Pansindacalismo
Ancora su «Lavoratori come farfalle» di Giorgio Cremaschi: una recensione di Gian Marco Martignoni
Ho letto a ridosso della grande manifestazione della Fiom a Milano, il 14 novembre, il libro di Giorgio Cremaschi e quindi scrivo questa riflessione condividendo l’appunto che l’ottimo Mauro Antonio Miglieruolo gli rivolge nella sua bella recensione (qui in blog) laddove scrive: «si limita a una fedele descrizione dei fatti, che non analizza politicamente. Tutto sembra succedere in conseguenza di errori politici e dall’astratta esistenza di differenza di linee nelle quali gli errori giocano un ruolo decisivo per assicurare la prevalenza di quelle di destra. Completamente fuori dalla sua prospettiva sembra essere una analisi di classe delle lotte che si sono sviluppate in Italia».
Un appunto quello di Miglieruolo che nell’evidenziare il pansindacalismo che contraddistingue l’impostazione di Cremaschi, in pratica demolisce la fondatezza della sua sferzante analisi dei fatti, poiché se la stessa non fa i conti con la frantumazione-scomposizione intervenuta nel mondo del lavoro (analizzata in modo insuperabile nelle opere del geografo marxista David Harvey) e prescinde da un approfondimento delle cause che hanno determinato il passaggio da una fase di lotte offensive a una fase di lotte difensive, inevitabilmente questa semplificazione della realtà conduce nell’addebitare la “disfatta” del movimento sindacale a un “tradimento” dei gruppi dirigenti.
Non casualmente Cremaschi nel denunciare l’abiura da parte di Luciano Lama (nell’intervista a Eugenio Scalfari del 24 gennaio 1978) della rivendicazione del salario come una variabile indipendente rispetto agli altri indici economici – teorizzata da Bruno Trentin – sostiene che «il caso sindacale italiano del secolo scorso si sta rovesciando oggi nel suo opposto».
Provengo dalle file del gruppo «il manifesto», in molti ricorderanno la teorizzazione da parte di quella formazione politica del caso italiano come il più avanzato dell’Occidente capitalistico. Sembra qualcosa di surreale che questo caso italiano si sia sciolto come neve al sole e riverberato nel suo opposto, sicché con la Polonia – altro Paese profondamente cattolico – l’Italia è da tempo la nazione politicamente più arretrata d’Europa, sulla scorta del craxismo prima, del berlusconismo-leghismo successivamente e oggi del renzismo anti-operaio ma ciò non venga tematizzato e messo a fuoco da un intellettuale radicale (non certamente comunista) qual è Giorgio Cremaschi.
Altresì – come ho evidenziato (qui in blog) nella recensione alla meritoria ricerca comparata «Dove sono i nostri» del collettivo Clash City Workers, il Pd del nuovo corso renziano è passato dalla teorizzazione dell’equidistanza fra capitale e lavoro al sostegno, senza alcuna remora, delle ragioni del capitale e dell’impresa.
Sicché l’intero movimento sindacale e in particolare la Cgil, saltata la concertazione da destra, si trova senza alcuna sponda politica, poiché la rissosità e l’inconcludenza dei gruppi dirigenti della nuova sinistra hanno impedito e impediscono tutt’ora la costituzione di un aggregato politico sulla falsa riga della Linke, di Syzra, ecc.
Pertanto un’analisi dei rapporti di forza non è mai puramente riconducibile al solo campo d’azione sindacale, ma deve anche essere riferita all’insieme dei rapporti politici, sociali e culturali su scala nazionale e internazionale, altrimenti – mi ripeto, ma è necessario insistere su questo concetto – si scade nel pansindacalismo, per cui se lo Statuto dei Lavoratori è stato il prodotto di una stagione di lotte di grande spessore, devo comprendere perché oggi questa legge è sotto il fuoco concentrico di quasi tutto il Parlamento e delle forze padronali.
Non dimenticando che l’ideologia neo-liberista da tempo punta alla svalorizzazione del lavoro al fine di contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto e perciò il pesante arretramento dei poteri delle organizzazioni sindacali e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici colpisce tutto il fronte sindacale su scala europea, a meno di non ridurre la nostra visuale in un’ottica tutta nazionale e fuori dal tempo.
Dopodiché, essendo stato eletto in qualità di delegato sindacale nel 1979 in una delle più importanti fabbriche della provincia di Varese (425 dipendenti a quel tempo) con il conseguente ingresso nel direttivo provinciale della Fiom, conosco molto bene Giorgio Cremaschi e ho potuto seguire tutta la parabola sindacale.
Parabola sfociata nell’ultimo quinquennio nel capeggiare – cosa mai avvenuta in precedenza nella sinistra sindacale che dal 1990 con Gian Paolo Patta, Fausto Bertinotti e Nicola Nicolosi abbiamo organizzato in Cgil (si veda qui in blog la mia recensione al libro di Andrea Montagni) – un’opposizione interna alla Cgil, denominata «Il sindacato è un’altra Cosa», dai caratteri assai minoritari e tutt’altro che dirompenti a livello di massa, al di là delle visibilità mediatica concessagli in una certa fase politico-sindacale.
Visibilità mediatica che dalla vicenda del referendum Fiat a Pomigliano gli è stata letteralmente “rubata” da Maurizio Landini, da cui – è risaputo – Cremaschi ha preso sonoramente le distanze, per alcune mediazioni compiute dal segretario della Fiom con Susanna Camusso attorno a cruciali vicende sindacali, al netto della teatrale divisione nell’ultimo congresso nazionale Cgil.
Purtroppo la storia non si fa con i se; perciò se non è avvenuta quella rottura in CGIL immaginata in certi momenti topici da Cremaschi nel suo pampleth, significa che la sua esperienza sindacale, tutta percorsa internamente nella gloriosa categoria della Fiom, non gli ha permesso di comprendere come il mondo del lavoro è composto da livelli di coscienza non omogenei e differenziati: penso agli edili, a gran parte del commercio (se si esclude la grande distribuzione), agli artigiani e ai lavoratori agricoli ove, stante la frammentazione del tessuto produttivo, l’attività quotidiana delle relative categorie è quella della tutela e non certo del primato della rivendicazione.
Scrivo queste note con una certa amarezza, poiché essendo in aspettativa sindacale (legge 300 del 1970 cioè lo Statuto dei Lavoratori) dal maggio del 1985, ho avuto la fortuna di seguire per ben tredici anni la categoria degli edili, mentre dal 1997 esercito il ruolo di rappresentante di bacino provinciale della Cgil per il settore dell’artigianato.
Al punto che senza i tanto vituperati enti bilaterali – che per la cronaca a partire dall’istituzione delle Casse Edili sono il prodotto anche di un accordo sindacale del 1988 a firma Fausto Bertinotti – le capacità di tutela e di rappresentanza di questi settori deboli del mondo del lavoro sarebbero ancor più complicate di quanto ci si può immaginare.
Infine, tutti ci auguriamo e lavoriamo affinché entri in campo «una nuova forte soggettività del lavoro», che rompa con i processi di passivizzazione sindacale e politica determinatesi a partire dagli anni ’80 con la sconfitta alla Fiat, ma bisogna stare nella consapevolezza di qual sia lo stato delle relazioni sindacali e dei rapporti di forza, a partire a esempio dalla lettura scientifica che proprio il collettivo Clash City Workers ci ha consegnato recentemente.