a inquietudine.

Clarke racconta del nostro Sole che si trasforma in “nova”. In realtà, una simile evenienza viene ritenuta remota dagli studiosi, ma non impossibile; nulla – in ogni caso – ci dà la certezza che l’evento non possa verificarsi domani stesso, per un semplice fatto: non sono noti tutti i meccanismi alla base del fenomeno.

Il termine nova (cioè «[stella] nuova») ci viene dal latino: anticamente questi astri, apparendo improvvisamente in cielo con grande luminosità, davano l’impressione di essere appena nati. Si trattava di stelle preesistenti, magari di scarsa o nulla visibilità, che di colpo acquisivano preminenza a seguito di un processo esplosivo. Accade, per motivi non ben chiariti, che una stella accumuli un’energia la quale oltre un certo limite supererà una soglia di guardia: a questo punto avverrà un’espulsione violenta di gas. Sarà come se la stella si gonfiasse, moltiplicando le sue dimensioni fino a 300 volte e la luminosità fino a circa 85 mila volte. Eppure il suo nucleo rimarrà invariato. Esauritosi il fenomeno espulsivo, la stella tornerà in decine (o centinaia) di anni a essere quella di prima: come nulla fosse accaduto, salvo aver calcificato eventuali pianeti e vite nelle adiacenze.

Vi sono anche novae (o «nove», se preferite l’italiano) ricorrenti, che cioè periodicamente hanno bisogno di emettere un surplus energetico. Esistono inoltre le supernovae, effetto di un collasso esplosivo molto più turbolento, con temperature di miliardi di gradi e una luminosità che supera qualsiasi altro oggetto di natura stellare; di esse rimane tuttavia un nucleo solido supercompresso, che condurrà a una trasformazione radicale (per esempio in stella di neutroni). Le supernovae sono insomma un fenomeno del tutto differente dalle novae.

Torniamo al racconto di Clarke…

Il nostro Sole sta per tramutarsi in nova, la sua luminosità e la temperatura esterna sono salite: se ne accorgono alcuni evolutissimi alieni, di conformazione vagamente polipoide, in missione esplorativa nella nostra zona di Galassia. Secondo le valutazioni di costoro il fenomeno è allo stadio pre-finale: mancano non più di sette ore all’esplosione che proietterà per migliaia di km nello spazio letali gas incandescenti, inglobando anche il terzo pianeta. Ci sarebbe forse il tempo, per l’astronave aliena, di raggiungere quel mondo (che essi sanno abitato) e nella più ottimistica delle ipotesi imbarcare qualche esponente della specie intelligente locale e poi fuggire al più presto. Come risultato sarebbe minimo: ma meglio di nulla. Gli alieni fanno quindi rotta a massima velocità verso il Sole.

«Sul mondo conosciuto un tempo dai suoi abitanti come Terra, gli incendi si stavano estinguendo: non era rimasto nulla da bruciare. Le grandi foreste che avevano dilagato sul pianeta come maree, dopo la scomparsa delle città, non erano più che braci ardenti, e il fumo delle loro pire funebri ancora macchiava il cielo. Ma le ultime ore non erano queste, perché le rocce di superficie non avevano ancora incominciato a fondere e a scorrere fluide. I continenti erano appena visibili attraverso la bruma (…)

Arriviamo troppo tardi – disse Rugon, capo delle comunicazioni e vicecomandante, – ho controllato l’intero spettro, e l’etere è muto. Qui non c’è più nulla che emani onde.

Rugon ora, tramite un particolare schermo, dirige l’attenzione verso il Sole.

Nessun abitante della Terra avrebbe riconosciuto la forma mostruosa che invadeva lo schermo. La luce solare non era più bianca: grandi nuvole di un blu violaceo ne coprivano metà della superficie, e da queste eruttavano nello spazio immense lingue di fuoco. Un’enorme prominenza si drizzò fuori della fotosfera, sorpassando anche i veli ondeggianti della corona solare. Era come se un albero incandescente si fosse radicato sulla superficie dell’astro: un albero che si ergeva per mezzo milione di miglia, con rami che erano fiumi di fuoco riversati nel vuoto a centinaia di miglia al secondo. Sotto di loro, il pianeta devastato era immerso in una luce vacillante e irreale; una spettacolosa aurora impazziva lungo un emisfero».

Gli alieni decidono comunque di atterrare per accertarsi che non vi siano tracce residue di vita. Nei pressi di un mare scoprono una città calcificata.

«L’acqua stava bollendo e nuvole di vapore si innalzavano al cielo; ma questo sconvolgimento non offuscava la bellezza della grande città tutta bianca che dominava quel mare senza più marea. Macchine volanti erano ancora parcheggiate intorno allo spiazzo dove Torkalee atterrò: sebbene elegantemente rifinite, avevano un aspetto primitivo e per sostenersi nell’aria dipendevano da pale rotanti. Intorno non c’era segno di vita, eppure l’insieme dava l’idea che gli abitanti non fossero molto lontani. Attraverso le finestre brillava ancora qualche luce».

Il mistero nel mistero è questo: non c’è traccia di terrestri e non si capisce dove possano essersi nascosti tutti quanti. Forse nel sottosuolo, in un patetico tentativo di sfuggire alla catastrofe? Gli alieni decidono di sfruttare al massimo il loro esiguo tempo ancora disponibile, per una veloce esplorazione del complesso e vastissimo sistema di caverne e gallerie sotterranee, mentre la loro astronave, sospesa nel lato notturno della Terra, resta pronta per raccoglierli “al volo” appena il Sole dovesse scoppiare.

« – Non preoccupatevi – disse Alveron dall’astronave – noi siamo perfettamente al sicuro. Quando il Sole esploderà, l’onda in espansione impiegherà qualche minuto a raggiungere il massimo. Noi ci troviamo sul lato notturno del pianeta, quindi dietro una corazza di roccia spessa 8000 miglia. Alla prima avvisaglia dell’esplosione accelereremo per uscire dal Sistema solare, tenendoci nell’ombra del pianeta… Raggiungeremo la velocità della luce prima di lasciare il cono d’ombra, e il Sole non ci nuocerà».

Ma anche il sottosuolo si rivela deserto. Il tempo-limite sta per scadere…

«Le acque si riversavano in un flusso scintillante verso la lontana catena di monti. Il mare, su quel lato oscuro, pareva aver conquistato una sua vittoria definitiva; ma da lì a poco oceano e montagne, tutto avrebbe cessato di esistere. E mentre la comitiva silenziosa, nella cabina di comando, osservava la distruzione in atto laggiù, ora una catastrofe immensa e definitiva già avanzava veloce verso di loro.

Fu come se improvvisamente fosse sorta l’aurora su questo paesaggio di luce lunare. Ma non era l’aurora, era soltanto la Luna che aveva preso a splendere come un secondo Sole. Per una trentina di secondi la luce incredibile, innaturale, bruciò feroce sulla Terra condannata. Per un attimo Alveron scrutò i quadranti controllandone i dati; quando si volse verso lo schermo, la Terra era sparita alle loro spalle.

Alveron si ritrovò a fantasticare sul mondo appena scomparso (…)».

Gli alieni dunque, a rischio della loro stessa vita, hanno fatto appena in tempo a fuggire evitando l’onda d’urto della nova solare in espansione. Resta il rebus dei terrestri svaniti. Un mistero che Clarke, con colpo da maestro, risolve nelle ultime pagine regalandoci una storia che è anche una sorta di monumento (magari un po’ retorico, un po’ fumettistico, ma a suo modo geniale) alla creatività, alla vitalità e alla testardaggine del genere umano!

Del tutto differente e solo in apparenza più placido è lo scenario da “fine delle ere” descritto dal Viaggiatore, protagonista del romanzo «La macchina del tempo» (1895) di Herbert G. Wells. Anche in queste pagine si rappresenta una catastrofe planetaria: i toni non sono apocalittici, ma di lentezza (anzi, indifferenza), solitudine; non c’è una “desertificazione” in senso letterale, traspare comunque un paesaggio brullo in cui dominano aridità, definitivo senso di perdita, di lenta morte.

Prima di rientrare definitivamente nel suo tempo, infatti, Il Viaggiatore decide di spostarsi a curiosare nel più lontano futuro. Approderà in un’epoca a circa 30 milioni di anni da noi:

«Mi fermai con molta delicatezza e, seduto sulla Macchina del tempo, guardai attorno. Il cielo non era più azzurro, anzi verso nord-est era nero come l’inchiostro; in alto si tingeva di un rosso cupo senza ombra di stelle, mentre a sud-est il colore si mutava in un lucente scarlatto dove, sulla linea dell’orizzonte, spiccava immobile la grande sfera del Sole. Anche gli scogli intorno erano rossicci, e l’unica traccia di vita che scorsi era il verde intenso della vegetazione che copriva queste rocce sul lato a sud-est. (…) Vidi, molto vicino a me, la cosa che avevo scambiato per un gruppo di scogli rossi: un essere grande e mostruoso simile a un granchio. Le sue numerose zampe si muovevano lente e incerte, agitando grossi artigli; aveva antenne lunghe come fruste di cavalli e due occhi sporgenti che mi guardavano dall’uno e dall’altro lato della fronte metallica».

Il Viaggiatore scopre che un’orda di quelle creature lo hanno individuato e si dirigono verso di lui. Azionando un comando della Macchina, in un attimo egli si sposta in avanti di un mese:

«Non è possibile descrivere il senso di odiosa desolazione che ora incombeva. Il cielo rosso a oriente e nerissimo a nord, quel mare che era veramente morto, la spiaggia pietrosa piena di mostri striscianti, il verde uniforme e deprimente dei licheni, l’aria sottile che mi faceva dolere i polmoni: tutto contribuiva a rendere il luogo terrificante».

Affascinato da quella desolazione, il Viaggiatore si spinge sempre più lontano nel futuro, per altri milioni di anni. Quando infine si arresta, scopre che sulla spiaggia grava un cielo più rosso e cupo; sono definitivamente scomparsi anche i granchi giganti; resta il “verde livido” dei licheni, a testimonianza che la vita non è ancora svanita del tutto.

«L’oscurità cresceva rapidamente, raffiche di vento soffiavano da levante e adesso fiocchi di neve volteggiavano fitti. Il mondo era immerso nel silenzio (…) Fui preso da un senso d’orrore. Qualcosa, tuttavia, si spostava sul banco di sabbia: era un corpo rotondo, simile a un pallone da football da cui uscivano dei tentacoli. Si muoveva saltellando, a balzi irregolari. Mi accorsi che stavo per venir meno, ma il terrore di giacere inanimato in quel remoto spaventoso crepuscolo, mi sostenne mentre mi arrampicavo sul sedile della Macchina».

Sorprende scoprire in Wells pagine dal sapore quasi pre-lovecraftiano; a ogni modo forte è il sense of wonder di questi scenari, in cui si immagina che il nostro Sole faccia una fine diversa, praticamente “per consunzione”, in accordo con teorie in voga all’epoca.

3. Visioni pericolose

Molte storie di James G. Ballard hanno al loro centro il Sole; ciò accade anche quando esso non è il principale motore del raccontare. Per esempio, il romanzo «Deserto d’acqua» (The Drowned World) narra sostanzialmente di una inondazione planetaria; eppure l’astro ha una evidenza fondamentale per vari personaggi. Se il mare ha sommerso buona parte delle terre, non vengono fornite analitiche giustificazioni del contesto; il disastro non è – come nella fantascienza consueta – scenario esotico per gesta avventurose o drammatiche, né tanto meno spunto per ammonizioni sui rischi del dissesto ambientale. L’inondazione globale diviene un pretesto, meglio un’allegoria, una amplificazione del nostro paesaggio psichico già compromesso. Si prenda l’incipit dell’opera.

«Fra breve, il caldo sarebbe diventato insopportabile. Affacciato al balcone dell’albergo poco dopo le otto, Kerans guardò il Sole levarsi per i densi cespugli delle gimnosperme giganti che crescevano sui tetti dei grandi magazzini abbandonati, quattrocento metri più in là. Il calore dell’astro era implacabile. Il suo disco non aveva più un contorno definito; era divenuto un’ampia ellissi che si allargava sopra l’orizzonte simile a un’enorme sfera infuocata, trasformando la superficie senza vita della laguna in una lastra di rame scintillante. A mezzogiorno, l’acqua avrebbe assunto l’aspetto di un fuoco liquido».

Il panorama da epoca giurassica è in sintonia con la regressione psichica dei personaggi: dopo estenuanti avventure, costoro – Kerans in primis – si intestardiranno a dirigersi verso Sud, luogo idealizzato d’una problematica salvazione. Ed è questa la conclusione del cerchio, e del romanzo.

«Semiaddormentato, Kerans ripensò agli avvenimenti degli anni trascorsi, che erano culminati con il loro arrivo alle lagune centrali e lo avevano lanciato verso la sua odissea neuronica; pensò a Strangman e ai suoi pazzi alligatori e, con una profonda trafittura, a Beatrice e al suo sorriso. Infine, con la canna della 45 senza munizioni incise un messaggio sul muro sotto la finestra, sicuro che nessuno l’avrebbe mai letto: “Ventisettesimo giorno. Mi sono riposato e vado a Sud. Tutto bene. Kerans”. Così se ne andò dalla laguna e rientrò nella giungla. Dopo pochi giorni si era completamente perduto seguendo le lagune verso Sud, in mezzo alla pioggia e al calore crescenti, attaccato da alligatori e pipistrelli, un secondo Adamo in cerca del paradiso dimenticato del nuovo Sole».

«Deserto d’acqua» è del 1962; due anni prima era uscito il suo racconto «Le voci del tempo». Ancora una volta il Sole occupava una posizione cruciale nello “zodiaco” ballardiano: una mutazione nell’irradiazione dell’astro ha come conseguenza un improvviso calo demografico tra gli umani. Subentrano assurde trasformazioni degli animali: armadilli con corazze di piombo, piante di cactus piene di oro, ragni giganti tessono reti che sono sistemi nervosi esterni. Contemporaneamente, da una costellazione comincia a pervenire un radiosegnale che sembra la scansione implacabile di un conto alla rovescia, e ogni numero del countdown è composto da circa cinquanta milioni di cifre. È il tempo che ci separa dalla fine dell’universo? Si diffonde una nuova malattia che induce il sonno e rallenta la percezione temporale. In tale contesto deviato, il Sole finirà con l’acquisire i significati del mandala nel disegno che il protagonista traccia sul fondo di una piscina prosciugata; un mandala che ha agganci con vita e morte.

«Entrando nel cerchio interno, si rese conto che il tumulto stava diminuendo e che emergeva una singola voce, più forte delle altre. Alzò gli occhi al cielo oscurato muovendosi attraverso le costellazioni, udendo sottili voci arcaiche giungere fino a lui attraverso i millenni. Come un fiume incessante, le cui sponde erano più larghe dell’orizzonte, gli fluiva incontro un vasto corso di tempo che riempiva il cielo e l’universo. Powers ne percepì la potente attrazione magnetica; intorno a lui i contorni delle colline e del lago si erano fatti indistinti ma l’immagine del mandala, come un orologio cosmico, rimase fissa nei suoi occhi e sentì che il suo corpo si dissolveva gradatamente (…)».

Ma ovviamente l’opera di Ballard che più propriamente rientra nel nostro tema è il romanzo «Terra bruciata» (1965); e se abbiamo citato «Le voci del tempo», e soprattutto «Deserto d’acqua», è proprio per contrasto con il “racconto principe” della desertificazione ballardiana. Il tema è facilmente immaginabile: una grave siccità colpisce l’intero pianeta provocando l’evaporazione di fiumi, laghi, ghiacciai, e la progressiva ritirata degli oceani. Una apocalisse tipica del nostro scrittore, che gli porge l’estro per manovrare alla grande le psicologie contorte dei suoi personaggi.

«Mentre le vaste distese d’acqua si riducevano prima in basse lagune e poi in un labirinto di stretti canali, le umide dune del letto del lago sembravano emergere da un’altra dimensione. Quella mattina, svegliandosi, Ransom aveva trovato la sua casa galleggiante arenata in un piccolo avvallamento. I pendii di fango, coperti di carogne di uccelli e pesci, lo circondavano come spiagge d’un sogno. Fuochi di rifiuti ardevano senza fiamma nei giardini lungo la riva; sulla strada, niente e nessuno».

Pretesto per lo sviluppo della trama è l’allucinante odissea di un uomo e di un gruppo di persone che decidono di avviare una folle traversata, per giungere alla mitica riva di un mare. E sarà un viaggio «in un mondo radicalmente mutato, dove tutto può accadere e la realtà assume l’aspetto di un fantastico viaggio nel tempo».

«Sotto il vuoto cielo invernale le dune si estendevano per chilometri. Raramente alte più di mezzo metro, scintillavano umide nell’aria fredda salmastra increspata dal vento di terra. A volte, quasi un remoto assaggio della primavera imminente, le loro creste si venavano di striature bianche mentre alcuni cristalli evaporavano sotto il Sole. A est e a ovest le dune bianche continuavano fino all’orizzonte; a sud declinavano in distese piatte e salate. In nessun punto c’era un margine definito tra la riva e il mare; anche dopo un’ora di cammino, affondando fino al ginocchio nella melma semiliquida, il mare rimaneva sempre ugualmente lontano, eternamente presente eppure nascosto dietro l’orizzonte. E malgrado il continuo andirivieni non rimaneva traccia dei loro passi poiché in pochi istanti le orme venivano assorbite da un umidore invisibile e diffuso».

Come giustamente scriveva Lippi nella sua introduzione (del 1986).

«“Terra bruciata” parla di siccità in modo originale: invece di ricorrere a immagini di deserto e di arsura – che pure ci sono, ma come fatto derivato – Ballard popola le sue pagine del fantasma dell’acqua (…) E acquea è tutta l’atmosfera del romanzo, nel senso che l’umanità deve fare i conti con la mancanza e il ricordo dell’elemento-linfa, o con la sua degradazione (…) Con la perdita, e soprattutto con la trasformazione dell’acqua, prende avvio una trasformazione fondamentale del mondo».

Rilette oggi queste parole acquistano un’aura di presagio sinistro, richiamandoci alla mente l’enorme, emergente problema delle risorse idriche mondiali; al punto che si moltiplicano da ogni parte interventi sul tema di illustri studiosi e ambientalisti. Fra costoro ricordiamo almeno l’economista e fisica indiana Vandana Shiva (premio Nobel per la pace 1993), e il suo libro di denuncia «Le guerre dell’acqua» (2002).

4. Sole, climi, ambienti, xeno-ecologie

Ovviamente una irradiazione anomala può non dipendere affatto dal Sole in sé. Basti pensare all’allargamento del buco dell’ozono o allo stravolgimento di altri fattori ambientali. D’altronde stiamo assistendo a una trasformazione di condizioni climatiche alle quali eravamo assuefatti da decenni, se non da secoli. Ci abituiamo quindi all’idea delle nuove caratteristiche “monsoniche” della zona temperata, al riscaldamento dell’Adriatico che genera un’invasione dal Mar Rosso di specie marine aggressive; e così via. Ebbene: la fantascienza ha, fin dal suo nascere, guardato con occhio particolare ai problemi dell’ambiente; d’altronde è evidente che, per l’autore di sf, scrivere di un lontano pianeta o rappresentare il futuro da qui a 50 o 100 anni significa anche, se non anzitutto, definire un ambito verosimile di relazioni fisico-socio-ambientali che saranno il teatro degli eventi.

Per questi motivi, elementi (espressi o sottintesi) di scienze ambientali sono presenti a ben guardare in ogni opera di fantascienza. Gli esempi potrebbero essere centinaia, anzi migliaia. Citerò, per tutti, «Atmosfera mortale» di Bruce Sterling (1994). Una comunità di scienziati, dotata di strumenti all’avanguardia, deve vedersela con il micidiale F-6; si tratta di un ciclone “mitico”, fino a quel momento teorizzato dai meteorologi, ma che infine si materializza. Ovviamente i problemi di cui si occupa Sterling nella sua fantascienza sono sempre “a tutto campo”; a dimostrazione, citerò un breve estratto dalla prefazione di Daniele Brolli al romanzo.

«Il soggetto di quest’opera è sicuramente l’ecologia, ma non in una centralità ovvia che lo renderebbe non dissimile da tanta letteratura new age, bensì trattata secondo una messinscena quasi brechtiana di personaggi a confronto con un nuovo mito di fine del mondo, quello di un tornado immane e devastante più di un’esplosione atomica, conseguenza del disastro ecologico globale».

En passant, mi si consenta qui di spendere qualche parola a favore del trimestrale di ecologia «Villaggio Globale», diretto da Ignazio Lippolis, e al quale collaboro da vari anni. La rivista dedica, monograficamente, ogni fascicolo (ne sono usciti finora 24) a un determinato tema dell’ambiente. I miei interventi si esplicano ogni volta in un breve racconto sul tema specifico (sono stati trattati, per esempio: atmosfera, risorse idriche, fonti di calore, luce, stagioni, fonti di calore, luce, eros-thanatos, irradiazione solare, gli organi di senso, la biodiversità, e così via). Tutti i numeri sono presenti anche in rete, al sito www.vglobale.it.

È chiaro pertanto che esistono opere di fantascienza imperniate sui più disparati aspetti del rapporto vita-ambiente; come pure, esistono narrazioni che trasferiscono gli stessi problemi su altri pianeti (e poche scienze, o pseudo-tali, possono rivelarsi più stimolanti di una xeno-ecologia!). Siamo ai limiti del tema che concerne il presente articolo, e pertanto citerò pochi titoli. «Nell’inferno di neve» di Richard Holden (1956) è un vecchissimo Urania che narrava di una nevicata mai vista in precedenza, ma c’era lo zampino del solito mad doctor, uno “scienziato folle” che era riuscito addirittura a creare una nuova forma vitale legata al gelo. Invece in «La morte bianca» di John Boland (altro Urania da preistoria:1955) la colossale nevicata che in piena estate paralizzava mezzo mondo era appunto manifestazione di una poco chiara (a maggior ragione più inquietante) anomalia ambientale. Il fantasiosissimo racconto «Un secchio d’aria» (1951) di Fritz Leiber narrava del congelamento della nostra atmosfera, per cui – naturalissimo, vero? – occorreva uscire fuori casa con sgangherate tute d’emergenza, e portarsi appresso secchi o pentole per rifornirsi di pezzi d’aria… ghiacciata. Imperdibile anche il racconto breve di Arthur C. Clarke «Il nemico dimenticato» (1949). Quale il nemico? Una nuova glaciazione: comodamente rimossa dalle nostre memorie, essa si ripresentava implacabile, vanificando con un colpo di spugna progetti e speranze, ricordandoci la fragilità della specie umana. Retrocedendo ancora nel tempo e nelle… nebbie di Urania, emerge uno strano romanzo del francese Gabriel Guignard, «Arca 2000» (del 1953): qui si preannunciava addirittura – e puntualmente si verificava – un nuovo diluvio universale; ovviamente ogni essere umano era disposto proprio a tutto pur di accaparrarsi con unghie e denti un posticino sulla nuova “arca” in costruzione.

Ma la storia più bella, in tema di precipitazioni torrenziali, è probabilmente «Pioggia senza fine» (1950) di Ray Bradbury. Un manipolo di terrestri vaga tra le foreste del pianeta Venere, circondato da mille pericoli e martellato da una pioggia violenta che dura da settimane. Occorre al più presto raggiungere una delle Cupole Solari terrestri, ma tra fanghiglia, buche, liane, mostri e pericoli vari l’impresa si annuncia disperata. Una prima Cupola è stata raggiunta: era letteralmente marcita. Qualcuno del gruppo ha rinunciato a cercare ancora, lasciandosi morire…

«Il tenente non udì nemmeno lo sparo.

Cominciò a mangiare i fiori, man mano che camminava. Andavano giù abbastanza facilmente, e non erano velenosi, ma colto dalla nausea li vomitò un minuto dopo averli ingurgitati. Strappò alcune foglie e cercò di farne un cappello; la pioggia gli disfaceva le foglie vie dalla testa. Appena staccata, la vegetazione imputridiva, si dissolveva in minuzzoli grigiastri fra le dita. – Ancora cinque minuti – si disse. – Altri cinque minuti e poi entrerò nel mare, e continuerò a camminare… Noi non siamo stati creati per questo inferno d’acqua; nessun terrestre è mai stato o sarà mai in grado di sopportare tanto. I tuoi nervi, domina i tuoi nervi!

Continuò a procedere barcollando nel mare di melma e di foglie marce, finché giunse ai piedi di una piccola altura. In lontananza s’intravvedeva una debole macchia giallastra tra le fredde stelle filanti della pioggia.

La seconda Cupola Solare!».

L’uomo non crede ai propri occhi: avanza piano temendo un’allucinazione, e col timore di trovare anche questa Cupola disfatta, sfondata, liquefatta. Infine apre il portale, entra e…

«Rimase per un istante a guardarsi intorno. Alle sue spalle, raffiche di pioggia si abbattevano contro la porta. Davanti a lui, su una tavola bassa, della cioccolata fumava in un bricco d’argento, con vicino una tazza ricolma di crema vegetale e melassa. E accanto, su un altro vassoio, si ammonticchiavano grosse tartine di bianca carne di pollo, con pomodori appena tagliati e cipolline verdi. E da un sostegno proprio davanti ai suoi occhi pendeva un morbido accappatoio di spessa spugna verde, in un angolo si vedeva una cesta dove gettare i panni bagnati e, a destra, c’era un cubicolo dove raggi termici ti asciugavano perfettamente in un istante. E su una sedia una uniforme di ricambio era in attesa del primo che ne avesse avuto bisogno. Mentre più lontano il caffè fumava nelle calde coppe di rame, e si udiva un grammofono suonare dolcemente un’aria serena, e c’erano scaffali di libri rilegati in pelle rossa e nera. E accanto ai libri un lettino, un lettino morbido e profondo, su cui si poteva stare distesi, ignudi e incauti, ad assorbire i raggi dell’abbagliante luce ambrata che dominava la sala oblunga».

Con i romanzi del “Ciclo Coloniale” di Murray Leinster siamo in tutt’altro ambito. L’Ispettore Bordman è una specie di “medico condotto” per pianeti sofferenti: il suo mestiere è curare mondi malandati, se non in agonia, anche perché colonizzati da umani, che a loro volta rischiano brutto. Ebbene, la scienza (spesso molto empirica) di Bordman e l’ingegno di quel gran mestierante (anticamente si usava una parola bellissima: artiere) della fantascienza che fu Leinster riuscivano sempre a trovare ingegnose soluzioni tecnologiche, a mezzo fra… “medicina”, ingegneria planetaria e ovviamente xeno-ecologia, allo scopo di rivitalizzare pianeti morenti o soli febbricitanti: ciò accadeva, per esempio, nel romanzo a episodi «Costante solare» (1950), ambientato in un lontano sistema planetario. Invece era nuovamente il nostro Sole – al quale finalmente torniamo – il protagonista (anzi, il “doppio protagonista”) della celebre storia breve di Rod Serling «Sole di mezzanotte» (1962). Serling – val la pena ricordarlo – fu l’ideatore della nota serie tv «The Twilight Zone», in Italia presentata come «Ai confini della realtà».

Nel racconto accadeva che, a seguito di una perturbazione orbitale, la Terra prendeva ad avvicinarsi sempre più al Sole. La narrazione si incentrava sulle patetiche peripezie di due donne ormai anziane, rimaste uniche abitatrici di un immenso caseggiato, mentre gruppi di malintenzionati e disperati percorrevano le città compiendo violenze d’ogni genere. Nelle ultime righe, però… colpo di scena: la realtà è tutt’altra! In effetti ciò cui abbiamo assistito, la sensazione di calore sofferta dai personaggi per il Sole ingigantito nel cielo, non sono che l’effetto di febbri altissime e del delirio della protagonista, vittima di una polmonite. Le cose stanno esattamente al contrario: la perturbazione orbitale ha spinto la Terra in una spirale che la allontana progressivamente dal Sole, divenuto un dischetto distante e freddo nel cielo buio; e tutt’intorno il gelo di una fine imminente invade il mondo. (Interessante notare che, in questa storia, c’è un “capovolgimento” finale che non cambia assolutamente nulla: si sostituisce semplicemente una catastrofe con un’altra, di analogo esito).

5. Sole, sole, sole…

Una indimenticata canzone di Domenico Modugno (anni ’50) diceva: «Sole, sole, sole / rire p’’e case, trase, trase / ogni cosa / cchiù pulita se fa…» (Sole, sole, sole / ridi tra le case, entra, entra / ogni cosa si fa più splendente). Purtroppo gli scenari che seguono insisteranno su un Sole con tutt’altre caratteristiche: cinque storie per concludere, ciascuna – a suo modo – “esemplare” nel proprio genere.

La prima è «Il mondo finirà venerdì» (1954) di J.T. McIntosh, che in realtà si chiamava James Murdoch McGregor ed era uno scrittore e giornalista scozzese di un certo talento. Il romanzo in realtà “cuciva” insieme tre racconti lunghi e narrava in modo “classico”, avventuroso, di un’alterazione delle radiazioni solari. Come risultato, ogni cosa sulla Terra era destinata a ridursi in cenere: ma forse c’era ancora una probabilità di salvezza su Marte. Un giovane, Bill Easson, pilota di astronavi, viene suo malgrado incaricato di un ingrato compito: scegliere dieci persone a suo giudizio meritevoli di sopravvivere, fra gli abitanti di una cittadina di provincia americana, e trasportarli su Marte con un’astronave-bagnarola. Ma chi dovrà essere salvato, nella follia che si scatena? I più belli, i più buoni, i bravi, gli intellettuali, l’uomo comune? Secondo interrogativo: davvero sarà possibile giungere su Marte, o è un’altra colossale bugia messa in giro ad arte, per diffondere una pia illusione che acquieti gli animi? E infine, posto che si giunga vivi sul pianeta, esso sarà un vero rifugio o si rivelerà un nuovo tipo di trappola per gli scampati; si potrà davvero ricostituire una società, possibilmente “migliore”? I tre spunti corrispondono, in sostanza, ai tre racconti lunghi e si dipanano secondo una logica narrativa interessante e gradevole: tipica opera d’intrattenimento, ma scritta con intelligenza.

«Luna incostante» (1971) è un racconto di Larry Niven vincitore di un Premio Hugo. L’idea si direbbe “rubata” da un dettaglio di «Spedizione di soccorso» di Clarke, là dove gli alieni, portatisi con l’astronave nel cono d’ombra della Terra, concertano i loro piani di fuga attendendo di veder brillare la Luna per avere conferma che i gas del Sole stanno esplodendo. Ebbene, nel racconto di Niven accade qualcosa del genere. Negli Usa, a tarda sera, improvvisamente la Luna assume per alcuni istanti una luminosità accecante. Si scopre subito di che si tratta: c’è stata un’eruzione solare di inaudita violenza, e il risultato è che Europa, Asia, Africa eccetera devono essere rimaste calcificate.

E’ tutto (si fa per dire). I personaggi, dapprima increduli, temono che l’arrivo dell’alba calcificherà anche loro, se il Sole riprende a fare le bizze; senonché giungono notizie confortanti (per loro). Intanto il protagonista e la sua bella si attrezzano per passare la fatidica nottata fra bar, mangiate e scopate. Certo il pensiero di mezza umanità morta nell’altro emisfero (miliardi di individui) ogni tanto si affaccia alle loro menti, ma fortunatamente per essi non le occupa in modo proprio ossessivo; e il racconto si chiude con una frase edificante.

«Le cose sarebbero potute andare peggio, molto peggio. Pensai alla radiazione solare che doveva aver investito l’altra parte del mondo, e mi chiesi se i nostri figli avrebbero colonizzato l’Europa, o l’Asia, o l’Africa».

Francamente, leggere questa storia lasciò pietrificato anche me: «Luna incostante», Larry Niven, Premio Hugo 1972.

Siamo in ben altro ambito con «L’anno del jackpot» (1952) di Robert A. Heinlein. In pratica, qui l’autore si “inventa” una sorta di fanta-matematica (una di quelle affascinanti pseudo-scienze come la “psicostoriografia” asimoviana) per cui il protagonista, che è un esperto in statistica, consultando i risultati di uno scienziato, Dynkowski, si rende conto che il mondo è giunto al capolinea: il Sole sta per esplodere. Sarà per questo, forse, che la gente ha incominciato a fare cose strane? Per esempio, in molti si denudano per strada. Una specie di pulsione irrefrenabile.

«Breen si accomodò sulla panca, pregustando la lettura. Dynkowski era sempre interessante. Certo, tutti sapevano che una stella di tipo G, come il Sole, è potenzialmente instabile; una stella così può esplodere, uscire dal diagramma di Russell e finire la sua carriera come nana bianca. Ma nessuno prima di Dynkowski aveva definito le esatte condizioni di una simile catastrofe, né aveva escogitato un sistema matematico per diagnosticare l’instabilità, e descriverne il progresso.

Alzò il capo e notò che il Sole era oscurato da una nube sottile e bassa. Se non aveva lui delle macchie davanti agli occhi, c’era una grossa macchia sul Sole… Riprese la lettura, voleva terminarla prima del tramonto. Le perfette concatenazioni matematiche della dimostrazione gli comunicavano un intenso piacere. Un’alterazione del 3% nella costante d’equilibrio d’una stella… fin qui nulla che non sapesse: il Sole sarebbe esploso, con uno scarto simile. Ma Dynkowski andava più in là. Mediante un operatore matematico di sua invenzione, battezzato “pariglie”, era giunto a determinare, nella storia d’una stella, il periodo in cui tale esplosione può verificarsi. Un vero gioiello!».

La base del ragionamento di Heinlein è abbastanza semplice, e se il tutto fosse realtà sarebbe risolto uno dei problemi maggiori della matematica, della scienza, e forse anche della vita umana; quello stesso problema per il quale – per dirne una – si sa che ci sarà The Big One nella Faglia di Sant’Andrea, ma è (al momento) impossibile determinare esattamente quando: fra un anno? fra dieci, venti, cento? Noi comunque sappiamo che tutti i fenomeni catastrofici sono ciclici, e che i cicli sono interdipendenti. Heinlein immagina quindi, tramite il suo personaggio, di poter sovrapporre in un unico super-diagramma tutti i cicli (economici, geologici, astronomici etc.) di cui da anni studia l’andamento. Estrapolando nel futuro le curve del super-diagramma, si scopre che in corrispondenza di un certo punto dell’asse temporale tutte quelle curve toccheranno un massimo o un minimo. Ebbene: il punto in cui le catastrofi si verificheranno tutte contemporaneamente, corrisponde alla “fine del mondo”.

«Breen cominciò a pensarci da un punto di vista molto personale. Quanto tempo sarebbe trascorso perché l’onda d’espansione raggiungesse la Terra? Mezz’ora, tirando a indovinare… Reagì soprattutto con malinconia. Tutto finito? Per sempre? Il Colorado nel fresco del primo mattino… quella strada presso Boston coperta di foglie morte e il fumo che saliva dai boschi nell’aria autunnale… Gli odori umidi e pungenti del mercato del pesce a Fulton… no, questo non c’era già più. Il caffè al Morning Call… – È una macchia solare, quella? – disse Meade.

Breen socchiuse gli occhi e guardò di nuovo. Era ancora più grande. Meade rabbrividì: – Ho freddo.

Tra poco farà caldo… voglio dire, ti terrò caldo.

Caro – disse lei – c’è qualcosa di strano, in questo tramonto.

Non nel tramonto… Nel Sole.

Strinse forte la mano di lei, pensando con inatteso e prepotente dolore che quella era la fine».

Semplice ma insolita, la trama del racconto «La notte del quinto sole» (1981) di Mildred Downey Broxon. È una notte ventosa in una metropoli del Messico. Gesù Maria Lopez ha sangue inca nelle vene e fa il guardiano della caldaia che riscalda l’ospedale. Ma sotto la realtà apparente (vita che scorre lenta, religione cattolica che ha contaminato le antiche credenze) continua a scorrerne un’altra, intensa e sanguigna, che pochi riescono a percepire.

«L’inverno soffiava un freddo mortale verso il centro della città. Spazzava spettralmente secoli di storia, trascinava rifiuti lungo le strade un tempo percorse da guerrieri piumati, scivolava verso l’antico luogo del sacrificio. Quella era una notte di morte, un dio freddo danzava nel vento. Sua madre gli aveva insegnato a non perdere mai il conto: quella notte terminava un ciclo. Cinquantadue anni erano trascorsi dall’ultimo Fuoco Nuovo: lui era stato un bimbo di quattro anni. Il mattino dopo, il sole si era alzato come sempre, ma sua madre gli aveva detto che Carmelita era morta. Gesù Maria ricordava di aver pianto».

Il problema è che questa notte deve ripetersi il consueto sacrificio: ma è diventato quasi impossibile trovare il sangue giusto. I matrimoni misti hanno imbastardito le origini, una nipote di Gesù Maria si è prostituita e ora se ne viene a partorire nell’ospedale. Eppure…

«Nell’angolo, le tenebre si solidificarono. Una donna che stava per dare alla luce un bambino: sì, quello era un sacrificio degno. Il coraggio, la paura, il dolore: un sapore aspro, gustoso. Era perfetto, era come doveva essere. La donna apparteneva quasi totalmente all’antico ceppo, a coloro che conoscevano la giusta venerazione, che nutrivano i loro dèi con cuori umani e sangue. L’ombra alzò un coltello d’ossidiana e pregustò il futuro».

Ma le cose vanno diversamente. Maria Luisa, la nipote di Gesù Maria Lopez, ha rifiutato la confessione e l’assoluzione. Finirà nell’Inferno o nel Paradiso del Sole? Gesù Maria prende una decisione: sarà lui a sacrificarsi.

«Se non viene nutrito, il sole morirà e il mondo finirà. Trascinò sotto l’ultimo bagliore della fiamma una scatola, e scelse un lungo e spesso frammento di vetro. Lo sollevò davanti agli occhi: “Mio buon Dio, ricevi il mio spirito”. La punta scintillò. Lopez l’abbassò di scatto, se la conficcò nel cuore…

L’ombra avvertì il sapore della morte d’un guerriero. Lasciò la stanza dove giaceva la giovane donna. Il sole avrebbe banchettato.

La città si svegliò. Pochi sapevano che iniziava un nuovo ciclo di cinquantadue anni. Nessuno credeva di essere ancora vivo perché Huitzilopochtli, e il sole, erano stati nutriti».

Immagino – spero di non sbagliarmi – che «Quando andammo a vedere la fine del mondo» (1971) di Robert Silverberg sia un modo adeguato per concludere questo articolo. La trama è fragile e un po’ futile; e il raccontino risale al 1971, per cui anticipava molti atteggiamenti oggi ormai radicati al punto da non destare più un sense of wonder. Dunque: in un futuro non lontano, nel quale la violenza gratuita sta crescendo in modo preoccupante benché nessuno se ne preoccupi più di tanto (per esempio, si commettono atti di estrema violenza per protestare contro la violenza) e in cui ostentazione, arrivismo e arrampicatori sociali hanno dalla loro leggi e opinione pubblica, uno degli ultimissimi divertimenti “à la page” è andare, affittando una macchina del tempo, a visitare gli ultimi giorni del mondo. La cosa tuttavia riscuote, in società, un modesto interesse, anche perché le testimonianze divergono: chi dice d’aver visto (stando ben al riparo nella cronomacchina) il Sole trasformarsi in nova e fare della Terra poltiglia; chi invece si vanta di essersi recato oltre, quando anche la nova sarà evaporata e campeggerà solo un cielo nerissimo; altri raccontano ulteriori meraviglie. Ma poi, ragionano in realtà costoro, fino a che punto val la pena sottoporsi a bravate del genere?

«L’intervistatore chiese se la compagnia organizzatrice avrebbe avuto presto qualcos’altro da offrire, oltre ai viaggi alla fine del mondo. – Ovviamente sì – disse il dirigente. – E prevediamo una richiesta altissima… Naturalmente ci attendiamo ancora un immenso successo con cose apocalittiche, in tempi come i nostri.

In che senso in tempi come i nostri? – chiese l’intervistatore, ma fu interrotto da un comunicato commerciale. Nick si trovò fermo accanto a Marcia e tentò di descriverle come si muoveva il granchio gigante nel futuro lontano [NdA: qui nel testo completo c’è una citazione da H.G. Wells; vedi all’inizio di questo articolo], ma lei si limitò a una scrollata di spalle. Nessuno parlava più di viaggi nel tempo, ora. Gli ospiti si congedarono abbastanza presto, Nick e Jane se ne andarono a dormire senza neanche fare l’amore. Il mattino dopo il giornale non venne recapitato per uno sciopero, e la radio disse che le amebe mutanti si rivelavano difficili da sradicare, stavano contaminando anche il Lago Superiore. Nick e Jane discussero sul dove andare per la prossima vacanza. – Se andassimo a vedere un’altra fine del mondo? – suggerì Jane, e Nick trovò che era un’ottima idea: – La gente – disse – ha veramente bisogno di distrarsi, oggi».

Con questo racconto-epitaffio (che, chissà, andrebbe bene anzitutto per la stessa fantascienza) esaurisco i miei argomenti sul tema.   

(*) Questo testo è in «Terra bruciata», uno “speciale” di «Delos» – numero 82, luglio 2003 – con apporti anche di altri collaboratori ispirato dalla… caldissima estate; poi ripubblicato in «Vengo solo se parlate di Ufi», raccolta di articoli e saggi di Vittorio Catani (DelosBooks, 2004). Una pignoleria: nel 2003 Vandana Shiva non ha ricevuto il Nobel della pace, come scrive Catani, ma il Right Livelihood Award, che è considerato una sorta di Nobel “alternativo”, meno istituzionale e più legato ai movimenti sociali e/o altermondialisti. (db)

 

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