PACE: parola di quattro lettere nei cruciverba
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Discorso di Chris Hedges alla manifestazione “Rabbia contro la macchina della guerra” a Washington DC
L’idolatria è il peccato originale da cui derivano tutti gli altri. La tentazione di diventare Dio che ci arriva dagli idoli, che esigono il sacrificio altrui nella folle ricerca di ricchezza, fama o potere. Ma l’idolo finisce sempre per richiedere il sacrificio di sé, lasciandoci morire sugli altari intrisi di sangue che abbiamo eretto per gli altri.
Poiché gli imperi non possono essere soppressi, si suicidano ai piedi degli idoli da cui sono dominati.
Siamo qui oggi per denunciare i sommi, non eletti, e irresponsabili sacerdoti dell’Impero, che incanalano i corpi di milioni di vittime, insieme a trilioni della nostra ricchezza nazionale, nelle viscere della nostra versione di Moloch, l’idolo cananeo.
La classe politica, i media, l’industria dell’intrattenimento, i finanzieri e persino le istituzioni religiose perseguono come lupi il sangue dei musulmani, dei russi o dei cinesi, o di chiunque l’idolo abbia demonizzato come indegno di vivere. Non c’erano obiettivi razionali nelle guerre in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia e Somalia. Non ce ne sono in Ucraina. La guerra permanente e l’industria del massacro sono la loro stessa giustificazione. Lockheed Martin, Raytheon, General Dynamics, Boeing e Northrop Grumman guadagnano miliardi di dollari in profitti. Le ingenti spese richieste dal Pentagono sono sacrosante. Opinionisti, diplomatici e tecnocrati guerrafondai, che si compiacciono di declinare qualsiasi responsabilità per la serie di disastri militari che orchestrano, sono una cricca proteiforme, si spostano abilmente a seconda delle correnti politiche, passando dal Partito Repubblicano al Partito Democratico e viceversa, presentandosi di volta in volta come implacabili combattenti, oppure neoconservatori, o interventisti liberali. Julien Benda ha definito questi cortigiani del potere “i barbari dell’intellighenzia che si sono fatti da soli”.
Questi fanatici della guerra non vedranno mai i cadaveri delle loro vittime. Io li ho visti, compresi i bambini. Ogni corpo senza vita che ho visto come reporter in Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Palestina, Iraq, Sudan, Yemen, Bosnia o Kosovo, mese dopo mese, anno dopo anno, ha rivelato la loro bancarotta morale, la disonestà intellettuale, la malata sete di sangue e le loro fantasie deliranti. Sono marionette del Pentagono, uno Stato nello Stato, e dei produttori di armi che finanziano lautamente i loro think tank. Ecco l’elenco: Project for the New American Century, Foreign Policy Initiative, American Enterprise Institute, Center for a New American Security, Institute for the Study of War, Atlantic Council e Brookings Institute. Come un ceppo mutante di un batterio resistente agli antibiotici, non possono essere sconfitti. Non importa quanto si sbaglino, quanto siano assurde le loro teorie di dominio globale, quante volte mentano o denigrino altre culture e società come incivili, o quante ne condannino a morte. Sono puntelli inamovibili, parassiti vomitati negli ultimi giorni di tutti gli imperi, pronti a venderci la prossima giusta guerra contro chiunque abbiano deciso sia il nuovo Hitler. La mappa cambia. Il gioco resta lo stesso.
Pietà per i nostri profeti, che vagano in questo paesaggio desolato gridando nell’oscurità. Pietà per Julian Assange, sottoposto a un’esecuzione al rallentatore in una prigione di massima sicurezza a Londra. Ha commesso il peccato mortale per l’Impero: ha denunciato i suoi crimini, i suoi meccanismi di morte, la sua depravazione morale.
Una società che proibisce la capacità di dire la verità estingue la capacità di vivere nella giustizia. Alcuni che sono qui oggi possono pensare di essere dei radicali, addirittura dei rivoluzionari. Ma ciò che stiamo chiedendo allo spettro politico è, in realtà, conservatore: il ripristino dello Stato di Diritto. È semplice e basilare. In una repubblica degna di questo nome, non dovrebbe essere una richiesta incendiaria. Ma vivere nella verità in un sistema dispotico, quello che il filosofo politico Sheldon Wolin ha definito “totalitarismo al contrario”, diventa sovversivo.
Illegittimi sono gli architetti dell’imperialismo, i signori della guerra, i rami legislativo, giudiziario ed esecutivo del governo controllati dalle multinazionali e dai loro ossequiosi portavoce nei media e nel mondo accademico. Pronunciate questa semplice verità e sarete banditi, come è toccato a molti di noi, messi ai margini. Dimostrate questa verità, come ha fatto Julian Assange, e sarete crocifissi.
“Ora è sparita anche la Rosa rossa. Dov’è sepolta non si sa. Siccome disse ai poveri la verità, i ricchi l’hanno spedita nell’aldilà” scrisse Bertolt Brecht della socialista Rosa Luxemburg, quando venne assassinata.
Abbiamo subito un colpo di stato da parte del sistema corporativo, per cui i poveri e le donne e gli uomini che lavorano, la metà dei quali non ha 400 dollari per coprire una spesa di emergenza, sono ridotti a una cronica instabilità. La disoccupazione e l’insicurezza alimentare sono endemiche. Le nostre comunità e città sono in uno stato desolante. La guerra, la speculazione finanziaria, la sorveglianza costante e la militarizzazione poliziesca che funziona come un esercito interno di occupazione sono le uniche vere preoccupazioni dello Stato. Persino l’ habeas corpus non esiste più. Noi, come cittadini, siamo merce usa e getta per i sistemi aziendali di potere. E le guerre infinite che combattiamo all’estero hanno generato le guerre che combattiamo in patria, come ben sanno gli studenti ai quali insegno nel sistema carcerario del New Jersey. Tutti gli imperi muoiono nello stesso atto di autoimmolazione. La tirannia che l’impero ateniese imponeva agli altri, nota Tucidide nella sua storia della guerra del Peloponneso, alla fine la imponeva anche a se stesso.
Opporsi, tendere la mano e aiutare i deboli, gli oppressi e i sofferenti, salvare il pianeta dall’ecocidio, denunciare i crimini interni e internazionali della classe dominante, chiedere giustizia, vivere nella verità, distruggere gli idoli, significa portare il marchio di Caino.
Dobbiamo far sentire la nostra collera a coloro che detengono il potere, mediante azioni costanti di disobbedienza civile nonviolenta e di sabotaggio a livello sociale e politico. Il potere organizzato dal basso è l’unico che può salvarci. La politica gioca sulla paura. È nostro dovere far sì che chi è al potere abbia molta, molta paura.
L’oligarchia al potere ci tiene chiusi nella sua morsa mortale. Non può essere riformata. Oscura e falsifica la verità. È alla ricerca maniacale di accrescere la sua oscena ricchezza e il suo potere incontrollato. Ci costringe a inginocchiarci davanti ai suoi falsi dei. E quindi, per citare la Regina di Cuori, metaforicamente, ovviamente, dico: “Via le teste!”.
Chris Hedges, giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è autore di numerosi libri antimilitaristi e attivista.
Traduzione dall’inglese di Daniela Bezzi
Revisione di Anna Polo
Promuovere la ricostruzione dell’Ucraina per alimentare la guerra – Laura Ruggeri
L’operazione militare russa in Ucraina era appena iniziata e i principali attori della coalizione che sostiene l’Ucraina, così come le istituzioni finanziarie e i think tank transatlantici, stavano già discutendo della ricostruzione del Paese. Inevitabilmente la spacciavano come un’opportunità storica per il Paese: come una fenice che risorge dalle ceneri, l’Ucraina sarebbe diventata un faro di libertà, democrazia e legalità, un testimonial del Build Back Better, un successo della transizione verde e digitale; il Paese avrebbe bruciato in corsa diverse fasi di sviluppo e la sua crescita economica avrebbe replicato il boom della Germania del dopoguerra.
Non sorprende che gli esempi più recenti, e molto meno edificanti, di “ricostruzione” guidata dall’Occidente in Iraq, Libia e Afghanistan non vengano mai menzionati. La velocità con cui sono state sfornate narrazioni fantasiose di ripresa e ricostruzione non dovrebbe sorprendere nessuno: erano state concepite anni prima nell’ambito di diversi “piani di riforma” per l’Ucraina. Si potrebbe dire che sono parte della strategia di questa guerra per procura contro la Russia e chi le ha prodotte lavora direttamente o indirettamente per governi e lobby coinvolti sia nella distruzione dell’Ucraina che nell’ucrainizzazione dell’Europa, un processo finalizzato a controllare, militarizzare e saccheggiare il Vecchio Continente.
Non c’è dubbio che l’Ucraina dovrà essere ricostruita una volta che la guerra sarà finita, ma “distruzione” e “ricostruzione” significano cose diverse per persone diverse in contesti diversi. Ad esempio, c’è un forte disaccordo su cosa si intenda per “distruzione”, su quando sia iniziata la “distruzione” dell’Ucraina e di chi sia colpa. Il campo semantico, come la storia, è un territorio fortemente conteso. Chi ha seguito le vicende ucraine senza pregiudizi ideologici, e con un minimo di onestà intellettuale, sa che al momento della dissoluzione dell’URSS, l’Ucraina era una potenza economica, la terza potenza industriale dell’Unione Sovietica dopo Russia e Bielorussia, oltre che il suo granaio. Questa repubblica sovietica possedeva industrie aerospaziali, automobilistiche e di macchine utensili, i suoi settori minerario, metallurgico e agricolo erano ben sviluppati, come i suoi impianti nucleari e petrolchimici, le sue infrastrutture turistiche e commerciali. Ospitava inoltre il più grande cantiere navale dell’URSS.
Un continuum di distruzione
A partire dal 1991, anno della sua indipendenza, il PIL dell’Ucraina è rimasto indietro rispetto al livello raggiunto in epoca sovietica, la capacità industriale si è notevolmente ridotta e la popolazione è diminuita di circa 14,5 milioni di persone in 30 anni a causa dell’emigrazione e del più basso tasso di natalità in Europa. Non solo, l’Ucraina è anche diventata il terzo debitore del FMI e il Paese più povero d’Europa. Questi record negativi non possono essere imputati solo alla corruzione sistemica e spaventosa dell’Ucraina: le reti di corruzione che hanno spremuto l’Ucraina sono transnazionali. L’Ucraina è stata vittima di due rivoluzioni colorate finanziate dagli Stati Uniti che hanno portato a un cambio di regime e ad una guerra civile che l’hanno separata a forza dal suo principale partner economico, la Russia.
La sua storia è stata cancellata e riscritta, le ricette neoliberali hanno distrutto il suo tessuto economico e sociale instaurando una forma di governo neocoloniale.
L’Ucraina è entrata a far parte del nefasto Partenariato Orientale 1 dell’UE nel 2009 e, fin dalla sua indipendenza, è stata invasa da ONG, consulenti economici e politici occidentali. Lo stato di soggezione del Paese ostaggio degli interessi anglo-americani si è cementato dopo che l’ultimo governo ucraino che si era opposto alle dure condizioni del FMI è stato rovesciato dal colpo di stato sponsorizzato dagli Stati Uniti nel 2014. Il 10 dicembre 2013, il presidente ucraino Viktor Yanukovich aveva dichiarato che le condizioni poste dal FMI per l’approvazione del prestito erano inaccettabili: “Ho avuto una conversazione con il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, mi ha detto che la questione del prestito del FMI è stata quasi risolta, ma gli ho ripetuto che se le condizioni fossero rimaste tali non avremmo avuto bisogno di tali prestiti”. Yanukovich ha quindi interrotto i negoziati con il FMI e si è rivolto alla Russia per ottenere assistenza finanziaria. Era la cosa più sensata da fare, ma gli è costata cara. Non è possibile rompere impunemente le catene del FMI: questo fondo a guida americana concede prestiti a paesi con l’acqua alla gola in cambio della solita shock therapy fatta di austerità, deregolamentazione e privatizzazione, e prepara in questo modo il terreno per gli avvoltoi della finanza internazionale, quasi sempre angloamericani. Se si permette a coloro che hanno distrutto un Paese di essere coinvolti nella sua ricostruzione, essa sarà inevitabilmente solo un punto sul continuum di conquista, occupazione e saccheggio, anche se viene imbellettato. La distruzione produce quella tabula rasa su cui l’occupante può scrivere le proprie regole: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace”. Tacito conosceva bene sia la realtà che la propaganda dell’imperialismo romano.
Ci si può solo chiedere se coloro che parlano di “ricostruzione”, “ripresa”, “riforma”, “ordine fondato sulle regole”, “reset” o qualsiasi altra espressione di moda al momento, siano consapevoli di questa realtà brutale o credano veramente alla propria propaganda. In ogni caso, promettono un’utopia futura per la quale vale la pena uccidere e morire.
Il capitalismo occidentale ha creato la propria escatologia secolare, sostituendo la promessa della vita eterna dopo la morte con la speranza di un mondo migliore in futuro, suscitando aspettative che vengono costantemente deluse. Incapace di risolvere le sue crescenti contraddizioni nel presente, il capitalismo rimanda la soluzione al futuro.
L’utopia promessa, incorporata nella narrazione ambientalista-tecnocratica, è un tentativo di distogliere l’attenzione dalle tendenze distruttive insite nel capitalismo stesso, che ancora una volta ha fatto ricorso alla guerra e all’espansione dei budget militari per tirarsi fuori dalle sue crisi sistemiche. Le guerre, con i loro cicli di distruzione e ricostruzione, forniscono sia uno stimolo economico nel quadro della stagnazione attuale che uno sbocco per la sovraaccumulazione del capitale. ll centro di gravità economica si è spostato in Asia, un mercato quello asiatico in cui gli Stati Uniti devono affrontare la forte concorrenza della Cina, e mentre l’egemonia statunitense si indebolisce, le élite occidentali si trovano di fronte alla scelta di sostenere il vecchio egemone oppure cercare un accordo con le potenze emergenti, un’opzione che non solo ridurrebbe la loro influenza e i loro profitti scandalosi, ma accelererebbe anche il declino degli Stati Uniti.
Poiché il potere militare e l’influenza USA sull’economia globale sono da tempo intrecciati e la perdita dell’uno comporterebbe la perdita dell’altra, gli Stati Uniti hanno stretto la presa sui loro vassalli, hanno raddoppiato le loro ambizioni egemoniche e preferiscono indulgere in grandiose e pericolose fantasie piuttosto che accettare la nuova realtà multipolare. Le loro fantasticherie non possono garantire una crescita reale, ma aiutano a manipolare il sentimento del mercato, ed è per questo che l’Impero sta investendo una parte considerevole delle sue risorse per colonizzare le menti e blindare le sue narrazioni con metodi polizieschi. Il compito di coloro che progettano contemporaneamente la distruzione e la ricostruzione è quello di ridurre la dissonanza cognitiva tra lo stato di miseria attuale e i proclami di un futuro radioso…
Il ritorno dei blocchi e la teoria Rumsfeld – Giuseppe Masala
È tuttavia mio dovere prospettarvi determinate realtà dell’attuale situazione in Europa. Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente,” Winston Churchill (5 marzo del 1946)
Ad ormai un anno di distanza dall’inizio del conflitto tra Ucraina (e Nato) da un lato e Russia dall’altro si stanno susseguendo gli appuntamenti simbolici dal grande impatto mediatico ma anche dalla enorme portata politica.
Ad aver iniziato la serie di “appuntamenti” è stato Joe Biden arrivato a Kiev direttamente dall’America per dimostrare anche fisicamente l’appoggio statunitense a Kiev e al suo leader Zalensky. In questa visita il presidente americano, per il vero, non ha fatto alcun annuncio importante, se non dimostrare fisicamente al mondo il sostegno degli USA all’Ucraina che si vorrebbe far credere incrollabile. Ovviamente il tutto condito dall’ennesima firma di Old Joe su un atto che autorizza la fornitura di ulteriore assistenza militare e finanziaria all’Ucraina. Non è chiaro peraltro, se questo – come tutti gli altri aiuti arrivati da Washington – siano sotto l’egida della Lend-Lease Act americana appositamente re-introdotta dal parlamento USA allo scoppio della guerra o se siano vere e proprie donazioni. Molto probabilmente si tratta di sostegno sotto l’egida di questa legge, conseguentemente qualcuno un giorno sarà chiamato a pagare; e qualcosa mi dice che non sarà l’Ucraina a farlo ma i paesi europei ormai sempre più ridotti nel ruolo di pagatori di ultima istanza.
Il giorno dopo la visita di Biden a Kiev – tre giorni fa – è stato lo stesso Putin a dare il via agli eventi simbolici con un discorso di fronte al parlamento riunito in seduta comune. Un discorso per certi versi di portata storica che a tratti è stato una vera e propria requisitoria contro l’Occidente Collettivo, accusato di doppiezza a partire dagli accordi di Minsk che si sono dimostrati (per stessa ammissione della Merkel e di Hollande) un semplice escamotage per guadagnare tempo e poter così consentire alla Nato di rinforzare l’apparato militare ucraino e renderlo abbastanza robusto da riuscire a combattere la Russia magari fino a logorarla in maniera sostanziale.
Ma il nocciolo del discorso di Putin è certamente legato al tema della sicurezza strategica della Russia e più in generale al concetto di indivisibilità della sicurezza che – essendo il mondo unico – o è garantita a tutti o non è garantita a nessuno. Putin ha ricordato che sono stati gli USA ad uscire dal trattato che bandiva i missili a medio raggio dall’Europa. Un trattato questo fondamentale per garantire la Pace in Europa. Inoltre Putin ricorda che fu la Russia – nel Dicembre del 2021 – a porre il tema della sua sicurezza alla luce del fatto che la Nato sempre più avanzava verso i confini del paese euroasiatico. Questione questa che portò a colloqui ai massimi livelli tra Mosca e Washington ma che si conclusero con un nulla di fatto.
Alla luce di tutto questo lo Zar dunque annuncia la sospensione del trattato New START sui missili e le testate nucleari strategiche che garantisce di fatto la non proliferazione nucleare. Una sospensione che rende impossibili le ispezioni americane nei siti nucleari russi e che è comprensibile visto che gli USA ormai sono a tutti gli effetti una potenza belligerante contro la Russia e risulterebbe certamente paradossale che mentre invia armi all’Ucraina possa ispezionare le armi strategiche russe compresi i Sarmat, il sistema Avanguard e i missili ipersonici Zhircon e Kinzhal.
Il problema è che la mossa russa rischia di aprire il vaso di pandora della proliferazione nucleare in tutto il mondo. Se i russi decidessero di aumentare i vettori per le loro testate, perché non dovrebbero fare altrettanto francesi, inglesi, americani, israeliani, cinesi, indiani e pakistani? E di conseguenza, perché giapponesi, iraniani, sauditi non possano decidere di dotarsi anche essi dell’arma atomica visto che – magari – i loro avversari storici aumenteranno le loro testate e i loro missili? Un passaggio questo delicatissimo…
Ucraina: è arrivata l’ora della diplomazia? – Olivier Turquet
Uno dei punti fermi che hanno caratterizzato le manifestazioni per la pace in Ucraina che si sono svolte numerose in molte parti del mondo in questi ultimi giorni e di cui Pressenza ha cercato di dare conto è stata la necessità di un cessate il fuoco e di un intervento serio della diplomazia.
Vari hanno ricordato che l’arte della diplomazia è quella di parlare con il nemico, non quella di costringere il nemico alla resa, prerogativa di chi, anche in questo caso, pensa che la guerra finisca grazie alla vittoria di una parte sull’altra.
In questo senso il piano cinese in 12 punti presentato in questi giorni è, salvo smentite, l’unico piano che propone una soluzione diplomatica basata su principi, come l’integrità territoriale, la protezione dei civili, l’aiuto umanitario e il cassate il fuoco come condizione previa al dialogo riconosciuti universalmente e cardini della diplomazia.
Così sembra un po’ curioso che la risposta di molti attori occidentali (NATO, USA, Unione Europea) abbiano immediatamente bocciato il piano come un “non piano”; quegli stessi attori che non hanno come piano altro che la risposta militare e le sanzioni alla Russia. Ancora più curioso il fatto che Zelensky stesso ne abbia elogiato il tentativo prima di essere smentito dai falchi del suo governo e dal Segretario Generale della NATO.
Il piano cinese è criticato perché non condanna l’invasione russa di un anno fa; ma, essendo un piano basato sulla diplomazia, esso invoca il cessate il fuoco, la messa in sicurezza delle centrali nucleari, l’aiuto immediato alle popolazioni e la condanna del coinvolgimento dei civili nel conflitto: tutto questo suona, nel linguaggio della diplomazia, come una forte condanna dell’invasione perché se no questi punti non sarebbero nemmeno nominati. Se qualcuno non sa leggere tra le righe del testo, o non vuole farlo, l’ipocrisia di chi vuole la guerra facendo finta di volere la pace è facilmente svelata.
Esiste il partito trasversale della guerra che include una quantità di interessi legati direttamente o indirettamente all’industria militare e a quella energetica e che travalica le frontiere geopolitiche classiche, arrivando infine, come sempre, agli interessi della speculazione finanziaria che gioca indifferentemente sui tavoli delle armi, su quello dell’energia ma anche già scommette sulla lucrosa ricostruzione: è un partito che unisce realtà esplicite e implicite che, mediaticamente, fanno a gara a fare i “nemici” ma sono pronti a siglare accordi per il loro bene comune, che si chiama profitto. E’ un partito forte ma sta perdendo pezzi perché da molte parti ci si rende conto che questo stato di destabilizzazione permanente che aleggia dalla pandemia in poi non è nemmeno funzionale al mantenimento di un apparente stato di benessere in alcune, poche, parti del mondo. La domanda è: fin quando potremo tirare il collo alla popolazione mondiale, in particolare a quella che sta sull’orlo del baratro, senza una risposta di qualche tipo?
I cinesi è da tempo che dichiarano pubblicamente che la guerra è un ostacolo al loro interesse principale che è il commercio multilaterale. La Cina ha superato la crisi del Covid mantenendo una posizione leader nell’economia mondiale, nonostante tutti gli analisti occidentali passino il tempo a fare gli uccelli del malaugurio. Pragmaticamente (non sono comunisti, sono confuciani) la Cina sta rapidamente correggendo gli errori di una politica di espansione industriale selvaggia con interventi statali a favore di un maggiore equilibrio ecologico, mentre l’Occidente resta ancorato al businness as usual, riuscendo a fare della transizione ecologica soltanto un grande affare, evitando di affrontare i problemi di fondo che riguardano lo stesso modello di “sviluppo” delle società occidentali. E in quel modello la violenza è intrinseca e giustificata, al di là dei proclami “buonisti”: la violenza economica innanzi tutto ma poi anche quella della pretesa superiorità intellettuale, quella della discriminazione e del disprezzo delle altre culture e degli altri popoli, quella maschilista che pervade il suprematismo bianco, l’autoritarismo.
Ora la Cina ha fatto la sua mossa per limitare i danni di una guerra che, innanzi tutto, la danneggia economicamente direttamente (Ucraina era un buon mercato) e indirettamente.
Di fatto sarebbe il caso di ricordare che i cinesi non fanno guerra a nessuno da parecchio tempo e che anche i loro interventi indiretti in alcune crisi del dopoguerra sono stati molto ponderati ed hanno consentito il mantenimento sostanziale della pace in Asia; non possiamo dire esattamente la stessa cosa delle potenze occidentali, in particolare degli Stati Uniti, con il loro amore per l’interventismo “in nome della democrazia”.
In sintesi ci pare che il piano cinese riproponga con forza e autorevolezza quello che stanno dicendo i pacifisti mondiali: cessate il fuoco, cessate l’escalation armamentista, soccorrete le popolazioni e allontanate la minaccia atomica, sia scaturita da un incidente che dalla stessa guerra nucleare. Su quest’ultimo tema chiederemmo al Governo Cinese uno sforzo ulteriore per ratificare la bontà delle loro intenzioni: l’adesione al Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari. Sarebbe un modo concreto per rispondere a chi dice che il piano di pace sia solo propaganda.
In ogni caso lo spiraglio aperto dal piano di pace cinese, qualunque sia il suo esito, deve essere l’occasione per i pacifisti per dire che la diplomazia è l’unica via d’uscita e per i nonviolenti di affermare con forza che le strade dell’obiezione di coscienza, della Difesa Popolare Nonviolenta, della non collaborazione con la violenza sono strade da praticare, da conoscere e da approfondire, oltre che l’unica soluzione di fondo alla follia che stiamo vivendo.
Chi sta vincendo in Ucraina – e cosa accadrà dopo? – Peter Beaumont
(Tradotto da Ilaria Falvo per PeaceLink)
Venerdì 24 Febbraio ricorre l’anniversario dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma il quadro appare molto diverso rispetto alle prime settimane di guerra, quando centinaia di carri armati russi si riversarono oltre il confine e le forze aeree tentarono di catturare l’aeroporto di Hostomel, alle porte di Kiev, come trampolino di lancio per conquistare la capitale. Qui di seguito analizziamo lo stato del conflitto e ciò che potrebbe accadere in seguito.
La Russia sta già preparando una nuova offensiva?
Ci sono state valutazioni contraddittorie sulla capacità della Russia di condurre una nuova significativa offensiva. Sebbene alti funzionari ucraini abbiano ripetutamente avvertito fin da prima di Natale che la Russia stava pianificando un nuovo grande sforzo quest’anno, le prove per la preparazione di una spinta simile a quella del febbraio 2022, con un attacco corazzato su larga scala, rimangono scarse.
Anche le recenti affermazioni di funzionari della NATO, secondo cui la Russia starebbe accumulando aerei, sono state ampiamente smentite dal Ministero della Difesa britannico. E mentre la Russia ha aumentato notevolmente gli effettivi della fanteria – secondo alcune stime ci sono più di 300.000 truppe in Ucraina – non ci sono prove che centinaia di carri armati si stiano radunando in una regione pesantemente sorvegliata dai satelliti spia.
Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha indicato l’aumento degli sforzi russi nell’est come prova dell’inizio di una “nuova offensiva”, ma altri la vedono come una continuazione di sforzi che vanno avanti da mesi. I bombardamenti russi sono meno intensi rispetto all’estate intorno a Sievierodonetsk, quando Mosca sparava 60.000 proiettili al giorno.
Nonostante la mobilitazione dello scorso anno, analisti come Phillips O’Brien dell’Università di St Andrews ritengono che le capacità russe siano degradate dalla guerra e che coloro che si aspettano una replica dell’invasione iniziale dello scorso anno si sbaglino.
“Quello che è successo dal 24 febbraio è che l’Ucraina si è rafforzata, ha acquisito sistemi migliori e sta per ottenerne altri”, dice O’Brien. “I russi si sono indeboliti. Hanno più soldati, ma il loro equipaggiamento è peggiore, i loro soldati sono meno addestrati di prima e le loro scorte di munizioni sono sempre più scarse”.
O’Brien e altri sostengono che ci sono poche prove che la Russia sia in grado di condurre complesse operazioni ad armi combinate, integrando potenza aerea, mezzi corazzati e altri elementi, rispetto a un anno fa…
Porto contro la guerra, il Calp: a Genova con noi l’Italia che dice stop all’invio di armi
Dalle 5.000 alle 10.000 persone hanno risposto all’appello dei portuali genovesi e sono scese in strada. A reggere lo striscione del Collettivo Autonomo anche chef Rubio.
L’Italia che dice no alla guerra e all’invio di armi ieri era qua, nel porto di Genova, a manifestare con i lavoratori dello scalo più grande del Paese, che dal 2014 denunciano “i traffici di armi e il fatto che i porti sono questa zona grigia in cui per interessi economici non si rispettano le leggi, come la 185 del 1990 che vieta il transito di armamenti, e l’articolo 11 della Costituzione”.
Così José Nivoi, responsabile USB e lavoratore del Calp, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali che ha promosso la protesta in una giornata simbolica, il 25 febbraio appunto, non solo perché è un anno esatto dall’inizio del conflitto in Ucraina ma anche perché sono passati due anni dall’inchiesta della Procura per associazione a delinquere nei confronti del Calp, indagini che sono certamente legate alle battaglie per il blocco del traffico di armi di passaggio nel porto di Genova.
E proprio ieri, in effetti, era atteso al terminal Gmt l’attracco di una delle navi della compagnia saudita Bahri, una flotta che è diventata simbolo di guerra perché, denuncia il Calp, “passa dal porto carica di armamenti destinati all’Arabia Saudita per il conflitto in Yemen“.
“Quando abbiamo organizzato la manifestazione era previsto l’arrivo della nave Bahri. Oggi è sparita dai radar. Ma è una cosa normale per queste navi qua, che spengono i radar, spariscono e poi ricompaiono”. A spiegarcelo è un altro lavoratore del Calp, Riccardo Rudino, che poi aggiunge: “Fanno quello che vogliono e si vede chiaramente che possono farlo perché godono di privilegi di cui non godono altre compagnie di navigazione. La nostra battaglia è una battaglia contro il traffico di armi ma soprattutto contro quello che permette di costruire le guerre. E il conflitto in Ucraina è legato al bisogno di vendere armi, produrre armi e costringerci tutti a entrare in quella spirale lì, che non avrà mai una fine”.
Tra i portuali arrivati da Civitavecchia, Livorno e Trieste, gli attivisti, i rappresentanti dei sindacati USB, Cobas, Sì Cobas e OrSA, gli studenti di Osa e Cambiare rotta, i politici e i cittadini comuni, in migliaia da tutta Italia e dall’estero hanno raggiunto il capoluogo ligure in bus o in treno. Da 5.000 a 10.000 persone, a giudicare dal serpentone che ha attraversato per la prima volta il porto di Genova, dal Varco Etiopia a Ponte dei Mille.
“Questo Paese è un Paese assurdo. Il Pd fa le primarie e mette la bandiera della pace accanto a quella ucraina. Non si capisce più niente. In Italia fanno i finti pacifisti e poi votano per la guerra e l’invio delle armi. C’è bisogno di coerenza”.
Non usa mezzi termini Maurizio Acerbo, Segretario nazionale di Rifondazione, anche lui a Genova per la manifestazione del Calp, che ci tiene a ribadire: “Non vedevano l’ora di arrivare al conflitto. È evidente. Si è gettata benzina sul fuoco della crisi ucraina che è partita come guerra civile ed è diventata uno scontro di potenze”. Poi sul Collettivo Autonomo sottolinea che è il modello di cui abbiamo bisogno: “Io credo che il Calp sia un esempio di coscienza di classe, a partire dal rifiuto della guerra”. Un esempio coraggioso in una città che ospita anche importanti industrie di armamenti. E, infatti, Acerbo precisa: “Questa è una delle barbarie del nostro tempo. In Italia abbiamo privatizzato tutto, l’unico settore di forte industria pubblica è quello della produzione di strumenti di guerra e di morte. Non eravamo in grado di produrre le mascherine durante l’emergenza Covid, dobbiamo importare i pannelli solari per fare la transizione ecologica, ma esportiamo armi in tutto il mondo”.
“Questa è l’unica manifestazione che dice con chiarezza no alla guerra, no all’invio di armi, no al traffico di armi, ma che denuncia anche il ruolo che hanno avuto l’Unione Europea e la NATO nell’alimentare questo conflitto”. A dirlo è Maurizio Rimassa, coordinatore regionale di USB, il sindacato di base al quale sono iscritti molto attivisti del Calp e che ha dato il suo appoggio alla manifestazione.
In corteo anche il neo eletto coordinatore provinciale del Movimento Cinquestelle, Stefano Giordano, che sottolinea: “Come Movimento abbiamo tentato con tutte le nostre forze di fermare questa guerra che sta portando a rischio l’intera Europa. Noi siamo qui oggi a rappresentare un’alternativa che né il governo Draghi, né il governo Meloni, hanno tenuto in considerazione, e cioè un tavolo dove veramente si parli di pace e non di inviare ulteriori armi per aumentare il conflitto”.
Il corteo si è concluso in piazza De Ferrari senza scontri né momenti di tensione con le forze dell’ordine, presenti a distanza ma in numero massiccio.
Simona Tarzia
Il mio Buon Proposito per il nuovo anno: lettera di una ex-pacifista (ora non più “ex”)
La lettera natalizia di Martina, ex-pacifista ora decisa a tornare alla lotta, in cui descrive il suo Buon Proposito per il 2023, è di indubbio interesse in questi tempi di guerra, soprattutto alla luce della persecuzione giudiziaria del giornalista/editore e co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange. Eccola quasi per intera.
(…) Voglio condividere con voi il mio Buon Proposito per il nuovo anno: “Non mi lascerò più ingannare dalla tv e dai social media su quello che sta succedendo nel mondo!”
Perché ci sono cascata troppe volte. Come tante persone, del resto.
Mi spiego.
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Nel 2001, quando avevo appena diciott’anni, quasi tutti i mass media dicevano e ripetevano che, se abbiamo invaso e occupato l’Afghanistan, uno Stato sovrano, era perché è stato un atto necessario: primo, per catturare bin Laden, responsabile degli attentati alle Torre Gemelle di New York, e, in secondo luogo, per eliminare i terroristi di al Qaida che avevano le loro basi nell’Est del paese. E io ci ho creduto. Del resto, non c’erano in giro manifestazioni contro l’invasione, tranne per i soliti sparuti gruppetti; tutti sembravano d’accordo.
Poi Julian Assange, su WikiLeaks, e giornalisti investigativi come Seymour Hersh, hanno fatto una serie di rivelazioni che mi hanno aperto gli occhi. Mettendo i vari pezzi del puzzle insieme, ho capito che gli USA (e l’Italia) sapevano benissimo che bin Laden non c’era più in Afghanistan: infatti, i Talibani l’avevano già spedito in Pakistan, dove effettivamente è stato trovato. Sapevano anche che al Qaida in Afghanistan non poneva rischi: dopo averla sfrattata, i Talibani le davano la caccia. Quindi il vero motivo per l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan (durate ben 12 anni!) era un altro: gli USA e i suoi alleati, tra cui l’Italia, volevano sottrarre le risorse minerarie afghane, come il coltan essenziale per l’elettronica. Inoltre volevano impedire il passaggio degli oleodotti dal Caspio verso la Cina, per ostacolare la sua crescita, in quanto potenza rivale. Infine, volevano una base militare permanente in Afghanistan per tenere la Cina sempre sotto pressione. “Allora”, mi sono detta, “questa finta ‘guerra contro il terrore’ in Afghanistan è stata tutto un inganno! I motivi sono puramente economici e geopolitici.” E ho giurato di non lasciarmi più prendere per i fondelli.
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Poi, nel 2003, quasi tutti i media dicevano che dovevamo invadere l’Iraq come “guerra preventiva necessaria”, anche senza l’avallo dell’ONU, in quanto il leader, Saddam Hussein, stava costruendo armi di distruzione di massa da usare contro di noi. Inizialmente ho manifestato contro l’invasione; poi, col passare degli anni, ho accettato la narrativa ufficiale della “guerra preventiva necessaria”. Ho accettato anche la successiva narrativa usata per giustificare il ritorno in Iraq, ovvero la necessità di eliminare il nuovo gruppo terroristico ISIS installatosi lì. Sembravano decisioni che non potevo mettere in discussione.
Ma poi, di nuovo grazie a Julian Assange su WikiLeaks e a giornalisti investigativi come John Greenewald sui mass media minori, ho potuto appurare che gli USA e l’UK (e l’Italia) sapevano benissimo che Saddam non aveva né fabbricava le temute armi. L’occupazione serviva solo per poter sottrarre illecitamente il petrolio iracheno e per distruggere un paese che si opponeva all’espansione israeliana. Inoltre, grazie alla corrispondenza intercettata di Hillary Clinton, Assange ha potuto informarci che, a creare l’ISIS, erano gli Stati del Golfo e verosimilmente gli stessi USA, allo scopo di rovesciare il governo dell’Iraq (troppo amico con l’Iran) e poi il governo della Siria (troppo amico con la Russia). “Stramaledetti!”, mi sono ripetuto, “avete voluto versare il sangue di decine di militari italiani, migliaia di militari statunitensi, e 200.000 civili iracheni soltanto per il petrolio e per la vostra geopolitica! Basta!!”. E ho giurato di non lasciarmi più truffare.
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Ma nel 2011, quasi tutti i media, tante celebrità e persino la Federazione Internazionale dei Diritti Umani, dicevano che dovevamo invadere la Libia “per salvare la popolazione dal crudele dittatore Gheddafi, che li stava ammazzando”. E quindi, nonostante il mio pacifismo (a quel punto vacillante), non mi sono opposta nemmeno a quella guerra. Anzi tifavo per la caduta di Gheddafi, brutale maschilista com’era.
Poi Julian Assange, su WikiLeaks, e giornalisti investigativi come Daniel Kovalik su giornali minori, ci hanno offerto una serie di rivelazioni che, riunite e accostate, capovolgevano completamente la narrazione ufficiale. Erano gli USA e la Francia ad istigare le rivolte armate – sapendo benissimo che sarebbero state represse nel sangue – per avere la scusa di intervenire e di rovesciare il regime. E se poi hanno distrutto l’intero paese, non è stato soltanto per mettere le mani sul petrolio libico, ma anche perché Gheddafi stava convincendo gli altri paesi petroliferi ad abbandonare il dollaro come moneta di scambio, e ciò avrebbe fatto scendere parecchio il valore della divisa statunitense. Oggi la Libia è distrutta ma il dollaro è salvo. “Che ignominia,” mi sono detto, “basta con le guerre economiche fatte passare per guerre umanitarie, non mi lascerò più ingannare.”
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Poi un anno dopo, quasi tutti i media, tante celebrità, diverse associazioni per i Diritti Umani e persino molti esponenti della sinistra o sedicente tale, proclamavano che bisognava assolutamente armare i “ribelli” in Siria e decimare l’esercito di Assad “per salvare i siriani dal loro crudele dittatore che li bombardava persino nelle loro città”. Inoltre, bisognava spazzare via l’ISIS, entrato anche in Siria. E ci ho creduto, in quanto la tv e i giornali non dicevano nulla dei nostri bombardamenti, assai peggiori di quelli di Assad. Guardate come abbiamo ridotto la città di Raqqa; né l’aviazione siriana né quella russa si sono mai avvicinate a Raqqa, questo è il nostro lavoro, devastante quanto il nostro bombardamento criminale di Mosul in Iraq sette mesi prima:
Poi, le rivelazioni di Julian Assange su WikiLeaks, insieme al lavoro dei giornalisti investigativi come il già menzionato Hersh, mi hanno chiarito i veri motivi geopolitici della guerra e anche come il temibile ISIS è nato. Gli USA (insieme ai sauditi, ai qatarioti e ai turchi) l’avevano creato, come ho già accennato, per rovesciare i governi non allineati dell’Iraq e della Siria; ma poi la loro creatura è andata fuori controllo; cominciava a fare attentati anche in Europa; così gli USA hanno deciso di eliminarla, con bombardamenti a tappetto come quelli di Raqqa. “Sempre peggio!” mi sono detto. “Basta fornire armi ai ribelli, tanto più se jihadisti! Basta la violenza per imporre la democrazia! Basta guerra! Non mi lascerò più beffeggiare in questa maniera.”
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E così arriviamo a oggi.
Oggi, quasi tutti i media e tante celebrità e associazioni e quasi tutti gli esponenti della sinistra parlamentare ci dicono che dobbiamo armare gli ucraini, perché difendono il loro paese dall’aggressione russa, compiuta “senza provocazione, senza giustificazione, senza necessità” – cito il Presidente Biden. In pratica, secondo Biden e la Narrativa Ufficiale, il Presidente russo Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina per pura sete di dominio.
Ma le cose stanno proprio così? Oppure, dietro le quinte, c’è forse più di quanto appare nelle descrizioni semplicistiche dei politici e dei mass media? E’ probabile che mentono, come hanno sempre mentito per farci accettare le loro guerre: l’abbiamo appena visto. Ed ecco anche un esempio recentissimo di menzogna di guerra, ovvero le parole pronunciate dalla nostra Premier Meloni in visita per Natale alle truppe italiane in Iraq.
Ciò significa, dunque, per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, che noi possiamo essere abbastanza sicuri soltanto di ciò che NON è successo: ovvero, Putin NON ha agito per pura sete di dominio, “senza provocazione, senza giustificazione, senza necessità”. E possiamo esserne abbastanza sicuri perché i nostri politici e mass media, ormai screditati come megafoni del Pentagono, insistono così tanto sul contrario.
Però rimane la domanda di base: per quale motivo allora Putin ha invaso l’Ucraina? Un successivo articolo indicherà cinque punti fermi da cui possiamo partire alla ricerca della risposta (o, meglio, delle risposte).
Certo, il compito di far chiarezza sulle vere cause del conflitto in Ucraina sarebbe molto più agevole se avessimo al nostro fianco Julian Assange per rivelarci, sul suo sito WikiLeaks, le verità taciute dai nostri leader. Ma Julian è stato sbattuto in carcere dal Regno Unito, senza processo e senza condanna, e confinato ad una minuscola cella in totale isolamento per zittirlo completamente. Da lì verrà poi estradato negli Stati Uniti dove riceverà sicuramente un trattamento ancora peggiore per il resto della sua vita. Per quale delitto? Per aver rivelato non solo i crimini di guerra USA e UK in Afghanistan e in Iraq, che è l’accusa ufficiale, ma anche e soprattutto – apriti Cielo! – per aver rivelato i veri motivi inconfessati dietro quelle guerre, ovvero i motivi indicati qui sopra, quelli che – quando li capisci – ti fanno rifiutare ogni guerra, non importa quanto combattuta (in apparenza) per i diritti umani e per la democrazia.
Così Julian ha rovinato il gioco stra-miliardario del complesso militare-industriale e dei suoi compari (le industrie energetiche, i politici neocon…) che consisteva nel creare tutte quelle illusioni così convincenti, appena rievocate, per poterci “vendere” una serie di guerre criminali come “giuste” e “necessarie”.
Purtroppo, oggi dobbiamo fare a meno di Julian e del sito WikiLeaks nel cercare di capire i retroscena del conflitto in Ucraina e dobbiamo purtroppo fare a meno anche di un certo numero di giornalisti investigativi indipendenti. Ormai sanno che, se rivelano documenti scottanti che gli Stati Uniti volevano tenere nascosti o semplicemente se mettono troppo in discussione la Narrativa Ufficiale sul conflitto ucraino, possono essere perseguitati come Julian o perlomeno censurati e proscritti, com’è capitato al giornalista del Manifesto Manlio Dinucci.
In pratica, dobbiamo imparare a fare da soli. Come?
Assange ci ha fornito la risposta in un discorso diventato famoso, quello di Natale 2012 fatto dal balcone dell’Ambasciata ecuadoregna a Londra: “Learn, challenge, act… now.”
Learn, imparare: dobbiamo smettere di informarci tramite i social media e la TV e trovare il tempo necessario per consultare fonti alternative serie, compresi (per chi sa l’inglese) i TG dei cosiddetti paesi avversari: Press TV (Iran), RT (Russia), CGTN (Cina), Telesur (Venezuela), i quali hanno tutti quanti un canale per anglofoni. Fanno propaganda? Certamente. Come i nostri mass media (l’abbiamo visto qui sopra). L’importante è di ascoltare non una ma diverse fonti di propaganda, per poterle contrastare e così cogliere i costanti. Inoltre, sentire e capire il punto di vista degli altri popoli ci tornerà utile se un giorno dovremo trattare con loro.
Challenge, mettere in discussione: abbiamo visto come le Narrative Ufficiali sui passati conflitti erano falsi, sicuramente quella sul conflitto ucraino lo è anch’essa. Assange ce l’ha detto esplicitamente: “Praticamente ogni guerra che ha avuto luogo in questi ultimi 50 anni è stata il risultato di menzogne perpetrate dai mass media”. Ma invece di scoprire le menzogne sull’Ucraina tra 10 anni quando sarà troppo tardi, impariamo a scoprirle oggi usando, non il scetticismo, ma il dubbio metodico degli scienziati.
Act…Now: diventare attivisti, ora! L’Associazione PeaceLink, con il suo calendario delle attività portate avanti da pacifisti in tutta l’Italia, potrebbe servire da trampolino. Per incontrare dal vivo i pacifisti di tutta l’Italia, ci sarà l’Eirenefest dal 26 al 28 maggio a Roma, oltre alle periodiche marce per la pace, di cui c’è stata una ieri a Bologna. Per chi s’interessa in particolare al problema della libertà di stampa (e della libertà di Julian Assange in quanto giornalista imbavagliato), un punto di riferimento potrebbe essere il gruppo FREE ASSANGE Italia le cui attività vengono descritte qui.
Ecco, dunque, un bel programma da mettere in pratica quest’anno. Un programma che mira a difendere il nostro #DirittoDiSapere, violato di continuo da chi ci governa e che Assange ha cercato di ripristinare rivelando documenti secretati ingiustamente, documenti che invece dovevano essere conosciuti da tutti noi per essere cittadini consapevoli e informati. Perché, citando Julian, “non si può costruire una civiltà equa partendo dall’ignoranza e dalla menzogna.”
Il mio Buon Proposito per quest’anno sarà perciò uno solo, così sarò sicura di mantenerlo. Ed è questo: “Non mi lascerò più ingannare dalla tv e dai social media su quello che sta succedendo nel mondo! Voglio essere una cittadina ben informata e consapevole. Voglio porre fine alla mia ignoranza. Voglio uscire dalla menzogna.”
Spero che sia anche il vostro buon proposito per l’anno nuovo. Felice 2023!
Martina
I 12 punti del piano cinese per la soluzione del conflitto in Ucraina
Riportiamo la traduzione in italiano fornita dall’Ambasciata della Cina in Italia del piano in 12 punti proposto dal Governo Cinese per risolvere il conflitto in Ucraina
1. Bisogna rispettare la sovranità di tutti i Paesi. Deve essere rigorosamente osservato Il diritto internazionale universalmente riconosciuto, compresi gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite. La sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di tutti i paesi devono essere efficacemente sostenute. Tutti i paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri, sono membri uguali della comunità internazionale. Tutte le parti dovrebbero sostenere congiuntamente le norme fondamentali che regolano le relazioni internazionali e difendere l’equità e la giustizia internazionali. Dovrebbe essere promossa un’applicazione paritaria e uniforme del diritto internazionale respingendo i doppi standard.
- Bisogna abbandonare la mentalità della guerra fredda. La sicurezza di un Paese non dovrebbe essere perseguita a spese di altri. La sicurezza di una regione non dovrebbe essere raggiunta rafforzando o espandendo i blocchi militari. I legittimi interessi e preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi devono essere presi sul serio e affrontati adeguatamente. Non esiste una soluzione semplice a un problema complesso. Tutte le parti dovrebbero, seguendo la visione di una sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile e tenendo presente la pace e la stabilità a lungo termine del mondo, contribuire a creare un’architettura di sicurezza europea equilibrata, efficace e sostenibile. Tutte le parti dovrebbero opporsi al perseguimento della propria sicurezza a scapito della sicurezza altrui, prevenire il confronto tra blocchi e lavorare insieme per la pace e la stabilità nel continente eurasiatico.
- Cessare le ostilità. Il conflitto e la guerra non giovano a nessuno. Tutte le parti devono rimanere razionali ed esercitare moderazione, evitare di alimentare il fuoco e aggravare le tensioni e impedire che la crisi si deteriori ulteriormente o addirittura sfugga al controllo. Tutte le parti dovrebbero sostenere la Russia e l’Ucraina nel lavorare nella stessa direzione e riprendere il dialogo diretto il più rapidamente possibile, in modo da ridurre gradualmente la situazione e raggiungere infine un cessate il fuoco globale.
- Riprendere i colloqui di pace. Dialogo e negoziazione sono l’unica soluzione praticabile alla crisi ucraina. Devono essere incoraggiati e sostenuti tutti gli sforzi volti a una soluzione pacifica della crisi. La comunità internazionale dovrebbe rimanere impegnata nel giusto approccio per promuovere i colloqui per la pace, aiutare le parti in conflitto ad aprire la porta a una soluzione politica il prima possibile e creare le condizioni e le piattaforme per la ripresa dei negoziati. La Cina continuerà a svolgere un ruolo costruttivo in questo senso.
- Risolvere la crisi umanitaria. Devono essere incoraggiate e sostenute tutte le misure atte ad alleviare la crisi umanitaria. Le operazioni umanitarie dovrebbero seguire i principi di neutralità e imparzialità e le questioni umanitarie non dovrebbero essere politicizzate. La sicurezza dei civili deve essere efficacemente tutelata e devono essere istituiti corridoi umanitari per l’evacuazione dei civili dalle zone di conflitto. Sono necessari sforzi per aumentare l’assistenza umanitaria nelle aree interessate, migliorare le condizioni umanitarie e fornire un accesso umanitario rapido, sicuro e senza ostacoli, al fine di prevenire una crisi umanitaria su scala più ampia. Le Nazioni Unite dovrebbero essere sostenute nel svolgere un ruolo di coordinamento nell’incanalare gli aiuti umanitari nelle zone di conflitto.
- Protezione dei civili e dei prigionieri di guerra (POW). Le parti in conflitto dovrebbero rispettare rigorosamente il diritto internazionale umanitario, evitare di attaccare civili o strutture civili, proteggere donne, bambini e altre vittime del conflitto e rispettare i diritti fondamentali dei prigionieri di guerra. La Cina sostiene lo scambio di prigionieri di guerra tra Russia e Ucraina e invita tutte le parti a creare condizioni più favorevoli a tale scopo.
- Mantenere sicure le centrali nucleari. La Cina si oppone agli attacchi armati contro le centrali nucleari o altri impianti nucleari pacifici e invita tutte le parti a rispettare il diritto internazionale, inclusa la Convenzione sulla sicurezza nucleare (CNS), ed evitare risolutamente incidenti nucleari provocati dall’uomo. La Cina sostiene l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) nel svolgere un ruolo costruttivo nella promozione della sicurezza e della protezione degli impianti nucleari pacifici.
- Riduzione dei rischi strategici. Le armi nucleari non devono essere utilizzate e le guerre nucleari non devono essere combattute. La minaccia o l’uso di armi nucleari dovrebbe essere contrastata. La proliferazione nucleare deve essere prevenuta e la crisi nucleare evitata. La Cina si oppone alla ricerca, allo sviluppo e all’uso di armi chimiche e biologiche da parte di qualsiasi paese e in qualsiasi circostanza.
- Facilitare le esportazioni di grano. Tutte le parti devono attuare pienamente ed efficacemente, in modo equilibrato, l’iniziativa per i cereali del Mar Nero firmata da Russia, Turchia, Ucraina e Nazioni Unite e sostenere le Nazioni Unite affinché svolgano un ruolo importante in tal senso. L’iniziativa di cooperazione sulla sicurezza alimentare globale proposta dalla Cina fornisce una soluzione fattibile alla crisi alimentare globale.
- Stop alle sanzioni unilaterali. Sanzioni unilaterali e massima pressione non possono risolvere la questione ma creano solo nuovi problemi. La Cina si oppone alle sanzioni unilaterali non autorizzate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I paesi interessati dovrebbero smettere di abusare delle sanzioni unilaterali e della “giurisdizione a braccio lungo” contro altri paesi, in modo da fare la loro parte per ridurre la crisi ucraina e creare le condizioni affinché i paesi in via di sviluppo possano far crescere le loro economie e migliorare la vita della loro gente.
- Mantenere stabili le catene industriali e di approvvigionamento. Tutte le parti dovrebbero mantenere seriamente l’attuale sistema economico mondiale e opporsi all’uso dell’economia mondiale come strumento o arma per scopi politici. Sono necessari sforzi congiunti per mitigare le ricadute della crisi e impedire che interrompa la cooperazione internazionale nei settori dell’energia, della finanza, del commercio alimentare e dei trasporti e comprometta la ripresa economica globale.
- Promuovere la ricostruzione postbellica. La comunità internazionale deve adottare misure per sostenere la ricostruzione postbellica nelle zone di conflitto. La Cina è pronta a fornire assistenza e svolgere un ruolo costruttivo in questo sforzo.
La strage di Odessa, una delle vicende più controverse della storia ucraina – Alessandro Marescotti
Cosa risponde (con grande reticenza) la piattaforma di Intelligenza artificiale Chat GPT
Le vittime dell’incendio alla Casa dei Sindacati erano attivisti filo-russi che protestavano contro il governo ucraino. Era il 2 maggio del 2014. Amnesty International ha denunciato l’impunità per i responsabili di violazioni dei diritti umani durante la tragedia di Odessa.
A.M. Mi fai una sintesi in italiano di questo documento dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights? Il documento si intitola “Report on the human rights situation in Ukraine”, 15 June 2014.
Il rapporto dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights, intitolato “Report on the human rights situation in Ukraine” e datato 15 giugno 2014, presenta una sintesi della situazione dei diritti umani in Ucraina nel periodo che va dal 2 marzo al 15 giugno 2014.
Il rapporto rileva una serie di violazioni dei diritti umani, tra cui omicidi, torture, detenzioni arbitrarie, restrizioni della libertà di espressione e di associazione, discriminazione etnica e religiosa, violenza sessuale e altre forme di abuso contro i civili. Inoltre, si segnalano anche violazioni commesse dalle forze di sicurezza e dai gruppi armati non governativi, compresi i separatisti filo-russi nell’est del paese.
Il rapporto sottolinea la necessità di garantire il rispetto dei diritti umani in Ucraina e di prevenire ulteriori violazioni, invitando le autorità ucraine a indagare e perseguire i responsabili di questi crimini. Il rapporto invita inoltre la comunità internazionale a sostenere gli sforzi per promuovere e proteggere i diritti umani in Ucraina.
A.M. Cosa dice sulla strage di Odessa?
Il rapporto dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights del 15 giugno 2014, intitolato “Report on the human rights situation in Ukraine”, menziona la tragedia di Odessa avvenuta il 2 maggio 2014, in cui sono morte 48 persone e centinaia di altre sono rimaste ferite.
Il rapporto fornisce una descrizione dei fatti, riferendo che durante una manifestazione a sostegno dell’unità dell’Ucraina, avvenuta nella città di Odessa, si sono verificati violenti scontri tra i manifestanti e i sostenitori dell’autonomia della Crimea e dei separatisti filo-russi. In seguito a questi scontri, un edificio è stato dato alle fiamme, provocando la morte di diverse persone, molte delle quali sono rimaste intrappolate all’interno.
Il rapporto dell’ONU esprime profonda preoccupazione per la situazione e invita le autorità ucraine a indagare con urgenza sulla tragedia di Odessa e a garantire il diritto alla giustizia per le vittime e le loro famiglie. Il rapporto sottolinea inoltre l’importanza di evitare l’impunità per i responsabili di tali atti di violenza e di garantire che i diritti umani di tutte le persone coinvolte siano rispettati.
A.M. Chi ha dato alle fiamme quell’edificio? I morti a quale fazione appartenevano?
Secondo il rapporto dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights del 15 giugno 2014, intitolato “Report on the human rights situation in Ukraine”, non è stato possibile determinare in modo chiaro chi abbia dato alle fiamme l’edificio in cui si sono verificate le morti durante la tragedia di Odessa del 2 maggio 2014.
Il rapporto afferma che le indagini condotte dalle autorità ucraine hanno rivelato che le persone coinvolte nell’incendio e nella violenza appartenevano a gruppi di manifestanti filo-ucraini e filo-russi. Tuttavia, non è stato possibile stabilire con certezza la responsabilità per l’incendio e le morti.
Il rapporto sottolinea che la mancanza di una chiara indagine sulle cause e le circostanze dell’incendio ha alimentato la sfiducia nei confronti delle autorità ucraine e ha contribuito a una situazione di tensione nel paese. Il rapporto invita pertanto le autorità ucraine a garantire che le indagini sulle circostanze della tragedia di Odessa siano portate avanti in modo imparziale e trasparente, con l’obiettivo di garantire il diritto alla giustizia per le vittime e le loro famiglie.
A.M. Ma chi è stato ucciso era filo-ucraino o filo-russo?
Secondo il rapporto dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights del 15 giugno 2014, intitolato “Report on the human rights situation in Ukraine”, le persone che hanno perso la vita durante la tragedia di Odessa del 2 maggio 2014 erano di diverse fazioni e provenienze.
Il rapporto indica che le persone coinvolte nell’incendio e nella violenza appartenevano a gruppi di manifestanti filo-ucraini e filo-russi. Inoltre, il rapporto riferisce che le persone decedute erano di diverse origini, tra cui ucraini, russi e tataro di Crimea.
Tuttavia, il rapporto non fornisce informazioni specifiche sulle fazioni politiche o etniche a cui appartenevano le persone che sono state uccise durante la tragedia di Odessa. Il rapporto sottolinea invece l’importanza di garantire il rispetto dei diritti umani di tutte le persone coinvolte nel conflitto in Ucraina, senza discriminazione di alcun tipo.
A.M. Le autorità ucraine hanno celebrato un processo?
Secondo il rapporto dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights del 15 giugno 2014, intitolato “Report on the human rights situation in Ukraine”, non è stato ancora celebrato un processo giudiziario in merito alla tragedia di Odessa del 2 maggio 2014.
Il rapporto indica che le autorità ucraine hanno avviato indagini sulle circostanze della tragedia di Odessa, ma tali indagini sono state criticate per la loro lentezza e la loro mancanza di trasparenza. Il rapporto dell’ONU esorta le autorità ucraine a portare avanti le indagini in modo trasparente e imparziale, con l’obiettivo di garantire il diritto alla giustizia per le vittime e le loro famiglie.
Tuttavia, al momento della pubblicazione del rapporto, non era stato ancora celebrato un processo giudiziario in merito alla tragedia di Odessa e le indagini erano ancora in corso. Successivamente, nel 2015, le autorità ucraine hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale sulla tragedia di Odessa, ma la questione della responsabilità per i fatti del 2 maggio 2014 è ancora oggetto di controversia e non è stata ancora pienamente risolta.
A.M. Ma dopo il 2015 l’indagine penale ha portato a un processo?
Non sono in grado di fornire informazioni aggiornate sulla situazione dopo il 2015, in quanto la mia conoscenza è limitata al 2021. Tuttavia, al momento del mio ultimo aggiornamento, il rapporto dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights del 15 giugno 2014, intitolato “Report on the human rights situation in Ukraine”, indicava che non era stato ancora celebrato un processo giudiziario in merito alla tragedia di Odessa del 2 maggio 2014 e le indagini erano ancora in corso.
Successivamente, le autorità ucraine hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale sulla tragedia di Odessa nel 2015. Non è chiaro se tale indagine abbia portato a un processo giudiziario e, in caso affermativo, qual è stata l’esito del processo.
Tuttavia, la questione della responsabilità per la tragedia di Odessa è ancora oggetto di controversia e non è stata ancora pienamente risolta, nonostante gli appelli di organizzazioni internazionali per garantire un’indagine imparziale e trasparente al fine di stabilire la verità e garantire il rispetto dei diritti umani di tutte le parti coinvolte.
A.M. Cosa ha detto Amnesty International?
Amnesty International ha monitorato la situazione dei diritti umani in Ucraina, incluso il caso della tragedia di Odessa del 2 maggio 2014. In una serie di rapporti pubblicati nel corso degli anni, Amnesty International ha sollevato diverse preoccupazioni in merito alla mancanza di indagini imparziali e trasparenti sulle violazioni dei diritti umani commesse durante la tragedia di Odessa e in altre parti del paese.
In particolare, Amnesty International ha denunciato l’impunità per i responsabili di violazioni dei diritti umani durante la tragedia di Odessa e ha sollecitato le autorità ucraine ad avviare indagini efficaci, imparziali e trasparenti sulle circostanze della tragedia e ad assicurare giustizia per le vittime e i loro familiari.
Nel 2019, Amnesty International ha pubblicato un rapporto intitolato “Ucraina: le vittime delle violazioni dei diritti umani durante il conflitto devono avere giustizia e riparazione”, in cui ha denunciato che le autorità ucraine non avevano fatto abbastanza per garantire l’accesso alla giustizia, la verità e la riparazione per le vittime della violenza legata al conflitto in Ucraina, tra cui la tragedia di Odessa.
In generale, Amnesty International ha sottolineato l’importanza di garantire il rispetto dei diritti umani di tutte le persone coinvolte nel conflitto in Ucraina, senza discriminazione di alcun tipo, e ha sollecitato le autorità ucraine ad adottare misure concrete per garantire la giustizia, la verità e la riparazione per le vittime delle violazioni dei diritti umani.
A.M. E HRW cosa ha detto?
Human Rights Watch (HRW) è un’altra organizzazione internazionale che monitora la situazione dei diritti umani in Ucraina e ha pubblicato diversi rapporti sull’argomento.
In particolare, HRW ha pubblicato un rapporto intitolato “Field of Nightmares: Alleged Crematorium at Donetsk Filtration Station” nel 2018, in cui ha indagato sulle violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto armato in Ucraina, compreso il caso della tragedia di Odessa del 2 maggio 2014.
HRW ha denunciato l’impunità per i responsabili delle violazioni dei diritti umani in Ucraina, compresa la mancanza di indagini credibili sulla tragedia di Odessa, e ha sollecitato le autorità ucraine ad adottare misure concrete per garantire l’accesso alla giustizia e la protezione dei diritti umani di tutte le persone coinvolte nel conflitto.
Inoltre, HRW ha esortato la comunità internazionale a fare di più per proteggere i diritti umani in Ucraina e ad adottare misure efficaci per garantire la responsabilità per le violazioni dei diritti umani commesse nel paese.
In generale, HRW ha sottolineato l’importanza di garantire il rispetto dei diritti umani di tutte le persone coinvolte nel conflitto in Ucraina, compresi i civili, e ha sollecitato le autorità ucraine e la comunità internazionale a fare di più per proteggere i diritti umani e prevenire le violazioni dei diritti umani nel paese.
A.M. Qual è la causa della mancanza di indagini credibili sulla tragedia di Odessa? Sia HRW sia Amnesty International hanno sollevato il problema. Ma non capisco perché le autorità ucraine non abbiano avviato indagini credibili sulla strage di Odessa..
Le ragioni per cui le autorità ucraine non hanno avviato indagini credibili sulla tragedia di Odessa sono complesse e dipendono da molteplici fattori.
Uno dei principali problemi è rappresentato dalla mancanza di volontà politica delle autorità ucraine di perseguire i responsabili della violenza e di garantire la giustizia per le vittime della tragedia di Odessa. Inoltre, l’instabilità politica e il conflitto armato che hanno caratterizzato la situazione in Ucraina negli anni successivi alla tragedia hanno reso difficile la gestione del caso.
Inoltre, secondo alcune organizzazioni internazionali come HRW e Amnesty International, ci sono stati problemi legati alla mancanza di indipendenza e imparzialità del sistema giudiziario ucraino e alla presenza di corruzione e di interferenze politiche nelle indagini sul caso di Odessa e su altre violazioni dei diritti umani commesse in Ucraina.
Infine, la complessità del caso e la mancanza di prove concrete su chi abbia esattamente causato la tragedia di Odessa e su chi ne sia responsabile potrebbero aver reso più difficile avviare indagini credibili e ottenere giustizia per le vittime.
A.M. Quest’ultima frase è una tua supposizione o è ciò che hanno scritto HRW e Amnesty?
La mia ultima frase era una mia supposizione, e non una conclusione riportata da Amnesty International o HRW.
In realtà, sia Amnesty International sia HRW hanno criticato le autorità ucraine per la mancanza di volontà politica nell’indagare sulla tragedia di Odessa e per i problemi di indipendenza e corruzione nel sistema giudiziario del paese. Tuttavia, non hanno fatto specifici riferimenti alla mancanza di prove concrete o alla complessità del caso come motivi per la mancanza di indagini credibili.
A.M. Perché c’è mancanza di volontà politica nel chiarire un fatto così grave?…
Sanguinosa guerra di logoramento in Ucraina. Prima parte
Sanguinosa guerra di logoramento in Ucraina. Seconda parte
Cul-de-sac – Enrico Tomaselli
Mentre le classi dirigenti europee fanno tristemente mostra di una smisurata pavidità nei confronti di Washington, negli Stati Uniti cresce invece il dibattito – e lo scontro politico – tra le due attuali fazioni (trasversali) del bellicismo imperialista: i russofobi neocon ed i super-falchi anti-cinesi.
Il punto di partenza, anche se i primi tendono ovviamente a nasconderlo, è la consapevolezza che la strategia messa in atto in Ucraina contro la Russia si è rivelata un fallimento, politico e militare. Per i neocon ciò significa che bisogna rilanciare, alzare il livello dello scontro, sino a portarlo – se necessario – ai limiti di un nuovo conflitto mondiale. Mentre per i secondi significa trovare il prima possibile una via d’uscita dal pantano ucraino, cercando di salvare la faccia (e non solo quella) e prepararsi per lo scontro con Pechino.
* * * *
Due errori
Può apparire tragicamente incredibile, ma in fondo all’origine del prolungamento del conflitto ucraino ci sono due clamorosi errori; uno, politico, di Mosca, ed uno, militare, di Washington.
È ormai abbastanza chiaro che, nel momento in cui la Russia dava il via all’Operazione Speciale Militare, l’obiettivo era quello di forzare la mano (non solo a Kiev, ma anche e soprattutto agli europei ed a Washington), portandoli rapidamente ad un tavolo di trattativa, con l’intento di ottenere ciò che non era stato possibile avere sino a quel momento: autonomia per il Donbass, riconoscimento della Crimea come parte della Federazione Russa, e garanzia di sicurezza (no all’Ucraina nella NATO).
Quello che Mosca non aveva colto è che negli USA era prevalsa la corrente più oltranzista, che puntava allo scontro militare, e che i paesi europei non avevano alcuna capacità di ritagliarsi una qualche autonomia, e quindi la prospettiva era semplicemente irrealistica. Errore politico.
D’altro canto, le mosse militari della fase inziale della OSP, per certi versi incomprensibili e confuse, hanno generato negli states la convinzione che le forze armate russe fossero decisamente non all’altezza, e quindi piuttosto che con la strategia di guerriglia (con cui la NATO pensava di impegnare i russi, e che effettivamente caratterizzò la primissima tattica ucraina), si poteva batterle in una guerra aperta. Errore militare.
Si tratta in entrambe i casi di errori clamorosi – e non solo per le conseguenze. Il fatto che la leadership del Cremlino, certo non composta da sprovveduti, anzi (uno su tutti, un personaggio di indubbia levatura come Lavrov), abbia potuto non cogliere ciò che si stava muovendo in campo occidentale, in quale direzione e con quanta determinazione, è stupefacente. E sì che si trattava a quel punto di una storia abbastanza lunga, dal golpe di piazza Maidan all’addestramento NATO dell’esercito ucraino, dai finti accordi di Minsk alle tre grandi esercitazioni NATO in Ucraina nel solo 2021, dall’aggressione alle repubbliche del Donbass all’ostinato rifiuto di accettare qualsiasi discussione sulla sicurezza in Europa.
Ugualmente, lascia stupiti che al Pentagono si siano fatti ingannare così clamorosamente sulle capacità militari della Russia, e del resto anche della stessa Ucraina. E, conseguentemente, persino sulle proprie e su quelle della NATO nel suo complesso.
La conclusione – sconcertante – è che entrambe le potenze sono arrivate ad un passo dallo scontro diretto (peraltro ancora niente affatto escluso) senza conoscersi e comprendersi davvero.
Da questo clamoroso e reciproco misunderstanding, ha preso avvio la pericolosa spirale che ancora avviluppa l’Europa. Il cui unico aspetto positivo è che, per come si sono messe le cose, la prospettiva della sirianizzazione del conflitto è definitivamente cancellata. Le possibilità di cronicizzare la guerra, congelandola in una lunga stagione di guerriglia ucraina, con i nazisti locali nel ruolo dell’Isis, è tramontata quando Washington (e Londra…) hanno convinto Zelensky che con l’appoggio NATO avrebbe potuto vincere, spingendo gli ucraini a cacciarsi in un tunnel senza uscita. O meglio, in fondo al quale c’è un gigantesco tritacarne.
Ma se per Kyev la partita ha ormai una portata drammatica, essendo in gioco non più soltanto l’integrità territoriale del paese, ma la sua stessa sopravvivenza (1), anche per i suoi sponsor la faccenda si sta facendo seria. Per dirla con le parole di Alastair Crooke (ex diplomatico britannico, fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut), “il palloncino ucraino è scoppiato. Lo sanno gli ambienti militari e civili di Washington. L’elefante nella stanza dell’inevitabile successo russo è riconosciuto (…). Sanno anche che il pallone della NATO (come forza formidabile) è scoppiato. Sanno che è scoppiato anche il pallone della capacità industriale occidentale di fabbricare armi – in quantità sufficiente e per una lunga durata”…
L’Impero vacilla – Rosso Malpelo
La visita lampo del presidente degli Stati Uniti a Kiev non è una dimostrazione di forza, bensì di debolezza (soprattutto se concordata preventivamente con il Cremlino). In altri tempi, consapevoli della propria potenza, gli USA non avrebbero mai giocato una partita strategica sull’orlo del baratro. Oggi lo stanno facendo, cacciandosi sempre più in un vicolo cieco, senza alcuna strategia d’uscita, ciò rappresenta in effetti l’evidenza di una debolezza strutturale dell’Impero che, partendo da una finanza fuori controllo, passando per un’economia sempre più asfittica, percepisce il rischio di perdere, con un crollo drammatico, quell’egemonia planetaria che dalla caduta dell’Unione Sovietica ha inebriato le élite americane, portandole a concepire un secolo di predominio globale, tramite il PNAC (Project for the New American Century) elaborato da quei think tank denominati neocon, che negli anni hanno infiltrato entrambi gli schieramenti politici USA e, nell’ultimo periodo, soprattutto i democratici. Il PNAC è un concetto che richiama tristemente alla memoria il Reich millenario immaginato da Hitler.
Tutta la strategia messa in atto a partire dalla grande crisi economica del 2007 è stata volta a guadagnare tempo, prima con la creazione di un fiume di denaro dal nulla riversato in un settore finanziario-speculativo divenuto too-big-to-fail, poi s’è cercato, con la crisi pandemica, di raffreddare l’economia ed al contempo drenare denaro verso i colossi di big pharma controllati dai soliti fondi d’investimento. Dall’anno scorso si tenta di distogliere l’attenzione dall’economia per focalizzarla sullo scontro, cercato e provocato, con la Federazione Russa, ottenendo il salvataggio in extremis dell’industria estrattiva americana che rischiava di trascinare le banche creditrici in una crisi fatale. Così l’Europa è stata costretta, nel giro di poco tempo, a rinunciare ai combustibili fossili russi a buon mercato per approvvigionarsi dagli USA con il loro shale gas, molto più costoso ed inquinante, subendo un ulteriore drenaggio di denaro, grazie anche ad un atto di vero e proprio terrorismo nei confronti del gasdotto North Stream. In ultimo, con la fornitura imposta di armi all’Ucraina, sono stati svuotati gli arsenali europei al fine di favorire soprattutto l’industria bellica americana grazie all’aumento delle spese militari da parte dei paesi europei, costituendo anche questo un ennesimo drenaggio di denaro dall’economia europea a quella americana.
Gli imperatori del passato imponevano maggiori gabelle alle provincie sottoposte per rimpinguare le casse dell’impero ed armare il proprio esercito, gli USA stanno facendo essenzialmente lo stesso usando mezzi meno coercitivi, ma altrettanto efficaci.
La speranza imperiale non è di sconfiggere militarmente la Russia, ma di rimanere in piedi senza crollare sotto il peso dei propri debiti, per prepararsi al confronto decisivo con la Cina. Se per questo sarà necessario sacrificare l’Europa trasformandola in un campo di battaglia, stiamo pur certi che le élite neocon non si faranno scrupoli.
Secoli di predominio mondiale hanno forgiato nell’Occidente una presunzione illimitata nelle proprie capacità, favorendo l’errore fatale di sottovalutazione degli altri popoli. Nel XXI secolo armi e tecnologia non sono più ad esclusivo appannaggio dell’Occidente, inoltre la demografia ci vede soccombenti. Ma la superbia dei nostri demiurghi è tale da renderli ciechi e folli, mentre soffiano sul fuoco della terza guerra mondiale.
La Guerra e la terra di Lilliput – Alessio Galluppi
Bakhmut cittadina di poco più di 72 mila abitanti situata nell’Oblast di Donec’k, e Zelensky la voce stridente dell’Occidente.
Il 24 febbraio prossimo sarà un anno che il conflitto sotto traccia, solcato dalla disperata cavalcata dell’Occidente verso l’Oriente, è sfociato in conflitto militare aperto. Un conflitto denso di incognite, che l’Occidente, nonostante le sue strategie messe in atto soprattutto negli ultimi 13 anni, non riesce a venirne a capo.
Biden si reca a Kiev a rassicurare che il mondo è con l’Ucraina, le democrazie sono a fianco dell’Ucraina, perchè l’America è al fianco degli Ucraini.
Uno <<sfavillante>> Zelensky, così lo descrive il giornale ”la Repubblica”, durante l’incontro con Biden conferma che l’Ucraina sta vincendo per la rafforzata ed ostinata volontà del suo popolo a resistere. Usa come esempio gli esiti sul campo di battaglia degli ultimi giorni, proponendo come emblema proprio quanto accade a Bakhmut, teatro di aspri combattimenti tra le forze militari russe e ucraine per il controllo strategico lungo il corso del fiume Bakhmutka, affluente del Dnepr. La cittadina si è svuotata, la maggior parte della popolazione è fuggita per scappare alle conseguenze della guerra. Zelensky dichiara che essa, a causa dei colpi della artiglieria russa, è ridotta ad un cumolo di rovine, nonostante tutto con poche migliaia è decisa a resistere a costo della vita.
Ma quali sono i caratteri di questa popolazione, composta originariamente, a seconda dei censimenti del governo centrale di Kiev, qual’è la storia di questa città?
Se indaghiamo con lo sguardo obiettivo i conti non tornano. La città ha origini antiche quando lo Zar Ivan fece costruire una cittadella fortificata per proteggere i confini del sud della Rus’, ormai Moscovia, dai continui raid operati dalle forze dell’Orda d’Oro e del Khanato di Crimea. Nella storia moderna dal 1924 al 2016 essa ebbe fino al 2016 una diversa denominazione Ucraina: Artemivsk. La cittadina già fu luogo di combattimenti tra le forze militari separatiste locali e l’esercito nazionale di Kyev durante l’estate del 2014, quando a seguito dei fatti di piazza Maidan nel Donetc’s e nel sud est Ucraino si infiammarono i moti separatisti e autonomisti. Quello che si puó ricostruire circa la storia recente di questa città è controverso. Nelle elezioni politiche del 2012 vinte dal Partito delle Regioni (del Presidente Yanukovic che quelle elezioni le vinse, e che poi fu costretto a dimettersi dalle rivolte di piazza Kieviana del dicembre 2013 e inizio 2014), lo stesso partito, di orientamento “euroscettico” e favorevole ad una ampia autonomia dei vari Oblast, si affermó con il 72% dei voti. Evidentemente se a Kiev e in Volina e Galizia pulsava una forza ribelle nazionalista che guardava alle forze del mercato ad Occidente ed ai suoi circuiti finanziari, gran parte del paese non era proprio di questo l’umore, e non lo era soprattutto nelle regioni dell’ Est del paese e nel Donbass dove ancora era forte la catena economica del mercato, che via carbone e via gas, guardava ad un “cartello” di alleanza tra produttori di materie prime energetiche con le corporation economiche Russe. A Kiev, Galizia, Volina, Donetc’s e Lughansk i lavoratori tutti attratti lungo le catene della produzione del valore.
Secondo gli ultimi censimenti precedenti ai fatti che vanno dal 2014 ad oggi, a Bakhmut / Artemivsk la popolazione era così composta:
- 69% Ucraini
- 27% Russi
- 4% altri gruppi (Bielorussi, Armeni, Rom, Ebrei).
Raggruppati per lingua:
- 62% Russo come prima lingua
- 35% Ucraino come prima lingua
- 3% altri gruppi etno linguistici
Allora a ben vedere, i conti non tornano; nella narrazione che Zelensky afferma di fronte al “capo supremo” dell’Occidente e al mondo qualche cosa non quadra.
Primo fra tutti le categorie di Ucraini e Russofoni, Ucraini e Russi residenti in Ucraina.
Qual’è il tratto che definisce l’Ucraino e il Russofono? Evidentemente per un Ucraino di Bakhmut che si definisce o si definiva etno linguisticamente Ucraino di lingua Russa, risulta incomprensibile la denominazione di “Russofono” così come il carattere distintivo di “Ucraino” che a Kiev o a Leopoli va per la maggiore. Le definizioni che vanno per la maggiore lì e qui sono maleodoranti e puzzano di sciovinismo e di una visione eurocentrica ed orientalista dal punto di vista Occidentale, per cui l’Ucraino che si dichiarava etno linguisticamente di lingua “Russa” (ora non può più, perché vietato dai governi succedutesi a Kiev dal 2014 in poi) è qualcosa di alieno cancellato nella sua specificità dal mercato e dalla guerra, da quella forza impersonale che Kostomarov nel 1861 definiva come circostanze della storia al riguardo dei due popoli russi.
A scanso di equivoci: le forze impersonali del mercato sono più forti di qualsiasi tradizione e di qualsiasi eredità culturale e “nazionale” del passato, il mercato ha la capacità di forgiare una identità asservendola alle necessità della accumulazione e della sua concentrazione laddove la forza economica attrae come un magnete il ferro. È già successo e per l’Ucraina non sarà più possibile tornare a quello che era prima del 2014, del 2001, del 1991, del 1939, del 1921, del 1917, quando a questa data essa era da secoli sradicata in due, la parte Occidentale sotto il dominio Polacco-Lituano, poi Prussiano Tedesco ed infine sotto il tallone di ferro della finanza imperialista. L’altra parte viveva la sua complicata identità come popolo produttore di grano della Piccola Russia, che lo rendeva vicino alle vicende del popolo del mir della Grande Russia.
Le circostanze della storia hanno determinato nuove condizioni che inevitabilmente negano la possibilità di un ritorno al passato. Se il torto storico di Putin è quello di riferirsi al presente – dove l’Occidente è costretto a ridurre la Russia come mero paese produttore di materie prime – guardando al passato svanito per sempre; quello dei leader Occidentali e di Zelensky è di rinnegare le verità delle circostanze della storia.
Dunque Zelensky mente, ossia nasconde le verità storiche dietro una serie di mattoni bugiardi erigendo un muro.
Zelensky è la cattiva coscienza conseguente dell’Occidente, dell’Italia e dell’Europa che per puntare l’Oriente hanno trasformato l’Ucraina nelle proprie truppe ascare da sacrificare sul mattatoio della guerra. Zelensky si fa sfoggio di fronte all’Occidente del sacrificio della sua gente di cui non conosce il passato recente e la labile eredità culturale e materiale che essa contiene in un vaso composito riempitosi attraverso secoli, generazioni e nel secolo precedente.
Zelensky appare coraggioso perchè, al di là del “mondo unito” al fianco dell’Ucraina, l’Occidente e soprattutto l’America non trova nel mondo reale, nel capitalismo reale, le basi materiali per la applicazione pratica della sua strategia a lungo inseguita. Sembra svettare come un gigante, perchè l’Europa e l’America sono alle prese con i loro limiti e con l’isolamento da parte del resto del mondo che non intende sposarne la causa.
Allora Biden continua a recitare una parte che non riesce a sostenere e fa recitare il “giullare”. Al tempo stesso non puó cambiare copione e lascia Zelensky a prendere il centro della scena, declamando certezza nella vittoria, ma richidendo coerenza nella guerra contro l’Oriente e la Russia cui l’Occidente non riesce a dare seguito con la conseguenza delle premesse promesse già dal 2012 / 2014, tantomeno puó fare un dietrofont immediato totale. Come nel paese di Lilliput, tutti mentono e plaudono alla menzogna.
La tenacia armata dei produttori della materie prime energetiche, un cartello capitalista che si muove tra Mosca e Riad e che potrebbe anche lusingare Tel Aviv (in preda ad una crisi sociale che colpisce la sua coesione nazionale come Stato Sionista) è una corda di cuoio dura da masticare. Mentre Cina osteggia apertamente, India, Pakistan parte dell’Asia e dell’Africa in crescita voltano le spalle all’Occidente.
Nel frattempo lavoratori, uomini, donne, bambini, immigrati e la povera gente soffrono le morti per una guerra che non si sa per quale popolo si combatta: “Ucraino, Russofono, Filo Russo, Ucraino di lingua Russa”, per le minoranze Kazare, Tatare, Turche, Ebree, Rom, Moldave e Bielorusse della cosiddetta Ucraina, per il vaso composito delle popolazioni di Bakhmut?
Lo stesso vale per i soldati coscritti di entrambi fronti.
In tutto questo solo una cosa avrebbe senso da fare qui, nel cuore della decrepita Europa e nell’Italia, che si vantano del loro liberalismo democratico storico (che gronda sangue della violenza coloniale lunga di 500 anni). In questa guerra, che si manifesta nella forma più violenta per un solco già arato anni prima del 24 febbraio 2022 e che la crisi dell’Occidente per l’emergente concorrenza dal continente Asiatico ha accelerato, ecco sarebbe necessario chiarire il 24 febbraio 2023, in ogni modo possibile e nelle piazze confuse e incoerenti che “anelano” preoccupate pace, che bisognerebbe opporsi con tutte le forze alla partecipazione dell’Italia alla guerra, una partecipazione che era in essere prima del 24 febbraio 2022 e continua oggi inviando le armi e gli aiuti militari al governo Ucraino. Ma l’anelito di pace sembra più rivolto a salvare l’Europa dal declino della sua partecipazione al dominio del mercato, sperando di salvare il salvabile dalla società che culla della democrazia liberale che per secoli e nel XX secolo in nome della civiltà ha saccheggiato il mondo.
Il modo di produzione capitalistico basato sulla più aspra e violenta concorrenza sul mercato mondiale e sullo sfruttamento dell’uomo e della natura non trova soluzioni alle sue contraddizioni, e con questa impossibilità anche il concorrente che resiste ad Oriente è destinato all’unico e comune logoramento, in quanto complementare nella comune e generale catena mondiale del valore e dello sfruttamento. Confidenti in questo, altre alternative non vi sono, se non la continuazione della barbarie.
Quindi rimane almeno nell’immediato la necessità di denunciare, senza se e senza ma, senza alcuna timidezza, nettamente l’Italia e il suo governo impegnato a piene mani nella campagna militare, inviando armi all’Ucraina ed adoperandosi con tutti i mezzi e per interesse proprio a sostenerla – come parte dell’Occidente – anche attraverso le iniziative economiche, politiche e diplomatiche, il cui unico esito certo è il perdurare della guerra e del suo macello in un tempo davvero lungo, per la conservazione della reazionaria Europa (al suo canto del cigno), culla del capitalismo e dell’oppressione degli sfruttati ed i lavoratori di ogni nazione, religione e colore, “modello” che per forza storica ha forgiato il resto del mondo a sua immagine e somiglianza attraverso le trame del mercato.
Gli applausi de il manifesto per Biden e Meloni – Fabrizio Poggi
Ogni tanto mi ritrovo a comprare il manifesto. Non che pensi di trovarci chissà che. Un po’ per vecchie abitudini dure a morire; un po’ perché, guardando i titoli online, a prima vista mi paiono accattivanti: d’altronde, la specialità de il manifesto sono proprio i titoli.
Insomma, ieri c’erano il discorso alla nazione di Vladimir Putin e tutta la sceneggiata di Meloni che a Kiev dava il cambio a Biden, spostatosi a Varsavia per rivolgersi «un’altra volta ai russi».
Così l’ho comprato, il manifesto, ma mi sono limitato a questi tre temi; dopo di che è passata ogni voglia di leggere altro.
Il confronto tra i servizi è illuminante sulle “convinzioni” di via Bargoni: tanto sbeffeggiante il primo, nei confronti delle «prevedibili accuse» di Putin «all’”Occidente” e all’Ucraina», quanto ossequioso e mieloso il secondo verso la Meloni, secondo la quale «in Ucraina è in atto un processo accomunabile all’Ottocento italiano».
Tanto irridente il primo verso il Presidente russo, la cui parole «seguono un copione già impiegato più volte in questo anno di guerra», quanto “toccante” il servizio (al servizio di chi?) da Varsavia, dove l’arrivo di Biden è «stato un evento molto sentito in tutto il paese».
Ora, una volta di più – e ce ne scusiamo – diciamo che le nostre simpatie politiche per Vladimir Putin cominciano e finiscono quando dice (e soprattutto quando dà) il fatto loro ai nazigolpisti insediati a Kiev nove anni fa con l’intervento diretto di USA-UE-NATO.
Per il resto, pensiamo che i comunisti russi abbiano già spiegato a sufficienza l’essenza di classe borghese dell’attuale potere in Russia, espressione degli interessi del grosso capitale industriale e finanziario.
E così, a via Bargoni scrivono candidamente che «Putin minaccia da Mosca», a differenza di Biden che invece «risponde da Varsavia»: si nota la diversità d’accento? D’altronde, quanta comprensione si legge tra le righe, per il tono con cui il presidente USA, dalla capitale polacca, ha proclamato ai russi che «Gli Stati Uniti e i paesi europei non vogliono controllare e distruggere la Russia»! *
Quale abisso tra un Putin, «dittatore» (parola di Biden) che accusa «L’occidente capace di ogni nefandezza» e nel suo discorso è seguito dalle «élite del paese a Mosca», e un Biden che invece quell’Occidente lo difende e la cui calata su Varsavia è resa ancor più democratica dalla presenza (qui il servizio raggiunge vette di magnificazione della democrazia europeista) di «Lech Walesa, ex leader di Solidarnosc, il primo sindacato libero dell’Europa orientale»; che la madonna di Czestochowa l’abbia in gloria.
Ma l’afflato demo-liberale de il manifesto è al colmo quando riporta le parole di una neofascista che, rivolta a un nazigolpista, gli assicura che, loro, saranno «insieme fino alla vittoria». La commozione del cronista è tale che si sprigiona irrefrenabile quando «Meloni non ha esitato a connotare la resistenza delle forze armate ucraine di rimandi ideologici. E neanche il Risorgimento è stato risparmiato»: che ardore, che impeto patriottico scaturiva nel rievocare mentalmente la «resistenza delle forze armate» germaniche all’avanzare delle orde di bolscevichi verso il Reich…
DA DOVE PARTONO LE ARMI ITALIANE? – Weaponwatch
Alla vigilia di uno sciopero nazionale nei porti italiani contro l’escalation della guerra e la militarizzazione dilagante, può essere utile ricordare i dati statistici nazionali sull’esportazione delle armi.
Innanzi tutto consideriamo il dato nazionale: nei primi 11 mesi del 2022 l’Italia ha esportato armi e munizioni (comuni e militari) per quasi un miliardo e settecento milioni di euro (1.678 milioni di €). Raffrontando i dati per lo stesso periodo negli anni precedenti, vi è stato un fortissimo aumento: 2019=100, 2020=98, 2021=152, 2022=165.
Tra i primi quattro paesi destinatari, che nel 2022 concentrano i due terzi dell’export, vi sono tre paesi NATO (Stati Uniti, Francia, Regno Unito) e, al secondo posto dopo gli USA, la petro-monarchia del Qatar. Tra i primi dieci si contano altri paesi extra NATO: Brasile, Pakistan, Arabia Saudita e Thailandia.
Il nostro paese si conferma tra i maggiori esportatori di armi e munizioni, anche in aree a forte tensione politico-militare. Si pensi agli scambi crescenti con paesi come l’Algeria, il Ghana, il Kirghizistan, il Kuwait, il Libano, il Pakistan e la Thailandia già citati, e all’interscambio con Israele, in rapidissima crescita soprattutto nelle importazioni.
Come si è distribuito questo consistente aumento tra le province italiane?
La graduatoria delle province che hanno maggiormente esportato armi e munizioni nei primi tre trimestri del 2022 è guidata da quattro province, nell’ordine Brescia, Roma, Pesaro-Urbino e Trieste. Da sole concentrano i tre quarti dell’export.
Il primato di Brescia non stupisce. La forza del distretto della Val Trompia, uno dei più importanti al mondo per la produzione di armi leggere, e la leadership del gruppo Beretta nel mercato mondiale sono noti. Il paese destinatario più importante rimangono gli Stati Uniti, che assorbono almeno la metà della produzione italiana; al secondo posto il Brasile, che sta ricevendo le consegne di un maxi ordine fimato nel dicembre 2020, 159.000 pistole Beretta AMX per le forze dell’ordine brasiliane. Anche la provincia di Pesaro-Urbino è fortemente coinvolta dal boom delle armi leggere trainato dal gruppo Beretta, che qui produce armi con il marchio Benelli: oltre alle destinazioni tradizionali (USA, Francia, Canada) compare la Thailandia, destinataria di una grossa fornitura di fucili Benelli cal. 12.
Insieme, le province di Brescia e Pesaro-Urbino hanno esportato nei primi tre trimestri del 2022 per 454 milioni di euro…
Appello comune per la mobilitazione proletaria e di massa contro la guerra imperialista
NON UN’ARMA, NON UNA BASE, NON UN EURO PER LA GUERRA IMPERIALISTA!
COSTRUIAMO LA MOBILITAZIONE PROLETARIA E DI MASSA CONTRO LA GUERRA
Il prossimo 24 Febbraio ricorrerà un anno dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, escalation di portata epocale di un conflitto che si protraeva da anni. Fin dai primi momenti, come organizzazioni comuniste, internazionaliste, militanti ed operaie abbiamo denunciato la natura imperialista di questa guerra. La guerra in Ucraina tra la Federazione Russa e l’alleanza euro-atlantica USA-UE-NATO ha le sue basi nella crisi generale del sistema capitalista su scala globale e, quindi, in un’accentuata competizione tra le principali potenze capitalistiche che sta conducendo i proletari di tutto il mondo verso il rischio di un nuovo conflitto mondiale di cui diventerebbero la carne da macello.
I monopoli italiani sgomitano aggressivamente per guadagnare migliori posizioni e maggiori profitti nella competizione a livello internazionale, e le decisioni prese dai governi Draghi e Meloni nell’ultimo anno spingono l’Italia in un coinvolgimento ancora più profondo nella guerra imperialista. Da poche settimane il governo Meloni ha riconfermato ingenti finanziamenti e invio di armi per tutto il 2023, con lo stanziamento del sesto pacchetto di “aiuti” militari all’Ucraina votato a larga maggioranza in Parlamento da quasi tutte le forze politiche. L’invio di carri-armati, mezzi pesanti e sistemi di difesa di ultimissima generazione anche da parte di paesi come Germania, Polonia, USA, confermano la tendenza ad un’ulteriore escalation bellica, con la possibilità che i piani di guerra del blocco euro-atlantico portino a conseguenze militari dirette sul territorio italiano. Questa corsa al riarmo e la maggiore integrazione dell’Italia nel blocco USA-UE-NATO sono funzionali al consolidamento del ruolo, del peso e degli interessi specifici dell’imperialismo italiano nell’Est Europa, nei Balcani, nel Mediterraneo e dovunque gli sia possibile.
Nel frattempo il forte aumento dei prezzi dei beni di consumo rende sempre più difficile arrivare alla fine del mese a milioni di persone. L’inflazione colpisce i salari dei lavoratori e delle lavoratrici, già magri e fermi da anni, e resi instabili dalla liberalizzazione dei contratti a tempo determinato fino al punto che ormai larghissimi settori della classe lavoratrice si sentono a rischio licenziamento. In secondo luogo, l’attacco a misure come il Reddito di Cittadinanza crea una situazione ancora più insostenibile per le centinaia di migliaia di disoccupati che, da Nord a Sud, non riescono a trovare un lavoro e che in questo modo si trovano ad essere gettati ancora di più nella povertà. Le politiche del Governo Meloni, quale governo dei monopoli e dei grandi capitalisti, colpiscono senza tregua i proletari, e con una particolare violenza, materiale e ideologica, i nostri fratelli di classe immigrati e le donne proletarie.
Il fatto che ad oggi non esista, nonostante la necessità oggettiva, un forte movimento contro la guerra che abbia come protagonista la classe operaia, è dovuto innanzitutto alla condizione di grande frammentazione del movimento operaio e sindacale ed è intimamente legato con le difficoltà nell’affermare una chiara posizione contro la guerra imperialista dal punto di vista rivoluzionario. Da una parte in questo anno si sono viste diverse manifestazioni, soprattutto all’inizio dell’invasione russa, apparentemente pro-pace trasformarsi in piazze in aperto sostegno al governo ucraino; dall’altra le posizioni campiste presenti da tempo in Italia hanno indirizzato alcuni settori sul versante del sostegno aperto alla Russia di Putin, sulla base degli interessi immediati dei settori capitalistici e della piccola borghesia più legati a questa prospettiva. In entrambi questi casi, si è riprodotta la polarizzazione tossica presente nel dibattito pubblico, in cui gli interessi dei lavoratori sono di fatto assenti, e si cerca di far schierare i proletari come massa di manovra in questo o quel campo della borghesia…
No Muos, a proposito di manifestazione contro la guerra il 25 febbraio
Sabato 25 febbraio saremo ancora una volta in piazza a Niscemi. Abbiamo scelto di manifestare lì per denunciare che la guerra che divampa a qualche centinaio di chilometri da casa nostra, si può fare anche perché la Sicilia è diventata la portaerei della Nato e degli Stati Uniti. La base di Sigonella e il Muos di Niscemi sono infatti fondamentali per le ricognizioni che effettuano sul teatro di guerra, mettendoci di fornte al fatto che anche noi siamo, senza volerlo in prima linea in questa guerra. Una guerra che rappresenta la conseguenza più nefasta delle crescenti tensioni interimperialiste delle principali potenze capitalistiche negli ultimi anni. Guerra che rimane l’unica risposta che gli Stati capitalisti riescono a trovare per tentare di salvaguardare il loro potere.
In contemporanea si terrà a Catania una manifestazione promossa da diverse sigle tra cui la Cgil che nonostante noi avessimo chiamato alla mobilitazione con molto anticipo hanno deciso di sovrapporsi alla nostra manifestazione.
Ci chiediamo: perché non rafforzare un momento di lotta in un luogo simbolo delle guerre che si combattono nel mondo?
Ci chiediamo perché nel loro appello non ci sia una parola di denuncia contro il governo Meloni, che in piena continuità con l’Agenda Draghi e col sostegno della quasi totalità del Parlamento, conferma un coinvolgimento spinto del nostro Paese nel conflitto imperialista ucraino, favorendo così l’industria italiana delle armi e tutti quei settori economici che vedono opportunità di profitto nella ricostruzione dei territori distrutti.
Ci chiediamo perché non si parla della guerra che questo governo fa contro le classi popolari, per poter sostenere le ingenti spese militari che superano oramai gli 80 milioni di euro al giorno, con il taglio del reddito di cittadinanza, la reintroduzione dei voucher e la rimozione dei limiti sull’utilizzo dei contratti a tempo determinato, nonché una continua riduzione di spesa per sanità, scuola e università.
E ancora non una parola su scuole e università che vengono sempre più militarizzate per diventare centri di consenso alla guerra con la ricerca orientata a scopi bellici e l’istituzione di PCTO nelle caserme e addirittura presso la base di Sigonella.
Ci dispiace ma non ci sentiamo in linea con chi organizza questa manifestazione svuotata di significati e contenuti per permettere di stare comode quelle forze politiche che sporcano la parola pace, votando in parlamento l’invio di armi, chiedendo l’aumento delle spese militari o sedendo nei consigli di amministrazione delle industrie delle armi. Forze che spudoratamente piegano un momento che potrebbe essere catastrofico per l’umanità ai loro giochetti di alleanze per le prossime elezioni comunali.
Rispettiamo chi scenderà in piazza a Catania, ma rinnoviamo il nostro invito a partecipare alla manifestazione di Niscemi per costruire realmente opposizione a chi fa la guerra.
Rinnoviamo invece il nostro gemellaggio con la manifestazione di Genova organizzata dai lavoratori portuali del CALP che in questi mesi hanno realmente sabotato la guerra impedendo il traffico delle navi cariche di armi.
Movimento No Muos
Lo sguardo altrui – Andrea Zhok
Nei rapporti con gli altri il fattore fondamentale per consentire l’instaurarsi di rapporti pacifici e di mutua comprensione è la capacità di mettersi nei panni altrui, di guardare il mondo circostante anche con gli occhi dell’altro, dalla sua prospettiva.
Non è un esercizio facile, ma è l’esercizio etico primario che sta alla base di tutte le etiche tradizionali come formula della reciprocità. Questa prassi è stata tuttavia progressivamente erosa nella cultura occidentale (in particolare americana). Non è sempre stato così, ma oggi lo sguardo occidentale è addestrato a concentrarsi su quali possano essere i lati da cui l’altro potrebbe avermi offeso, dal mio punto di vista, posto come ultima autorità.
Spostato sul piano della politica estera questo unilateralismo etico nell’opinione pubblica si esprime in forme di “imperialismo ingenuo”, che farebbero tenerezza se non lasciassero dietro di sé una scia di morte e distruzione.
Ora, qualcuno ancora oggi continua a chiedersi: “Cosa mai avrà avuto da temere la Russia in Ucraina? E’ chiaro che si tratta di un pretesto per invadere l’Europa.” “E cosa mai avrà da temere la Cina per armarsi?” “E cosa mai avranno da temere l’Iran, o la Corea del Nord, o il Venezuela,” ecc. ecc.?
Perché, giusto cielo, ci odiano tanto, noi che siamo manifestamente lo standard della civiltà e cavalleria?
Per approssimare una risposta può aiutarci soffermare un momento lo sguardo su alcuni dettagli.
Ad esempio.
Gli USA sono il paese al mondo maggiormente coinvolto in conflitti bellici nel corso della sua storia; e sono peraltro il paese con l’esercito di gran lunga più potente al mondo, spendendo da soli più della somma dei successivi 15 paesi più militarmente sviluppati al mondo (800 miliardi di dollari/anno per gli USA, contro i 293 della Cina, i 76 dell’India, i 65 della Russia, i 56 della Germania, ecc.; dati 2021).
Gli USA hanno inoltre fomentato sistematicamente un’infinità di colpi di stato verso governi sgraditi (spesso vantandosene post hoc).
E quando i regime changes non riescono in forma indiretta, nutrendo le proprie quinte colonne, si passa spesso allo stadio successivo, dell’intervento diretto.
Il canone, divenuto oramai classico, dell’interventismo americano è infatti rappresentato da un’operazione in due tempi: in prima istanza si alimentano e finanziano le proteste (sempre sedicenti “democratiche”) all’interno del paese X; in seconda istanza si utilizza come giustificazione ad intervenire il fatto di essere “invocati dalla minoranza oppressa nel paese X”.
Questo giochino, sempre spalleggiato dai media a gettone, è uno schema universalmente noto e discusso ovunque, tranne in Occidente…
La “campagna d’Italia” del Dipartimento di Stato Usa – Fabrizio Poggi
«La borghesia trasforma tutto in merce, anche la storiografia. È nella sua natura, nella condizione d’esistenza, falsificare tutte le merci: essa falsifica anche la storiografia. E viene meglio pagata quella storiografia che è meglio falsificata per la borghesia».
Friedrich Engels
A quanto pare, il vaglio cui vengono sottoposte nei paesi vassalli le notizie sgradite a Washington sembra non più sufficiente e là sul Potomac non si è pienamente soddisfatti del lavoro degli italici “informatori”. Così, il Dipartimento di stato ha deciso di incentivare il lavoro dei suoi solerti controllori e, anzi, stimolarli a brevettare modi e momenti di diffusione del verbo “democratico” tra quei popoli che manifestano incertezze nell’accodarsi alla carovana resiliente e nella fiducia verso «la supremazia della democrazia».
Dunque, se i canali televisivi nostrani sono carenti quanto a spettacoli, film, show, bollettini meteo e filmetti americani da cui pare doversi desumere che la società americana sia divisa, da un lato, in ladri e assassini, tra i quali spiccano magnati e finanzieri e, dall’altro, in avvocati miliardari e poliziotti corrotti, ecco che chiunque, a partire dai mezzi di “informazione”, passando per cooperative sociali, patronati o club sportivi, può racimolare qualche migliaio di dollari diffondendo «una significativa quantità di elementi della cultura americana», così da fornire il proprio contributo alla «crescita della comprensione della politica e dei punti di vista USA».
A porre rimedio alla situazione, ecco dunque la “Missione degli Stati Uniti in Italia – Annual Program Statement 2023 – Opportunità di Finanziamento”.
Francamente, varie osservazioni del commentatore Maksim Sokolov, il cui servizio riportiamo sotto, sembrano ricalcare alcuni vecchi stereotipi, o indicare una non perfetta penetrazione della sostanza dei rapporti tra governi italiani, passati e presenti, e ambasciata yankee in Italia, coi relativi ambasciatori, sin dal 1945. Tralasciate comunque quelle osservazioni (e anche altre, su cui non insistiamo) la sostanza della questione rimane.
A Washington non vedono sufficiente attaccamento alla politica USA tra i vassalli europei, e italiani in particolare. Galoppini di stampa e canali televisivi addomesticati non sembrano portare sufficiente consenso e non silenziano abbastanza la “disinformazione” russa e cinese. Diamo dunque un ulteriore stimolo a quei miserandi che scrivono e parlano “per un centesimo a parola”…
“Linee rosse”. La differenza sostanziale tra Cina e Stati Uniti – Caitlin Johnstone
Reagendo all’annuncio della Cina che presenterà una proposta per una soluzione politica per porre fine alla guerra in Ucraina, l’ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite ha affermato che se la Cina inizierà ad armare la Russia in quel conflitto, questa sarà una “linea rossa” per il Stati Uniti.
“Accogliamo con favore l’annuncio cinese che vogliono la pace perché è quello che vogliamo sempre perseguire in situazioni come questa. Ma dobbiamo anche essere chiari sul fatto che se ci sono pensieri e sforzi da parte dei cinesi e di altri per fornire un supporto letale ai russi nel loro brutale attacco contro l’Ucraina, ciò è inaccettabile”, ha avvertito, domenica scorsa, alla Galileus Web l’ambasciatrice Linda Thomas- Greenfield .
“Sarebbe una linea rossa”, ha detto.
I commenti dell’ambasciatrice riguardavano un’affermazione infondata fatta domenica dal Segretario di Stato Antony Blinken secondo cui la Cina sta “considerando di fornire un supporto letale alla Russia nella guerra contro l’Ucraina”, secondo l’intelligence statunitense.
Gli Stati Uniti hanno fatto affermazioni prive di prove in relazione all’armamento della Cina contro l’Ucraina da parte della Cina sin dall’inizio della guerra. Nel marzo dello scorso anno il New York Times ha riferito che “la Russia ha chiesto alla Cina di fornirle equipaggiamento militare e sostegno per la guerra in Ucraina dopo che il presidente Vladimir V. Putin ha iniziato un’invasione su vasta scala il mese scorso, secondo i funzionari statunitensi”. Poi, nell’aprile dello scorso anno, la NBC ha riferito che questa affermazione “mancava di prove concrete” ed era essenzialmente solo una bugia che il governo degli Stati Uniti ha detto ai media “come parte di una guerra dell’informazione contro la Russia”…
Le strategie fatali dell’Occidente in Ucraina
La decifrazione della situazione da parte del colonnello Jacques Baud
Saggista “complottista” per Conspiracy Watch e “agente della lobby filorussa” per la RTS, Jacques Baud è ora sulla lista nera di Mirotvorets, un battaglione di “esecuzioni extragiudiziali” per conto del governo ucraino. Questo non sembra smuovere molto i difensori professionisti della libertà di espressione. Colpa sua? Per aver ricordato al “campo occidentale”, lui che nel 2014 era a Kiev in qualità di colonnello svizzero in missione presso la NATO, la sua pesante parte di responsabilità nello scoppio della guerra in Ucraina. Con l’avvicinarsi del primo anniversario dell’operazione militare speciale russa, era necessario un nuovo aggiornamento.
* * * *
ELEMENTS: All’epoca della nostra prima intervista (Elements n. 196), il conflitto in Ucraina stava raggiungendo il sesto mese e lei stava per pubblicare Operazione Z, un libro che faceva il punto sulla realtà dell’OMS: i suoi prodromi, i suoi attori, le sue poste in gioco. Dalla sua pubblicazione sono passati altri sei mesi e la situazione si è naturalmente evoluta, apparentemente a vantaggio delle forze armate ucraine…
JACQUES BAUD. Prima di tutto, dobbiamo sottolineare un aspetto che in Francia fingiamo di ignorare: il modo in cui intendiamo una crisi determina il modo in cui viene risolta. L’insopprimibile tendenza a sostituire le spiegazioni dei protagonisti con le nostre “impressioni” distaccate dai fatti ci porta invariabilmente a un peggioramento della situazione.
Questo è ciò che ha alimentato il terrorismo jihadista in Francia nel zoi5-zoi6 e dovrebbe servire da lezione.
Questo riguarda sia chi è filo-russo (o “anti-NATO”) sia chi si sente filo-ucraino. Come sempre, gli occidentali (di destra e di sinistra) non ascoltano i protagonisti e impongono la loro interpretazione del conflitto, che soddisfa le loro fantasie. Secondo i nostri “esperti”, l’intervento russo è l’espressione di un conflitto di civiltà; è causato dall’estensione della NATO a est; mira a ricostituire l’impero zarista o l’Unione Sovietica (non si sa bene); esprime l’odio per il popolo ucraino; oppure è motivato dall’odio per l’Occidente, l’Europa e/o la loro democrazia.
In breve, ognuno vede un motivo secondo la propria visione del mondo. Ma queste diverse narrazioni non sono né il movente né la causa dell’intervento militare russo in Ucraina. – Si tratta al massimo di “fattori facilitanti” che esistono sullo sfondo e che contribuiscono all’aumento del divario tra l’Occidente e la Russia. Alcune di queste sono effettivamente preoccupazioni importanti per la Russia, ma non sono mai state considerate tali da richiedere un confronto militare.
Queste “spiegazioni” hanno due conseguenze che hanno un forte impatto sugli sviluppi futuri. In primo luogo, fanno della guerra in Ucraina un’inevitabilità legata alla natura del contesto e non più influenzabile. In secondo luogo, abbiamo spogliato questo intervento della razionalità che i russi gli hanno attribuito, per far sembrare la decisione di Putin irrazionale rispetto agli obiettivi che avevamo previsto per lui. Per questo si dice che è malato o folle. Di conseguenza gli europei non vedono nella negoziazione una soluzione possibile. I nostri media hanno creato così le condizioni di impossibilità di un dialogo.
Ma la realtà è molto più concreta e prosaica. A scatenare l’operazione militare speciale russa è stata la situazione della popolazione russofona del Donbass. Ecco perché queste vittime non vengono mai menzionate. Alcuni sostengono che questo fosse solo un pretesto per la Russia. Può darsi che sia così. Ma abbiamo fatto di tutto per dargli questo pretesto, che di per sé è perfettamente legittimo. Non è altro che l’applicazione del principio della “responsabilità alla protezione” (RCP). Se i nostri diplomatici si fossero impegnati a rispettare il diritto umanitario internazionale già nel 2004, non ci troveremmo in questa situazione.
Il 24 febbraio 2022 Vladimir Putin ha enunciato le motivazioni e gli obiettivi dell’intervento russo: smilitarizzazione e de-nazificazione della minaccia per le popolazioni del Donbass. Gli obiettivi erano la distruzione di una potenziale minaccia, non la conquista di un territorio.
La narrazione occidentale si basa sull’idea che la Russia stia cercando di conquistare l’Ucraina. Pertanto, misuriamo il successo russo in termini di territorio conquistato e velocità di avanzamento. Poiché questa velocità è bassa, i nostri media ed “esperti” la considerano un fallimento.
I media e gli “esperti” lo considerano un fallimento. Il problema è che i russi misurano il loro successo in potenziale distrutto e non in chilogrammi. Nel giugno di quest’anno, il consigliere di Zelensky David Arakhamia ha dichiarato che l’Ucraina stava perdendo 1.000 uomini al giorno (tra morti e feriti). Oggi la battaglia di Bakhmut sarebbe ancora più micidiale e gli ucraini perderebbero l’equivalente di un battaglione al giorno!…
Sono gli USA che conducono “una vera e propria ricognizione militare sulla Cina” – Fan Wei e Liu Zuanzun – Global Times
I palloni aerostatici ad alta quota sono ampiamente utilizzati dai Paesi di tutto il mondo per la sorveglianza meteorologica, ma di recente gli Stati Uniti hanno dato vita a una serie di fiction sullo “spionaggio”, utilizzando il pallone senza pilota cinese andato fuori controllo, che non solo ha fatto crescere le tensioni, ma ha anche gravemente leso i diritti della Cina attraverso l’uso della forza. Un rapporto esclusivo ottenuto dal Global Times lunedì scorso mostra che le forze armate statunitensi hanno spesso condotto ricognizioni ravvicinate sulla Cina, anche con l’uso di palloni aerostatici, rendendo gli Stati Uniti il primo Paese al mondo per lo spionaggio.
Nel 2022, le forze armate statunitensi hanno effettuato più di 600 operazioni di ricognizione ravvicinata nel Mar Cinese Meridionale utilizzando aerei spia, ha dichiarato MizarVision, una società cinese di tecnologia e intelligence, citando dati ADS-B (Automatic Dependent Surveillance-Broadcast) open source.
La cifra reale potrebbe essere più alta, poiché alcuni velivoli statunitensi spengono i loro localizzatori ADS-B o ne utilizzano di falsi, ha dichiarato MizarVision.
Simili sortite di ricognizione ravvicinata hanno avuto luogo anche nel Mar Cinese Orientale, compreso il mese di agosto, quando l’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) cinese ha condotto esercitazioni su larga scala intorno all’isola di Taiwan, secondo il monitoraggio dell’azienda.
Tra i velivoli impiegati di frequente vi sono l’aereo da ricognizione dei segnali elettronici EP-3E, l’aereo da pattugliamento e ricognizione marittima P-8A, l’aereo da ricognizione RC-135, l’aereo da comando e controllo aereo E-8C e l’aereo da ricognizione ad alta quota U-2, ha dichiarato la società di intelligence.
L’esercito statunitense utilizza anche altri tipi di aerei e navi, camuffandoli da aerei civili e navi commerciali attraverso codici di identificazione falsi e personalizzando gli aerei commerciali in aerei spia, ha dichiarato MizarVision, aggiungendo che tali tecniche sono state utilizzate per spiare l’isola cinese di Hainan e le isole Xisha nel Mar Cinese Meridionale…
E’ tempo di dispiegare gli strumenti della ragione anziché le armi della follia – Pasquale Pugliese
Note su un anno di guerra in Ucraina e nelle nostre menti, in dialogo con Edgar Morin
Già in tempi cosiddetti normali, è predominante
la conoscenza compartimentata e decontestualizzata.
Quando imperversa l’isteria fanatica o l’isteria di guerra,
essa diventa sovrana e provoca l’odio di ogni conoscenza complessa
e di ogni contestualizzazione.
[Edgar Morin, Di guerra in guerra]
Per fare riflessioni dotate di senso in occasione di questo primo anno dall’invasione russa dell’Ucraina, tra le tante pubblicazioni uscite, suggerisco anche la lettura di un libretto tanto denso quanto essenziale, ossia di “Di guerra in guerra” (Raffaello Cortina, 2023), che raccoglie le riflessioni di Edgar Morin sulla guerra, il quale nella sua lunga vita (101 anni e una chiarezza di analisi e visione inarrivabili dalla maggior parte degli “analisti” che da dodici mesi ripetono su tutti i media il mantra del circolo vizioso più armi-più guerra-più armi) ha partecipato attivamente alla resistenza contro il nazifascismo ed ha osservato con sguardo lucido le tante guerre che da allora hanno tragicamente contrassegnato il mondo contemporaneo. E’ una lettura che aiuta a uscire da alcuni dei principali vizi interpretativi della nuova guerra in corso in Europa, che continuano a determinare irresponsabili scelte politiche e militari da parte dei governi europei e statunitense per rispondere all’ingiustificabile invasione russa: l’isteria di guerra, il presentismo decontestualizzante, l’illusione della vittoria. Sono questioni che più volte abbiamo messo a fuoco nei mesi passati – dall’interno del movimento per la pace – ma che è necessario rilanciare, anche con l’autorevole legittimazione fornita dal grande filosofo francese.
L’isteria di guerra ha come scopo la necessità di instillare la guerra nelle menti, ha come effetto la semina dell’odio per la parte avversa, necessaria e legittimare l’uso crescente della violenza contro i “nemici” passando anche attraverso l’identificazione dei popoli con i rispettivi governi. E’ la caratteristica culturale che attraversa tutti i fronti di tutte le guerre ed è alimentata dalle rispettive propagande di guerra. Anche da quella dalla parte giusta del conflitto: Morin ricorda, a questo proposito, i bombardamenti a tappeto degli Alleati sulle città tedesche, per esempio su Dresda rasa al suolo, e le atomiche USA su Hiroshima e Nagasaki, che colpivano scientemente la popolazione civile, come “crimini di guerra sistemici”, prima legittimati dalla propaganda e poi rimossi dalla coscienza dei vincitori. “Ogni guerra, per sua natura” – scrive Morin – “per l’isteria alimentata dai governanti e dai media, per la propaganda unilaterale e spesso menzognera, comporta una criminalità che va al di là dell’azione strettamente militare”. E’ quanto rilevava per esempio il politico pacifista inglese Arthur Ponsonby dopo la prima guerra mondiale analizzando le “bugie in tempo di guerra” diffuse dalla propaganda di tutti i governi in conflitto. La storica belgaAnne Morelliha recuperato quel testo e ne ha fatto un una verifica alla luce delle guerre successive, fino all’aggressione militare USA dell’Iraq del 2003, nelle quali tutti i “Principi elementari della propaganda di guerra” (Ediesse, 2005) risultano confermati, ripetuti e adattati ai diversi contesti, per convincere le opinioni pubbliche tendenzialmente pacifiste dei rispettivi paesi (come quella italiana nella guerra in corso). Le guerre hanno degli enormi costi sia umani che economici e per esse bisogna essere disponibili a uccidere, a morire e ad aumentare le spese militari a discapito di quelle civili e sociali: per questo è necessario mettere in campo gli specifici meccanismi comunicativi di persuasione, che si ripropongono, guerra dopo guerra, attraverso sistemi mediatici sempre più sofisticati, pervasivi e persuasivi. Ecco l’elenco dei dieci principi elementari di propaganda di guerra, riproposti ossessivamente anche nell’ultimo anno – oltre che sui media russi – con le relative variazioni sul tema, anche sui democratici media occidentali: non siamo noi a volere la guerra (ma siamo costretti a prepararla e, se necessario, a farla); i nemici sono i soli responsabili della guerra; il nemico ha l’aspetto del demonio o del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; il nemico usa armi illegali (noi rispettiamo le regole); le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; gli intellettuali, gli artisti (i giornalisti) sostengono la nostra causa; la nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); quelli che mettono in dubbio la propaganda sono dei traditori. Quante volte abbiamo sentito – e sentiamo ancora – queste formule, diversamente e ripetutamente declinate, invece di analisi capaci di entrare ed affrontare con consapevolezza e responsabilità l’estrema complessità e pericolosità della tragedia della guerra in corso?…
Un anno di guerra e nessuna prospettiva di pace (da osservatoriorepressione.info)
Un anno di guerra e nessuna prospettiva di pace. Primo anno dall’inizio della guerra con occupazione dell’Ucraina operata dalla Russia. La pace sembra essere molto lontana, soprattutto non pare essere nell’agenda degli attori principali del conflitto quindi Russia ed Ucraina. Ma neppure USA, Nato ed Europa appaiono troppo interessati al cessate delle armi tanto che le aperture della Cina non hanno trovato appoggio.
Putin ha preso parola martedì 21 febbraio, alla Duma, parlando, tra le varie cose, anche della sospensione dello Start, l’ultimo trattato sulla riduzione delle armi nucleari ancora in vigore con gli Usa, per “impedire agli ispettori americani di visitare i siti nucleari russi mentre Washington è intenta ad infliggere una sconfitta strategica a Mosca. Sospendiamo il trattato, ma non ce ne ritiriamo”, ha sottolineato Putin. Il presidente Russo ha poi parlato, molto, all’opinione pubblica interna russa: “continueremo sistematicamente l’offensiva in Ucraina”. Sull”Occidente: “Più useranno sistemi a lungo raggio, più dovremo tenere lontana la minaccia dai nostri confini. L’obiettivo dell’Occidente è portare la Russia ad una sconfitta strategica, vogliono eliminarci per sempre. Sul terreno intanto, in un anno, la Russia ha preso il controllo del 17% del territorio ucraino, mentre le vittime civili accertate sono 7.200 civili, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti umani che calcola i feriti in 11.756.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto l’editorialista de Il Manifesto, Alberto Negri Ascolta o scarica
Da Varsavia nel tardo pomeriggio di martedi 21 febbraio ha parlato il presidente Usa Biden. “Difenderemo la democrazia a qualunque costo”, ha dichiarato Biden, che poi si è rivolto ai cittadini russi: “l’Occidente non vuole attaccare e distruggere la Russia – ha assicurato – non siete voi il nemico. Se Putin volesse, potrebbe porre fine alla guerra con una parola, interrompendo l’invasione dell’Ucraina”. Al contrario, ha aggiunto Biden, “se Kiev smettesse di combattere, l’Ucraina cesserebbe di esistere”.
Il commento di Fulvio Scaglione giornalista e curatore del blog Lettere da Mosca Ascolta o scarica
“A distanza di un anno la situazione è questa: una guerra che si è intensificata per recrudescenza, una guerra di attrito ad altissima intensità e che tutti pensano ormai durerà ancora a lungo, quasi sicuramente per tutto il 2023“. Queste sono la valutazione e la previsione sulla guerra in Ucraina ad un anno dall’inizio dell’attacco russo secondo Mirko Mussetti della rivista Limes: “La Russia si sta preparando ad una guerra ad oltranza, il conflitto rischia soltanto di allargarsi.” L’esperto di geopolitica ritiene che tra gli avvenimenti degli ultimi giorni il più significativo sia l’incontro a Mosca tra Putin e il potente capo della diplomazia cinese Wang Yi: “la visita salda il legame Russia-Cina, l’amicizia senza limiti. La Russia è alle strette e ha bisogno del supporto cinese. La Russia chiede del materiale per poter sostenere la campagna bellica, magari non direttamente le armi – specifica l’analista di Limes – ma componentistica per la produzione in serie di carri armati, droni kamikaze, velivoli, antenne radar ecc. Se Pechino fornisse questa componentistica di fatto questa guerra per procura tra Stati uniti e Russia si allargherebbe anche alla Cina.” Infatti anche se la guerra si è ristretta sul piano territoriale concentrandosi sul quadrante sudorientale dell’Ucraina, da un punto di vista politico militare in realtà si sta allargando perchè va a coinvolgere sempre più altre nazioni, anche se in modo indiretto. Ascolta o scarica
MOBILITAZIONI
Contro la guerra manifestazioni sono attese in Italia ma non solo con la coalizione Europe For Peace, che unisce centinaia di realtà sociali e sindacali impegnate per l’avvio di negoziati seri e una vera deescalation del conflitto. “Un anno dopo l’invasione russa – si legge nell’appello – emerge il fallimento della strategia Nato che punta sulla guerra a oltranza per la riconquista della Crimea”. Si parte giovedì a mezzanotte con la marcia Perugia Assisi e poi venerdì e soprattutto sabato cortei e mobilitazioni in tutta Italia.
In Italia nella notte in migliaia hanno preso parte alla Marcia straordinaria per la Pace Perugia-Assisi, terminata nella cittadina umbra all’alba di oggi. Ad aprire la marcia lo striscione “L’indifferenza è pericolosa…fermiamo le guerre”.
Fino a domenica sono in programma un centinaio di mobilitazioni nowar organizzate da Europe For Peace, che farà tappa anche nel Bresciano. Stasera primo appuntamento a Breno, in Valle Camonica, dalle ore 18.30, davanti al Municipio. Domenica invece alle ore 15.30 in piazza Rovetta a Brescia.
Europe For Peace invita a promuovere mobilitazioni nelle città italiane ed europee a un anno dall’inizio della guerra sul confine ucraino, per chiedere il cessate il fuoco, stop agli armamenti, dialogo e negoziati di pace.
Flavio Lotti storico organizzatore della marcia per la pace Perugia-Assisi Ascolta o scarica
Mao Valpiana, presidente nazionale del Movimento NonViolento e della coalizione Europe For Peace Ascolta o scarica
Antonio Mazzeo, giornalista a blogger antimilitarista fa un punto rispetto a questo anno di guerra Ascolta o scarica
Maria del Coordinamento contro la guerra e chi la arma Ascolta o scarica
Josè Novoi del CALP di Genova Ascolta o scarica
Il commento di Achille Lodovisi ricercatore, studioso e autore di diversi libri sul tema guerra Ascolta o scarica
Agostino Zanotti referente della rete Io Accolgo. Ascolta o Scarica
Camilla Bianchi, presidente del Coordinamento degli Enti Locali per la pace e la cooperazione internazionale Ascolta o Scarica.
Le sanzioni anti-russe riconfigurano il commercio mondiale… a danno dell’Occidente – Giacomo Gabellini
Una delle ricadute più dirompenti generate dal conflitto russo-ucraino è indubbiamente costituita dalla ristrutturazione degli equilibri commerciali a livello globale, spinta anzitutto dalla celerità con cui una serie di nazioni asiatiche sono penetrate negli interstizi aperti dalle sanzioni draconiane irrogate contro la Federazione Russa dagli Stati Uniti e dai loro alleati/vassalli.
A partire dall’India, che nel corso del 2022 ha beneficiato degli sconti applicati da Mosca per incrementare il volume giornaliero di petrolio importato dalla Russia di ben 33 volte (da 36.255 a 1,2 milioni). Un aumento colossale, che ha portato la quota di fabbisogno indiano coperta dal greggio russo dallo 0,2 a 25% nell’arco di dieci mesi, consentendo altresì a Nuova Delhi di accreditarsi come grande centro di redistribuzione del petrolio russo verso i Paesi aderenti alla campagna sanzionatoria contro Mosca promossa da Washington. Tra cui gli stessi Stati Uniti, che acquistano dall’India ingenti quantità di Virgin Gas Oil (Vgo), una particolare miscela prodotta dalle raffinerie di proprietà delle società indiane Reliance Energy e Nayara Energy a partire dal greggio russo, acquistato presso Abu Dhabi in cambio di yuan, euro, dollari di Hong Kong e dirham degli Emirati Arabi Uniti. Paese, quest’ultimo, il cui interscambio con la Russia è aumentato nel corso del 2022 del 68%, a quota 9 miliardi di dollari, grazie soprattutto all’impatto delle importazioni dalla Federazione Russa. Stesso discorso vale per la Turchia, che con il raddoppio dell’import dalla Russia realizzato tra il 2021 e il 2022 si è imposta come imprescindibile «piattaforma commerciale tra la Russia e i suoi sanzionatori occidentali»…
Usa, profondo rosso – Claudio Conti, Guido Salerno Aletta, Robert Kuttner
Quando la potenza fin qui egemone sul pianeta cerca di “salvarsi” agendo come un normale paese produttore di idrocarburi… vuole dire che quella potenza è alla frutta, economicamente parlando.
La propaganda in stile Rampini omette accuratamente ogni dato che dimostra questa realtà, dunque diventa indispensabile rivolgersi fuori dal mainstream giornalistico italico per trovare qualche ricostruzione attenta ai numeri, anziché alle parole.
Come spesso ci capita, abbiamo trovato in Guido Salerno Aletta – sulla testata specializzata TeleBorsa (nulla di bolscevico, come si può verificare…) – un analista serio della struttura attuale della bilancia commerciale Usa, ossia della voce più indicativa dello stato di salute di quell’economia.
“Non solo il deficit commerciale complessivo, per merci e servizi, è peggiorato di 103 miliardi di dollari, passando dagli 845 miliardi di dollari del 2021 ai 948,1 miliardi del 2022, ma si è verificato un andamento particolarmente negativo: il maggior deficit complessivo non è stato determinato solo dal peggioramento di 101,5 miliardi di dollari del deficit relativo alle merci (+9,3%), quanto anche dalla riduzione, a dire il vero marginale ma significativa, del surplus relativo ai servizi, con -1,6 miliardi di dollari (-0,6%).”
Detto brutalmente, ciò che viene consumato negli Usa è in gran parte prodotto altrove, come peraltro avviene da decenni. La novità sta nel fatto che questo scarto tra import ed export continua ad allargarsi e persino i “servizi” – settore terziario che fin qui aveva compensato la caduta delle esportazioni industriali, e stiamo parlando di “specializzazioni” storiche come le assicurazioni e i servizi finanziari – è finito in rosso, sia pur di poco.
Le uniche voci in crescita, e che puntellano una bilancia molto sbilanciata, sono relative a merci come i prodotti agricoli e gli idrocarburi, peraltro – questi ultimi – derivanti dalla distruttiva estrazione da scisto, che lascia un territorio deserto e completamente inutilizzabile per secoli.
Lo squilibrio commerciale, storicamente, è stato controbilanciato dallo strapotere del dollaro, con il quale gli Usa hanno sempre trasferito i propri problemi interni sul resto del mondo. Ma anche qui le “sanzioni” – veri e propri dazi doganali contemporanei – comminate a paesi sempre più grandi ed economicamente dinamici stanno frammentando il mercato mondiale.
Con l’inevitabile reazione di Cina, Russia, e persino l’Arabia Saudita, che “differenziano” in modo drastico l’utilizzo di altre monete per i propri scambi commerciali, mettendo su persino nuovi sistemi internazionali di pagamento fuori dal circuito Swift (quello che rendeva “efficaci” le sanzioni quando applicate a paesi piccoli come Cuba, Corea del Nord, ecc).
Un processo lento ma sempre più pervasivo che sta de-dollarizzando molta parte dell’economia mondiale (si pensi solo al recentissimo accordo tra Brasile e Argentina per l’utilizzo di una moneta virtuale comune) e, come conseguenza, scavando la fossa al dominio globale della moneta statunitense.
Aggiungiamoci che anche il tentativo di “sganciare” l’economia Usa da quella cinese (il decoupling che doveva essere favorito da un reshoring produttivo su larga scala) sta andando incontro a resistenze inevitabili da parte delle multinazionali Usa, che non trovano vantaggioso questo “ritorno a casa” (per motivi salariali, certo, ma anche per le note carenze delle infrastrutture logistiche Usa).
Questione, quest’ultima, affrontata da Robert Kuttner proprio ieri su una testata americana.
E’ facile, insomma, dipingere sui media gli Stati Uniti come il solito dominatore del mondo che ora starebbe “rimettendo a posto” equilibri che si sono decisamente rotti. Ma basta sollevare appena un po’ il velo dei dati per trovare una realtà diversa. Parecchio diversa…
Buona lettura…
Appello contro la mobilitazione forzata e per sostenere obiettori di coscienza e disertori in Russia e Ucraina
Comunicato stampa congiunto: Le organizzazioni internazionali invitano ad azioni presso le ambasciate ucraina e russa per protestare contro la mobilitazione forzata e per sostenere gli obiettori di coscienza e i disertori
Nell’ambito della campagna #ObjectWarCampaign (Russia, Bielorussia, Ucraina: Protezione e asilo per i disertori e gli obiettori di coscienza al servizio militare), l’International Fellowship of Reconciliation (IFOR), la War Resisters’ International (WRI), l’European Bureau for Conscientious Objection (EBCO) e Connection e.V. (Germania), invitano ad azioni presso le ambasciate ucraine e russe dal 23 al 27 febbraio 2023 per protestare contro la mobilitazione forzata ed esprimere solidarietà agli obiettori di coscienza e ai disertori ucraini e russi.
Le quattro organizzazioni denunciano tutti i casi di reclutamento forzato e persino violento negli eserciti di entrambe le parti, nonché tutti i casi di persecuzione di obiettori di coscienza e disertori.
Le organizzazioni sottolineano il caso dell’obiettore di coscienza cristiano Vitaly Alekseenko, 46 anni, condannato a un anno di reclusione dalla Corte d’Appello di Ivano-Frankivsk il 16 gennaio 2023 per aver rifiutato la chiamata alle armi per motivi di coscienza. “Ho detto alla corte che sono d’accordo sul fatto di aver infranto la legge dell’Ucraina”, ha detto Alekseenko a Forum 18, “ma non sono colpevole secondo la legge di Dio”. La polizia di Ivano-Frankivsk gli ha detto di “tenersi pronto a essere portato in prigione” il 20 febbraio 2023.
Le quattro organizzazioni considerano la condanna dell’obiettore di coscienza Vitaly Alekseenko una palese violazione del suo diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione, garantito dall’articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che non è derogabile in tempo di emergenza pubblica, secondo l’articolo 4.2 dell’ICCPR.
Le organizzazioni esprimono piena solidarietà a Vitaly Alekseenko e sollecitano le autorità ucraine a ritirare immediatamente tutte le accuse contro di lui. Le organizzazioni sottolineano che la sua condanna avviene nel contesto in cui l’Ucraina ha sospeso il diritto all’obiezione di coscienza nell’attuale situazione di emergenza e chiedono che il relativo decreto venga immediatamente revocato.
Le organizzazioni ricordano inoltre la loro ferma condanna dell’invasione russa dell’Ucraina e chiedono ai soldati di non partecipare alle ostilità e a tutte le reclute di rifiutare il servizio militare. Chiedono inoltre alla Russia di smettere di perseguire e rilasciare tutti i manifestanti contro la guerra che si oppongono in modo nonviolento alla guerra di aggressione del loro governo contro l’Ucraina. Le organizzazioni chiedono inoltre al governo bielorusso di astenersi dalla partecipazione e dalla complicità in questa guerra.
I governi ucraino, russo e bielorusso dovrebbero salvaguardare il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, anche in tempo di guerra, rispettando pienamente gli standard europei e internazionali, tra cui quelli stabiliti dalla Corte europea dei diritti umani. Inoltre, l’Ucraina è membro del Consiglio d’Europa e dovrebbe continuare a rispettare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Poiché ora l’Ucraina è candidata ad entrare nell’Unione Europea, deve rispettare i diritti umani definiti nel Trattato dell’UE e la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, che includono il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare.
Inoltre, le organizzazioni sottolineano che migliaia di uomini e donne di tutte le parti stanno cercando di fuggire dai loro Paesi per sottrarsi ai crimini di guerra. Questi uomini e donne sono la nostra speranza per sconfiggere la violenza. Pertanto, l’Unione Europea dovrebbe garantire protezione e asilo a tutti i disertori e agli obiettori di coscienza! L’Unione europea dovrebbe sollecitare il governo ucraino a smettere di perseguitare gli obiettori di coscienza al servizio militare e a garantire loro il pieno diritto all’obiezione di coscienza! E l’Unione Europea dovrebbe aprire le frontiere a chi si oppone alla guerra con grande rischio personale nel proprio Paese!
E la pace? – Alessandro Ghebreigziabiher
In una casa, all’interno – ovvero al riparo – di una famiglia come tante, marito e moglie sono a tavola assieme al figlio, come al solito con la tv accesa.
L’uomo delle notizie parla ancora della guerra, pensa il figlio dei due, sei anni portati particolarmente bene, che non si dice mai dei bambini, ma solo degli adulti, e invece è d’uopo farlo di tanto in tanto. Poiché nel loro caso vuol dire dimostrarli teneramente tutti dal primo all’ultimo.
“Hai sentito che ha detto Putin?” fa il padre sconcertato allontanando il piatto con gli spaghetti sopravvissuti ancora caldi.
Non si fa papà, pensa il ragazzino fissando il gesto più che le parole. Lo ripeti sempre che il cibo non si respinge, è maleducazione, aggiunge tra sé rammentando il preciso verbale del regolamento mangereccio.
Tuttavia, qualora i grandi parlano tra loro, preferisce ascoltare e sforzarsi di capire, impresa sempre più ardua con il passare delle generazioni.
“Ti riferisci alle armi nucleari?” ribatte la moglie, la quale, comprensibilmente preoccupata, afferra il bicchiere, lo riempie d’acqua sino all’orlo, per poi svuotarlo in pochi secondi.
Brava mamma, si dice il piccolo. L’acqua fa bene sempre e guarisce tutto, come diceva la nonna finché parlava. Ora se ne sta quasi sempre in silenzio sulla poltrona accanto alla finestra.
Non ci sta più con la testa, la versione ufficiale degli adulti di casa.
Sta ricordando la sua vita ed è una cosa lunga, è invece quella del più giovane.
Vuoi mettere? D’altra parte, la presunta corretta interpretazione delle cose, grandi o minuscole, è esattamente il senso di questa breve storiella.
Difatti, sotto gli occhi e soprattutto le orecchie attente del figlio, i genitori disquisiscono di politica internazionale come se fossero due rinomati esperti, alternandosi tra le principali posizioni e opinioni sull’argomento più attuale, in un susseguirsi di dichiarazioni e repliche oramai di uso comune:
“Rischiamo la terza guerra mondiale, sai?”
“Certo, però non possiamo lasciare gli ucraini da soli, hanno bisogno delle nostre armi.”
“Sicuro, ma bisogna stare attenti a non esagerare, hai visto cos’ha detto Putin?”
“Sì, hai ragione, quello è matto!”
“E anche pericoloso… però gli americani hanno le loro colpe, eh?”
“Già, è anche l’Europa. Siamo tutti colpevoli, ma se quello vince si allarga troppo e poi invade tutti.”
“See… poi l’America lancia i missili e quello spinge il bottone, bum e finisce tutto.”
“Guarda che è proprio ciò che rischiamo. L’hai sentito il pezzo del suo discorso, no?”
“Sì che l’ho sentito, ma per questo l’Ucraina deve vincere la guerra a tutti i costi.”
“O la vince Putin o noi, questa è la realtà.”
A un tratto, approfittando di una quanto mai provvidenziale pausa nell’acceso quanto spaventato scambio tra i due, con un’espressione per sua fortuna più perplessa che allarmata il bambino esclama: “Papà, mamma, state ancora parlando della guerra, vero?”
“Sì, amore” risponde la madre, pensando che forse non è il caso di affrontare tale terrorizzante argomento di fronte al figlio. “Scusaci.”
Quindi fissa il marito per invitarlo a rafforzare il concetto.
“Sì, tesoro, perdonaci”, si unisce lui. “Adesso cambio canale.”
Ciò nonostante il bambino non cambia affatto argomento e resta sul punto, il suo: “Papà, mamma, ma se l’Ucraina fa la guerra, la Russia fa la guerra e anche noi facciamo la guerra, la pace chi la fa?”
segreteria nazionale MIR Italia
Amiche ed amici,
vi invitiamo a partecipare a questa interessante iniziativa organizzata da IFOR e i suoi partner internazionali.
📌 Webinar: Obiezione di coscienza in tempo di guerra: Russia, Bielorussia e Ucraina
La serie di webinar “Obiezione di coscienza al servizio militare in tempo di guerra” continua con una nuova sessione incentrata sulla guerra in Ucraina.
Il webinar del 3 marzo (ore 14.00 Ginevra, 15.00 Kiev, 16.00 Mosca) ospiterà attivisti sull’obiezione di coscienza provenienti da Russia, Bielorussia e Ucraina.
Registratevi per ottenere il link per collegarvi 👇
https://us02web.zoom.us/meeting/register/tZUvf–rqjgsGNfK0uxmb_Yl9JYsRpNqviI0
Questo evento è organizzato dall’ International Fellowship of Reconciliation – IFOR, War Resisters’ International in collaborazione con Connection e.V. e si svolge in occasione della 52a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.
L’IFOR mette a disposizione il servizio di interpretariato per gruppi che lo richiedano.
Guerra in Ucraina, i tentacoli della disinformazione sono vasti e radicati – Loretta Napoleoni
Non è facile capire cosa succede nella guerra in Ucraina. I tentacoli della disinformazione sono talmente vasti e radicati che costruire un’immagine veritiera è quasi impossibile. Per farlo proviamo ad usare alcuni numeri: iniziamo dagli armamenti.
Da un sito considerato attendibile e che tiene in considerazione soltanto gli armamenti visualmente verificabili, si evince che la Russia ha perso 9368 armi pesanti, di cui 5942 sono state distrutte, 268 danneggiate, 376 abbandonate e 2782 catturate. Si tratterebbe secondo le statistiche di quasi un terzo delle armi pesanti che la Russia aveva all’inizio della guerra. Queste oggi sono a disposizione dell’esercito ucraino. Mettendo da parte quelle distrutte o danneggiate, ne rimane una quantità considerevole da utilizzare, più che sufficiente per le dimensioni dell’esercito ucraino che conta 200mila soldati – contro gli 850mila a disposizione della Russia.
Allora perché il paese continua a domandare armi? E’ chiaro che la richiesta si riferisce ad armi superiori, ma è anche vero che queste richiedono un esercito addestrato ad usarle. Per ora Europa e Stati Uniti hanno mandato in Ucraina principalmente gli armamenti di cui si vogliono sbarazzare, per ricostituirli con modelli più moderni. E dunque la modernizzazione della macchina bellica occidentale sta avvenendo grazie alla guerra in Ucraina. Senza questo conflitto sarebbe stato impossibile far approvare un progetto di riarmo di queste dimensioni. Una cuccagna, insomma, per l’industria bellica che languiva da diversi anni.
Passiamo al costo della guerra e dell’eventuale ricostruzione, altro punto cruciale di cui non si parla mai abbastanza. Da un altro sito risulta che dal 24 gennaio 2022 al 15 gennaio 2023 l’esborso degli Stati Uniti, che include azioni umanitarie ed aiuti militari, è stato pari a 73,2 miliardi di euro e le istituzioni dell’Unione Europea, ossia Commissione e Consiglio d’Europa, hanno speso 35 miliardi di euro. Il Regno Unito 8,3 miliardi di euro, Germania 6,16, Canada 4,02, Polonia 3,5, Francia 1,68 e Italia 1,02. Ad ottobre del 2022 il Fondo monetario ha stanziato una linea di credito di 1,3 miliardi di dollari.
Impossibile trovare statistiche attendibili sul costo di un anno di guerra in Ucraina per l’Ucraina, ma si può fare un’estrapolazione. Un anno di guerra ha prodotto una contrazione del Pil del 35 per cento. A questa vanno aggiunte le cifre di cui sopra, relative agli aiuti di vario tipo e alle linee di credito. E quindi se la guerra procede per un altro anno la spesa sarà uguale o superiore, certamente non inferiore. Più il Pil si contrae, più costerà la ricostruzione, più i paesi occidentali spendono in aiuti, più alto sarà il dedito pubblico da coprire. La domanda da porsi è: da dove arriveranno tutti questi soldi? Certo non dalle nostre tasse.
L’idea principale che circola come il coronavirus nell’informazione è dalla Russia, in particolare dai soldi russi bloccati in Occidente – che poi è quello che Ursula Von der Leyen ha affermato la scorsa settimana. Ma la auto-nominata generalessa di Bruxelles ha fatto i conti senza l’oste. Vediamo perché.
Secondo l’Economist ci sono 300 miliardi di dollari di riserve russe in Europa e Stati Uniti e fino a mille miliardi di dollari di cittadini privati russi. Le prime sono di proprietà dello stato russo e non sono state congelate ma immobilizzate, perché è stato proibito alle banche che le detengono di fare affari con la Russia. I mille miliardi includono investimenti diretti molto difficili da localizzare. In realtà, i beni degli oligarchi ammontano a 400 miliardi di dollari di cui solo 50 sono stati congelati.
Il concetto di beni e soldi congelati, poi, è ben diverso da quello di confisca. Un bene congelato rimane di proprietà del proprietario, quello confiscato cambia proprietario. Per confiscare beni privati bisogna aver commesso un reato che comporti la confisca – reati di mafia ad esempio – e dunque non sarà facile applicare questo principio alla semplice cittadinanza russa.
Molto, molto più complessa è la situazione delle riserve, che prima di essere confiscate devono essere congelate, cosa che non è ancora avvenuta. Le riserve sono poi protette dall’immunità della nazione sovrana contro accuse penali che potrebbero giustificare la confisca. Unica eccezione lo stato di guerra: infatti durante quella in Iraq Bush congelò e confiscò i soldi di Saddam Hussein. Lo poté fare perché gli Stati Uniti erano in guerra con l’Iraq, ma oggi Washington non è in guerra con Mosca. A livello diplomatico, confiscare le riserve russe toglierebbe all’Occidente uno strumento di pressione potente su Putin, che per riaverle potrebbe essere disposto a trattative; una volta rimossa quella leva l’Occidente avrebbe ben poco su cui negoziare. Ma il vero problema sarebbe la distruzione dello status quo della legislazione internazionale. Se l’Occidente si appropria delle riserve russe nelle proprie banche, allora altre nazioni potrebbero fare lo stesso con beni e depositi occidentali nelle loro. Si creerebbe così un pericoloso precedente. In secondo luogo, un’azione di questo tipo porterebbe al ritiro immediato delle riserve di altri paesi dalle istituzioni finanziarie occidentali.
Naturalmente sia Biden che Von der Leyen queste cose le sanno, ma si guardano bene dal pubblicizzarle. Il primo sta usando la guerra come trampolino di lancio per la rielezione, decisione presa dal partito per bloccare l’ascesa di Alexandra Ocasio-Cortez; la seconda invece gioca alla guerra con le vite e i soldi altrui.
Cos’è la Pridnestrovia/Transnistria – Enrico Vigna
In conseguenza della situazione in Ucraina e dei tentativi di destabilizzazione del governo atlantista e filo NATO della Moldavia, in queste ultime settimane la tensione nella regione moldava è a livelli altissimi con enormi potenzialità di sfociare in una situazione di guerra.
Con queste sintetiche documentazioni e informazioni, intendo contribuire a dare alcuni sommari dati storici e elementi per far comprendere la realtà pridnestroviana, un nodo geopolitico irrisolto che si trascina da 33 anni.
La Pridnestrovie una piccola realtà dell’Europa orientale, sempre più sottoposta ad una aggressione politica, economica, militare e spesso violentemente MEDIATICA. La questione Transnistria rappresenta una situazione indubbiamente complessa, delicata ed anche dolorosa, trattandosi di popoli fratelli. Ritengo che sia utile come compito informativo e storico, portare una informazione corretta e far conoscere documentazioni e storia di quella parte della contraddizione, rappresentata dalla piccola Repubblica Moldava della Pridnestrovie. Una realtà che è considerata uno degli “stati canaglia”, dall’imperialismo,.dalla NATO e dalle forze liberiste occidentali, per questo è sottoposta ad un pesante embargo e sanzioni commerciali da decenni. Negli ultimi anni molte ONG e la Fondazione Soros hanno intensificato campagne mediatiche in Internet, su riviste e in convegni internazionali, i cui echi sono arrivati fino in Italia. Le motivazioni sono le solite di sempre, che vanno bene per ogni occasione: diritti umani, corruzione, violazione delle regole della comunità internazionale, mancanza di “democrazia”, traffici illeciti, non disponibilità alla NATO, ecc. ecc. La memoria va immediatamente a Serbia, Iraq, Bielorussia, Afghanistan, Zimbabwe, Libano, Siria, Libia, Yemen, Cuba, Grenada, Venezuela, Nicaragua, Eritrea, Iran, Corea Nord, ecc. ecc. Questo dovrebbe già essere sufficiente per porsi domande e cercare di capire qualcosa di più, nulla di più di questo…ma almeno questo, poi ciascuno si farà una sua opinione. Un lavoro di dare voce a chi viene “silenziato” conoscendo bene quali sono i meccanismi devastanti della messa in isolamento di una realtà, di un paese e di un popolo, partendo come sempre dal presupposto politico e concettuale di lavorare per la solidarietà e soluzioni pacifiche delle contraddizioni geopolitiche tra i popoli. Ed anche in questo caso ciò che auspichiamo è un processo di soluzione graduale e pacifica delle problematiche tra le leadership della Moldavia e della Transnistria, come era stato fino all’arrivo del nuovo governo atlantista e liberista della Maia Sandu, ex funzionaria della Banca Mondiale e affiliata alla Fondazione Soros…