On the road
Con buona musica a far compagnia ma anche vista finale (e sparo possibile) sui “bersagliandi” cinghiali. E con immagine “fuori posto” (*).
ripreso da chiedoaisassichenomevogliono
Appropinquandosi le ferie, attraversai lo stivale – non so se avete presente quanto è lungo e tortuoso lo stivale – pure oltre il tacco, sino a quei posti stupidi, dove non piove mai, direbbe Brassens, sino a quel paese a forma di melograna spaccata (se capitate da quelle parti, quest’estate, fate un fischio, mi raccomando), t’aggiungerebbe Gesualdo Bufalino. È viaggio lungo e periglioso, percorrere tutto quel tratto in autostrada pare la traversata del deserto, a schivare certi decerebellati che ci hanno il pedale dell’acceleratore come escrescenza ectoplasmica del cervello, che non conoscono freni, né motori, nemmeno inibitori. La gimkana è urticante e ti sovviene il desiderio profondo della reintroduzione delle pene corporali, delle bacchettate sulle dita, a dir poco.
Che poi io e la velocità abbiamo perso contatto da mo’, da quando l’ultimo autovelox non m’ha tirato fuori la freccia e m’ha sorpassato in linea continua, infliggendosi da solo pesante ammenda con tanto di foto segnaletica. Non regala tregua quel serpentone d’asfalto incandescente, coi suoi ingorghi ottusi, i rallentamenti improvvidi e brutali, autogrill che servono proteine liofilizzate, al sapore del nulla sotto vuoto spinto, e caffè che pare che li pubblicizzi Antonello Falqui in persona, che però manco la parola hanno della bevanda antisonno. La mia macchinina che non è esattamente fuoriserie superoptional, peraltro, non pare nemmeno lei adusa a far mille mila chilometri in una volta. Poi a me l’autostrada mi comincia a mezz’ora da casa, e mi finisce ad un quarto d’ora l’agognata meta. Senza scampo dunque. Mi sono messo pure a viaggiare leggero, che pure il pensiero di scaricare la macchina mi fa tremare le vene ai polsi, che a meta raggiunta mi serve poco. Per me è fatto consueto, dunque, che l’autostrada la evito e me ne vado di strada traversa, che lì trovo ristoro e lentezze. Stavolta non potei derogare ad affrontar supplizio ch’ebbi fissato appuntamento con un tal avvocato per questioni di condominio – che forse meglio sarebbe camminare su carboni ardenti, farsi cavar denti senza anestesia – pure mi ritrovai a partire con febbriciattola impertinente, che a classe mia alunni paiono vecchi catarrosi e non c’è distanza nemmeno mascherina a protezione (io la tengo ancora), con virus tutti fuorilegge, a soffermarsi solo a condizione di clandestinità. E poi, vista mare a notte fonda, parte il picchetto immancabile dei camionisti a giusta lamentazione d’attesa epica, a bloccare auto che hanno transito d’altro traghetto a più rapido scorrimento. Ed a sfinimento fatto mi toccò tirar fuori tessera di sindacato e far a mediazione anch’io, a costo di buscarle da parte e controparte. Così vanno le cose che mi riuscii per esperienza lunga di contrattazione a far ripartire il serpente acciaioso a risparmio d’un’oretta buona. E poi l’ultimo budello, tre ore circa che pare percorrenza di campo di patate, ad evitar le buche profonde, che per le altre non c’è scampo, sino all’alba d’un nuovo giorno.
Però, se una nota di svago ebbi da questo lungo viaggio, mi venne dal radiogiornale che m’aggiorna su liberalizzazione di sparo a vista del cinghiale. Che già mi vedo eleganti signore con scarpa di coccodrillo uscir di casa armate di doppietta mentre pascolano Fuffy, gentili galantuomini doppiopettati gettar rifiuti a cassonetti con tracolla di bazooka antibestia. Già m’avvedo dello sparo e del conseguente “ops, mi pareva proprio un cinghiale, era nero e grufava tra i rifiuti”