Palestina, dove sei?

di Farid Adly (*)

La questione palestinese è stata retrocessa nelle priorità della diplomazia internazionale. Un po’ per i grandi cambiamenti avvenuti nel mondo arabo dal 2011 in poi, ma anche e soprattutto a causa della guerra siriana. La sparizione delle notizie sulla Palestina dalle pagine dei giornali, però,

non hanno ridotto le azioni di solidarietà messe in atto da movimenti, organizzazioni e singole persone per far conoscere il dramma di un popolo che dal 1948 è stato privato del suo diritto a una nazione e a uno Stato sovrano e indipendente e la sua terra stata occupata militarmente dallo Stato di Israele, che continua a ondate a occupare sempre maggiori terre per le colonie e per impedire la nascita della Palestina.

Tagliato il ruolo dell’Onu con gli accordi di Oslo, la questione è stata ricondotta alle trattative bilaterali sotto la supervisione dell’unica superpotenza Usa, alleato strategico di Israele. Questa distorsione nel processo negoziale ne aveva compromesso i risultati già dal momento dell’avvio. Sono passati 21 anni dagli accordi di Oslo e le trattative sono a un punto morto. L’ultimo tentativo è stato con la mediazione del Segretario di Stato Usa, Kerry, fallito miseramente malgrado gli innumerevoli cedimenti del negoziatore palestinese, ricattato dalla chiusura del rubinetto degli aiuti Usa e Ue, aiuti che sorreggono di fatto le istituzioni dell’Autorità Nazionale (Anp) che non ha una struttura economica propria per poter stare in piedi. Il governo Netanyahu ha continuato a costruire e allargare le colonie israeliane nelle terre destinate al futuro Stato di Palestina e non ha mai messo in pratica quegli accordi per il rilascio dei prigionieri che lui stesso ha firmato. La retorica della destra israeliana ha puntato i piedi su una condizione insormontabile e assurda: pretendere dalla parte palestinese di riconoscere che Israele è lo Stato degli ebrei, degradando lo status dei diritti dei palestinesi che sono suoi cittadini da oltre 60 anni ed escludendo da ogni futura trattativa i diritti dei profughi palestinesi al ritorno, diritto sancito da moltissime risoluzioni dell’Onu.

Alla fine dello scorso aprile, è scaduto il termine per il raggiungimento di un accordo e la mediazione di Kerry è finita nel nulla. Difficile sapere se e quando si riavvieranno futuri negoziati e su quale base.

Molti osservatori superficialmente hanno scritto che il negoziato è fallito perchè il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha siglato l’accordo di riconciliazione con il movimento Hamas. E’ un’analisi superficiale che sposa la propaganda israeliana e scambia la causa con l’effetto. E’ nella natura delle cose che il movimento palestinese sia unito in tutte le sue componenti; una scelta politica che impone la lotta di liberazione nazionale dall’occupazione israeliana. Una condizione di interesse nazionale che, purtroppo, i due movimenti egemoni – Fatah nazionalista e Hamas islamista – non hanno fatto prevalere sull’interesse di parte e dal 2007 le due piccole entità territoriali (Gaza e Cisgiordania) sono amministrate da due strutture che non dialogano e non si riconoscono. Una condizione ottimale per la politica egemonica israeliana che dopo aver ottenuto l’isolamento dei palestinesi dal contesto regionale ha goduto della loro divisione interna. Tel Aviv ha condotto una sanguinosa guerra contro la popolazione di Gaza nel 2008, con migliaia di morti e continua a praticare un embargo criminale che riduce al minimo le condizioni di vita nella Striscia. E contro l’Anp, i governi israeliani hanno continuato la politica del rinvio di ogni applicazione degli accordi di pace. Il motto di Tel Aviv è stato quello di “negoziare per negoziare” e ogni tappa si concludeva con nuove condizioni al rialzo. Mentre i palestinesi si laceravano in scontri anche militari fra di loro, i governi israeliani sono stati negli ultimi anni di unità nazionale, raggruppando forze che vanno dalla destra espansionista e razzista fino ai socialisti moderati. Con quale pretesa il premier Netanyahu vuole imporre ai palestinesi cosa fare in casa loro, mentre lui guida un governo di unità nazionale?

La responsabilità del fallimento del negoziato ricade tutta sul governo israeliano che, ricattato dalle frange estremiste, per non cadere ha rifiutato la scarcerazione dei detenuti palestinesi, la cui liberazione era stata prevista negli accordi di Oslo. Un ritardo di 21 anni.

Per i palestinesi si pone, per uscire dall’impasse, la questione di elaborare nuove strategie. La timida offensiva dell’Anp sul fronte diplomatico ha dato alcuni frutti, come quello di accrescere la presenza negli organismi internazionali. Ma anche in questo settore le mosse del presidente Abbas sembrano tattiche, per mandare segnali a Tel Aviv piuttosto che rinsaldare le fila palestinesi e ottenere maggiori riconoscimenti, per condurre poi i negoziati nei canali della legalità internazionale, cioè il ritorno all’Onu e non riconsegnarli di nuovo alla trattativa bilaterale con la mediazione sbilenca statunitense. Una strategia di offensiva diplomatica dovrebbe prendere in considerazione la richiesta di aderire al Tribunale Penale Internazionale e chiedere di processare i generali israeliani che hanno compiuto crimini contro l’umanità nei bombardamenti sulla popolazione di Gaza e nell’uccisione, nel 2010, dei volontari (sostenitori stranieri) sulla nave turca Mavi Marmara, in acque internazionali.

(*) Riprendo questa analisi dall’ultimo numero di «Come solidarietà» (o meglio di «Solidarietà come»: pur essendo il direttore responsabile… sbaglio quasi sempre il nome) che dal primo luglio è in vendita nelle strade o in abbonamento. (db)

 

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