Peccato aborigeno

Una poesia di Leonard Peltier e un articolo di Marco Cinque (*)

Peltier

 

Peccato Aborigeno

Ognuno di noi ha inizio nell’innocenza.

Tutti diventiamo colpevoli.

In questa vita ti ritrovi colpevole

di essere quello che sei.

Essere te stesso, questo è il Peccato Aborigeno,

il peggiore di tutti i peccati.

E’ un peccato per il quale non sarai mai perdonato

Noi indiani siamo tutti colpevoli,

colpevoli di essere noi stessi.

Quella colpa ci viene insegnata dal giorno in cui nasciamo.

La impariamo bene.

A ognuno dei miei fratelli e delle mie sorelle dico,

siate orgogliosi di quella colpa.

Siete colpevoli solo di essere innocenti,

di essere voi stessi,

di essere indiani,

di essere umani.

E’ la vostra colpa a rendervi sacri.

Peltier: 39 anni da prigioniero

di Marco Cinque

«L’unico indiano buono è l’indiano morto» recitava il vecchio adagio razzista (purtroppo mai smesso) degli yankee colonizzatori; ma se proprio i cosiddetti musi rossi, soprattutto quelli che si permettono di alzare la testa, non si riesce ad accopparli, allora seppelliteli in galera e buttate via la chiave.

E’ capitato all’emblema dei prigionieri amerindiani, quel Leonard Peltier di cui ormai tanti conoscono la vergognosa storia, una vicenda già mille volte raccontata. Lui era nel mirino vendicativo dell’Fbi, che ha escogitato ogni trucco, ogni falsità investigativa, ogni bassezza giudiziaria per trasformare un innocente in una tomba di carne, condannandolo a scontare due ergastoli nelle prigioni di quegli sceriffi planetari la cui stella di latta ormai non splende più sull’inganno dei loro petti tronfi e vuoti.

Basta fare un giro nel web e sull’ormai settantenne Peltier saranno disponibili grandi quantità di documenti e testimonianze che ne illustrano esaurientemente la tristissima vicenda. Siamo ormai a 39 anni di detenzione, un tempo infinito passato dietro le sbarre; ma già un altro prigioniero politico – James “Occhio d’Aquila” Weddel – nel suo libro «Guerriero Dakota», avvertiva: «se hai la sventura di essere indiano, i tuoi famigliari ti piangeranno per morto già sui banchi del tribunale, al momento della sentenza» e per chiarire l’aria di razzismo che ancora tira nel Paese “più democratico del mondo”, aggiungeva: «se Gesù Cristo fosse nato indiano, qui negli Stati uniti, come minimo sarebbe stato condannato per pedofilia soltanto per aver detto “lasciate che i bambini vengano a me”».

Le carceri statunitensi hanno percentualmente più gente in galera di qualsiasi altro al mondo: primi in classifica (sempre in percentuali) nativi, seguiti a ruota da afroamericani, ispanici e via via fino ai bianchi, che però devono essere rigorosamente dei “signor nessuno”. Infatti, un altro prigioniero, ammazzato nel 2006 all’età di 76 anni, dal boia di San Quentin, cioè il vecchio cherokee Ray “Running Bear” Allen, in una sua lettera chiariva: «Non sono l’unico a essere innocente e qui, negli Stati uniti, la giustizia è direttamente proporzionata al tuo conto in banca e al colore della tua pelle».
Il razzismo però non si limita solo a comportamenti deviati e crudeli di singole persone, gruppi e organizzazioni, ma si manifesta persino nelle leggi: la “major crime act”, legge federale del 1885 tuttora in vigore, dice in parole povere che se sei un nativo americano, a differenza di qualsiasi altri cittadino statunitense, puoi essere condannato a morte anche in uno Stato dell’Unione che non prevede la pena di morte; alla faccia di qualsiasi barlume di equità e giustizia. Poi ci sono altre leggi, per lo più inosservate e inapplicate, come quelle che nei processi penali a carico di nativi americani prevederebbero che almeno il 15% dei giurati appartenga all’etnia dell’imputato. Ma – come volevasi dimostrare – la giuria di Leonard Peltier era composta esclusivamente da gente bianca e lo stesso è valso per le giurie che hanno condannato James Weddel, Ray Allen, Fernando Caro e tanti altri nativi che marciscono nelle carceri, nei bracci della morte e nei cimiteri degli Stati uniti.
Anche in Italia la storia di Peltier è stata raccontata ma purtroppo è relegata nell’oblio come l’interrogazione che oggi marcisce senza risposta in Senato.
Dopo la rinuncia di Bill Clinton a firmare la grazia per Peltier, perché mai lo stesso attuale presidente Obama (che si è rimangiato alla grande la promessa di chiudere Guantanamo) dovrebbe oggi firmare per la liberazione di uno dei fondatori dell’Aim, cioè l’American Indian Movemment, e inimicarsi l’FBI?

In ogni caso, sia che potenti & politici facciano o, più probabilmente non facciano, qualcosa, alla fine siamo noi – cittadini e cittadine – che abbiamo il compito di far sentire la nostra voce, in ogni campo, in ogni ambito, in ogni modo; ricordando però sempre le parole che un prigioniero amerindiano scrisse alle persone di un’organizzazione che voleva impegnarsi a sostenere la sua causa: «Se siete venuti qui per aiutarmi, grazie ma preferisco fare da solo. Se invece siete convinti che la vostra libertà dipende anche dalla mia, allora sì, possiamo cominciare a lavorare assieme».

(*) Chiunque voglia documentarsi, sia in lingua italiana che in inglese, può abbondantemente farlo nel web. Qui in blog trovate 4 post di/su Leonard Peltier. Nel suo articolo Marco Cinque accenna alla richiesta di grazia che in questi giorni viene di nuovo avanzata anche da Andrea De Lotto, un insegnante italiano che vive a Barcellona e si batte da anni per la liberazione di Peltier; testo petizione riferimenti video e foto su http://www.reset-italia.net/2015/02/03/leonard-peltier-obama

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *