Pellerossa, ritorno al futuro-2
Science fiction e amerindi
di Erremme Dibbì (*)
SECONDA PARTE
Il futuro è pellerossa. Riparazioni tardive?
Se il Quellen di Silverberg dividerà il nuovo mondo in pace con l’uomo dalla pelle rossa, alcuni autori immaginano che il mondo di domani (o meglio i tanti, possibili futuri) saranno una riparazione – tardiva – solo per gli indiani.
Harry Harrison, in «Via dal fuoco» (nota 23), lo fa in modo macroscopico. Il Sole sta per trasformarsi in una nova. E’ possibile però salvare qualcuno in un «mondo parallelo» (classico clichè fantascientifico) in maniera che la specie umana non si estingua completamente. Guarda caso saranno gli irochesi, gli indiani delle Sei nazioni cioè uno dei popoli più civili della vecchia Terra parallela dove furono annientati dai colonizzatori bianchi. L’operazione di salvataggio riesce e, sia pure con qualche confusione finale, il mondo nuovo riceve «i colonizzatori umani: gli indiani, in fuga dal fuoco che avrebbe distrutto il loro pianeta. Che razza di posto sarebbe diventato?».
La stessa domanda (un mondo in cui gli indiani avessero “vinto” o in cui Colombo non avesse “scoperto” l’America) è presente in molti romanzi di quel particolare sottogenere della science fiction che esamina «mondi paralleli» o diversi sviluppi possibili della linea temporale nella quale noi viviamo. Più articolato è lo “scontro finale” (che vedrà i pellerossa vincere) nel breve racconto di Bill Massenger significativamente intitolato «Noi indiani» (nota 24). Gli uomini bianchi dopo «aver avvelenato i pesci nelle acque e trasformato i fiumi in paludi putride» decidono di restituire in mondo agli indiani:
«Non eravamo più ciò che eravamo stati: eppure rimaneva qualche eredità capace di riunire il nostro passato al nostro futuro. Quando l’uomo bianco se ne andò, noi restammo».
Ma, dopo molto tempo, gli uomini bianchi partiti per le stelle decidono di tornare. Il loro approccio è il solito: la violenza. I “nuovi” indiani riescono stavolta a sconfiggere i “nuovi” invasori, alleandosi con qualcuno di loro più “umano”. Ecco le frasi finali del racconto:
« – Se un vascello dovesse tornare nella nostra atmosfera, per prima cosa riceverà un avvertimento. Se questo non dovesse servire, verrà distrutto.
– E se l’uomo bianco venisse in pace? – ho chiesto.
Oryan ha riso. – Sul mio mondo abbiamo un vecchio detto: “L’uomo bianco parla con lingua biforcuta”.
Non avevo mai sentito quella frase e così ho chiesto a Oryan cosa significhi.
– Significa – mi ha risposto – che noi uomini rossi dobbiamo restare uniti».
Per concludere questo paragrafo citeremo uno degli autori più importanti della recente letteratura statunitense (non solo fantascientifica) cioè Philip Dick. In «La penultima verità» (nota 25) uno dei personaggi centrali è David Lantano, «un cherokee purosangue». Da dove viene Lantano se non ci sono più pellerossa?
«Ma non ci sono più indiani. […] Ricorda quegli articoli che circolavano prima della guerra? Il programma di ripopolamento etnico, in corso di realizzazione su Marte, riguardava in pratica tutti gli indiani. E furono uccisi durante il primo anno, quando la guerra era limitata a Marte».
Infatti Lantano non è un indiano vero o perlomeno non viene dal nostro tempo. In coerenza con il titolo di questo splendido romanzo (e con la sua ricerca esistenziale) Dick si avvicina – e ci avvicina – progressivamente alla “verità” su Lantano senza concludere mai: perché non esiste l’ultima verità ma solo una penultima. Sentite questo dialogo nell’ultima parte del libro.
« – Lei è un indiano d’America – disse Foote – e viene dal passato. In un modo o nell’altro si è impadronito di uno dei moderni apparecchi per il viaggio nel tempo.
[…]
– Passavo di lì per caso. Stavo guidando una schiera di guerrieri. Lei non mi avrebbe riconosciuto allora. Ero vestito in modo diverso ed ero coperto dai colori di guerra.
– Cherokee – disse Nicholas.
– Sì – assentì Lantano – secondo il vostro calendario, 15° secolo. Perciò ho avuto molto tempo per prepararmi.
– Prepararsi a cosa?
– Lei sa chi sono, Foote – disse Lantano – o meglio sa chi sono stato nel 1982. […] E chi sarò. […] Mi troverà nell’episodio 19, versione A. […] Impersono il generale Dwight David Eisenhower in quella scena, completamente spuria, con Churchill e Roosevelt».
Lantano non è l’ambiguo e “consolatorio” indiano del futuro (proposto in altre storie): sta lottando per il potere, con gli stessi metodi dei bianchi. E’ un «uomo yancy», cioè uno di coloro che “riscrivono” la storia, producendo nuovi documenti “antichi” che sono interamente falsi. La versione vera degli accordi di Yalta, a esempio, la conosciamo davvero? … insinua Dick. O è anch’essa una «penultima» verità? Chi sarà il vincitore? Forse Lantano? Lo sapremo solo – riflette il protagonista – nel momento in cui vedremo chi controlla il simulacro Yancy, l’intera rete delle informazioni che trasmette un mondo falso facendo credere che la guerra è in corso mentre è finita da 15 anni.
Forse Lantano ce la farà; e non sarà certo peggiore di altri.
Domani: gli indiani per amici e/o alleati.
Per concludere questo panorama vi è un gruppo di autori (che, non a caso,sono poi in maggioranza autrici) che in anni recenti sentono scattare nei confronti dei pellerossa una consapevole solidarietà (fra emarginati e fra compagni di una lotta comune) che si nutre di affinità ideologiche e soprattutto esistenziali. Affinità nel senso di non accettare anzitutto quella che gli Hopi chiamano «koyaanisqatsi» (nota 26) cioè una vita folle, tumultuosa, in disintegrazione, poco armonica. Cercando invece – con loro – di vivere in pace con la natura invece; anzi «aprirsi, abbandonarvisi, dissolversi, scorrere e riprendere forma con lei». (nota 27). Un risveglio della coscienza in cui «nessuno abbia potere materiale su alcuno e nessuno possa rifiutare a un altro le cose di cui ha bisogno». (nota 28)
Due esempi maschili prima e poi numerosi femminili. «Ecotopia» ovvero la secessione degli Stati del Nordovest degli Usa (per ricostruire una società in pace con la natura) immaginata da Ernest Callenbach nel romanzo omonimo. (nota 29)
Una secessione non pacifica: occorrerà combattere come quei «guerrieri dell’arcobaleno» (ai quali Greenpeace dichiara di ispirarsi) di questa antica profezia pellerossa: «Quando la Terra sarà malata e gli animali scomparsi, arriverà un gruppo di persone di ogni fede, razza e cultura che riporterà il mondo alla sua antica bellezza. Questa nuova tribù si chiamerà i guerrieri dell’arcobaleno».
Il giornalista straniero che, nel romanzo di Callenbach, visita Ecotopia (e che ha molti pregiudizi verso i secessionisti) annota con stupore nel suo taccuino:
«Gli ecotopiani sono abbastanza imprecisi riguardo al tempo: pochi portano l’orologio. […] “Un indiano non lo si sarebbe mai visto portare un orologio”. E moltissimi ecotopiani si sentono vicini agli indiani e in un certo senso invidiano i loro territori perduti nella selvaggia America. Anzi, forse è proprio questo il più grande mito ecotopiano: capita di sentire riferimenti a cosa farebbe o non farebbe un indiano in una data circostanza. Alcuni prodotti ecotopiani […] s’ispirano direttamente agli indiani ma quel che più importa è l’aspirazione a vivere in sintonia con la natura, a “camminare leggeri sulla terra”, a trattare la terra come una madre».
Molto diverso lo scenario di una “tacita” solidarietà fra emarginati, immaginata da John Varley in un romanzo breve tanto bello quanto (purtroppo) pochissimo conosciuto da noi, «La persistenza della visione». (nota 30) Il protagonista ha sentito parlare di un luogo in cui gli abitanti, tutti sordi e ciechi, stanno tentando di costruire una società a loro misura. Dall’esterno arrivano continuamente aggressioni: così questa particolare città nel New Mexico è circondata da un muro. Che non difende granché. Il protagonista, sotto il muro, incontra un uomo cavallo; «forse era un navaho» pensa, scoprendo poi che lo è.
« – Che cos’è questo posto? – indicai il muro. […] – Perché vuoi saperlo? – Sembrava insospettito. Così, semplice curiosità. […] Maledetto muro. […] Questi qui, noi facciamo la guardia per loro, capisce? Magari non ci piace quel che fanno ma ne hanno passate tante, capisce?».
E più avanti, verso la fine di questo breve romanzo, avremo la conferma che, là nel mondo “esterno”, solo i Navaho «avevano rispetto per quella gente, anche se la giudicavano strana». Erano anche gli unici a fare affari con loro ed erano onestissimi.
Ma è nella fantascienza “al femminile” che si avverte l’onda di una solidarietà vicinanza con i nativi. Accenneremo rapidamente a due autrici “minori” – Andre Norton e Rena Vale – per poi dire qualcosa di più su Kate Wilhelm e soprattutto Ursula Le Guin.
Andre Norton è una delle tante autrici inizialmente costretta a usare uno pseudonimo maschile (Andrew North, nel suo caso). Ha scritto due romanzi – introvabili in italiano – i cui protagonisti sono rispettivamente un sioux e un giovane navajo (su un pianeta alieno).
Invece di Rena Vale non si sa granché. In «L’agonia degli immortali» (nota 31) scrive di un mondo post-catastrofe in cui «il popolo della speranza» è formato dai discendenti degli indiani hopi, zuni e pueblo. Pur con qualche imprecisione e ingenuità nel descriverli, l’autrice simpatizza con loro piuttosto che con (l’ennesimo) missionario che va a parlar loro di Dio e viene cacciato.
Recentemente è stato tradotto in italiano «Il tempo del ginepro» di Kate Wilhelm (nota 32): è uno di quei romanzi che non fanno grandissima impressione alla prima lettura ma poi “sedimentano”, tornano continuamente in mente, “maturano”, si fanno rileggere con occhi nuovi. Anche qui i pellerossa sono inguaribili (e incompresi) portatori di una saggezza antica, gli unici però capaci di aiutare la protagonista – una bianca – violentata (in tutti i sensi) dal suo mondo, quello dei visi pallidi. Dagli indiani Jean prenderà lezioni di sopravvivenza, di difesa, di medicina.
«In pratica non c’era nessun malato mentale in que luogo e non c’era mai stato. L’ incidenza dei crolli psicologici era storicamente così irrilevante da essere considerata del tutto insignificante negli studi sugli indiani. Jean aveva letto nella biblioteca […] tutti gli studi. Riguardavano sempre gli indiani come apparivano nella mente di coloro che facevano gli studi. Venivano criticati perché non erano buoni manager e la soluzione consisteva nell’inculcar loro il senso di competitività che mancava; avevano bisogno di capi forti che avessero l’autorità di prendere decisioni e farle rispettare. Jean sorrise pensando alla posizione di comando di Robert e alla forza che lo sorreggeva: il suo potere consisteva nella capacità di persuadere e convincere. Si chiese se li avrebbe mai capiti, se le ci sarebbe voluta un’intera vita passata fra loro».
Da quel modo di vivere Jane capirà profondamente qualcosa. Nel finale, quando non sa se dovrà «ingannare» (a fin di bene) il suo popolo – i bianchi, naturalmente – per offrire loro l’ennesima, forse vana, possibilità di riscatto, ciò che davvero l’aiuterà a decidere è… un coyote che ride alle sue spalle. E veniamo a Ursula Le Guin che ci ha offerto il più completo romanzo-saggio (con tanto di cassetta musicale incorporata) sugli indiani del futuro. «Sempre la valle» (nota 33) non arriva a caso nella produzione della Le Guin. Anzitutto per motivi “familiari”. Il padre della Le Guin è l’antropologo A. L. Kroeber (nota 34): studiò a lungo i pellerossa e in particolare Ishi, l’ultimo indiano dell’etnia Yahi. La madre, Theodora Kroeber, su Ishi pubblicò anche un libro (nota 35). Senza dubbio Ursula K. – appunto Kroeber – Le Guin si è spesso, apertamente o tacitamente, ispirata alla conoscenza del mondo (meglio sarebbe dire: dei diversi mondi) pellerossa.
I suoi racconti in «La rosa dei venti» (nota 36) a esempio hanno questa chiarificante prefazione dell’autrice:
«Molte delle popolazioni americane che furono spodestate dagli invasori giunti dall’Est e guidati dalla bussola strutturavano il loro mondo sulle 4 direzioni (o semidirezioni) del vento, più altre due, Sopra e Sotto, egualmente radiali rispetto al centro-io-qui-ora che può sacralmente contenere le altre 6 e quindi anche tutto l’Universo. Questa è la bussola delle 4 dimensioni, spaziale e temporale, materiale e spirituale; la Rosa del Nuovo Mondo».
«Sempre la valle» è un libro straordinario ma passato quasi inosservato in Italia (se non per l’attenzione dedicatagli da Oreste Del Buono, in più occasioni). Racconta la California del futuro (l’anno 50.000) in cui la gente cerca – in un mondo impoverito, allo stremo – di vivere secondo ritmi naturali. Qui la Le Guin è una paradossale archeologa del futuro che raccoglie (per noi, nel passato) documenti, leggende, musiche, opere drammatiche, poesie e poi, per chi vuole approfondire, tutto l’armamentario classico dello studioso: parentele, cibi, strumenti musicali, danze, medicine, giochi, disegni… e infine i numeri e il glossario. E’ un manuale del futuro ma forse non di un futuro così lontano come l’anno 50.000 se è vero che, negli Usa, alcuni «aspiranti kesh» giù usano il libro della Le Guin come “guida” nelle loro micro-comunità.
Nella «osservazione iniziale, Ursula Le Guin annota con ironia: «La difficoltà di tradurre da una lingua che non esiste ancora è notevole ma non va tuttavia esagerata. Dopotutto anche il passato può essere altrettanto oscuro quanto il presente».
NOTE SECONDA PARTE
23 – Harry Harrison, «Via dal fuoco» in «Catastrofi» citato (confronta nota 12).
24 – Bill Massenger, «Noi indiani» in «Asimov, antologia di fantascienza», numero 6, Siad edizioni 1985.
25 – P. K. Dick, «La penultima verità», Editrice Nord 1981; oggi riedito da Fanucci.
26 – «Koyaanisqatsi» è anche il titolo di un insolito film del 1982 di Godfrey Reggio con musiche di Philip Glass: illustra mirabilmente le tesi hopi sulla necessità di un altro “stile di vita” con il solo supporto di immagini, senza parole.
27 – La citazione è ripresa da «Wovoka, il messaggio rivoluzionario dei nativi americani», Libreria editrice fiorentina, 1982.
28 – Così dice a esempio il «Messaggio degli irochesi al mondo occidentale», edizioni La Fiaccola, 1986.
29 – Ernest Callenbch, «Ecotopia il romanzo del vostro futuro», Mazzotta, 1979.
30 – John Varley, «La persistenza della visione» è nell’antologia «I mutanti», Editrice Nord, 1983.
31 – Rena Vale, «L’agonia degli immortali», Libra editrice, 1975.
32 – Kate Wilhelm, «Il tempo del ginepro», Editrice Nord, 1987.
33 – Ursula K. Le Guin, «Sempre la valle», Mondadori, 1986: libro con cassetta musicale.
34 – L’opera più nota di A. L. Kroeber è «Anthropology» (del 1936) parzialmente tradotta in italiano in Kroeber, «Antopologia. Razza, lingua, cultura, psicologia, preistoria», Feltrinelli, 1983.
35 – Theodora Krober, «Ishi. Un uomo tra due mondi», Jaca Book, 1984.
36 – Ursula Le Guin, «La rosa dei venti», Editrice Nord, 1984.
(*) da «I giorni cantati» (n 3-4 del dicembre 1987) rivista trimestrale sulle «culture popolari e culture di massa», diretta da Sandro Portelli. Erremme Dibbì è l’abituale sigla con la quale all’epoca si firmavano Riccardo Mancini e Daniele Barbieri. Il pezzo non è stato aggiornato, salvo per segnalare un paio di ristampe nelle note. (db)