Stragi, per esempio il 28 maggio
di Antonio Fantozzi
Io vedo la guerra, e la barbarie è nei miei sogni. La matita va per conto suo, ha urgenza di scrivere parole rabbiose. Provo a frenarla, ma lei mi punge. E di sangue saranno le parole che verranno.
Una mattina calda d’agosto. Una cappa d’afa avvolge la città. Un taxi bianco si ferma davanti alla stazione. E ne scendono una signora anziana e un anziano signore, e un bambino pieno di stupore. Con un mucchio di valigie. E c’è uno zainetto con attaccato un secchiello e una paletta di plastica colorata. Vanno in vacanza, a godersi il mare e il sole.
Arrivano altri taxi e altri partono. E c’è un viavai di macchine e autobus. Oltre la strada si stende la città, e là in fondo, le vedi?, due torri famose bucano il cielo in Piazza Grande.
C’è la fila ad ogni sportello e gente che telefona e altra all’edicola per un giornale. E c’è gente nei bar, che gusta un caffè o un cappuccino, una pasta o un panino. Un formicaio colorato di uomini, donne e bambini. E tanti hanno in mano un gelato. C’è chi discute in un capannello, chi s’incolla ai tabelloni e chi guarda una cartina. E ogni tanto una voce dagli altoparlanti annuncia un treno in partenza, e un altro in arrivo e un altro in ritardo. Una ragazza abbronzata si fa vento col giornale e un signore si terge il sudore dalla fronte e dal collo. Un uomo con la valigia arriva e si guarda intorno spaesato, poi prende una direzione e scompare tra la folla. E treni, tanti treni per chissà dove, per ogni posto. E i bambini li guardano pieni di stupore. E anche il bambino arrivato col taxi li guarda, tenendo il nonno per mano, e sogna.
Gente che va e gente che viene, gente che parla tutte le lingue del mondo. E gente che aspetta altra gente che arrivi, con un treno dal nord o dal sud più profondo. E piene sono le sale d’attesa, di gente tranquilla e paziente. E c’è anche la nonna, che aspetta il marito e il nipote, e guarda il piccolo orologio che ciondola dalla catenina sul petto. Un minuto in ritardo rispetto a quello sul muro. Poi il mondo scompare in un immenso boato e una nuvola di fumo acre e immondo sporca la città. E lassù vola un secchiello di plastica colorata e una paletta.
La bomba scoppiò alle 10 e 25 del 2 di agosto del 1980. Un treno fermo sul primo binario creò un’onda d’urto che causò il crollo di un’ala dell’edificio. Morirono ottantacinque persone e duecento rimasero ferite. Macerie e rottami e brandelli di carne dappertutto. Corpi bruciati e irriconoscibili, e altri polverizzati. Come se ci fosse ancora la guerra e quello fosse il doloroso epilogo di un bombardamento. E sangue ovunque, che diffondeva nell’aria un odore come di ferro rugginoso e bagnato.
Un giorno di fine autunno. Un giorno ormai prossimo all’inverno. Con il vento che si infila freddo nei portici di fianco al Duomo percorrendo silenzioso Galleria Vittorio Emanuele fino a Piazza Della Scala. E una promessa di neve nel colore latteo del cielo. L’aria è piena del profumo delle caldarroste. Lei si ferma a comprare un biglietto della lotteria a uno dei tanti baracchini intorno alla piazza. Dentro ci sta infilato un uomo, che indossa un paio di occhiali neri come la notte. Perché la fortuna è cieca, come i suoi occhi. Raccolta nel cappotto di lana. Con la sciarpa intorno al collo e un cappellino in testa. Una ciocca di candidi capelli le disegna una virgola sulla fronte. Ripone in tasca il biglietto, ci picchia sopra la mano, quasi lo coccola e sorride. Un volo di colombi le passa sopra e il battere di ali è un applauso che man mano si allontana.
“Buon Natale”, dice all’uomo. “E buon anno”.
Si infila in Galleria adocchiando le vetrine. Ce n’è una bislacca e bizzarra, che vende robe magiche, trucchi e giochi di prestigio e altre cose strampalate. Lei si ferma, si fa schermo con la mano e tocca col naso la vetrina che s’appanna, e allora entra. E discorre con un giovanotto sorridente che le mostra una cosa, e poi un’altra, e un’altra ancora. E lei sorride entusiasta. Che sì, questa roba qui va proprio bene, per il nipotino. Per la festa del Natale. E già se lo immagina. E lo vede con la mente. Con un sorriso grande così, senza un dente, una finestra aperta in un bianco di latte.
Guarda nella borsetta e poi la fruga. Porta la mano alla fronte ed esclama qualcosa e poi si scusa. E ancora sorride. Il denaro non basta. Poi esce.
“Torno subito”, dice.
Il giovanotto prepara il regalo, lo incarta di rosso e ci mette un grosso fiocco del colore dell’oro.
Lei attraversa la piazza, davanti al Duomo, poi gira a sinistra e lo costeggia. Ancora pochi passi ed è arrivata. La banca è ancora aperta. E lei ha un conto piccolino, proprio lì. In piazza Fontana. Entra sollecita. E un ruggito improvviso le frantuma i timpani e le morde la carne, e la sbrana. E il corpo si spezza in mille parti. Una nube rossastra, uno spruzzo sui muri. È il 12 dicembre del 1969, anno del Signore. E sono le 16,37.
Il ruggito si amplifica e urla più forte. E c’è sangue e fumo che intossica, e grida e lamenti e odore di escrementi e di morte. L’onda d’urto si inarca e spinge come muscolo immenso e possente e si sfoga all’esterno nel vagone di un treno che si chiama Italicus, il 4 di agosto del 1974. Esplode. E deraglia e si piega su un fianco e si accartoccia scomposto, rosso di tante vite rubate. E si incastra nei vagoni del rapido 904, il 23 dicembre del 1984, e vola da una finestra del quarto piano della Questura di Milano e si spiaccica sul selciato. Carne compressa, scoppiata e recisa. Finestre che esplodono e vetri che crollano. E abbaiare di cani. Poi le sirene dall’urlo inquietante. Un macello. Bombe che proiettano sui muri le immagini in negativo di migliaia di esseri umani disintegrati nel fungo di Hiroshima e di Nagasaki. Feroce inizio della guerra fredda e della pace armata. E poi della guerra preventiva. Uno spettacolo! Il 6 di agosto del 1945, e poi si replica il 9.
Ma va bene così, finché a farsi male non sono io. Brandelli di memoria, pagine di un bianco calendario. L’uomo dovrebbe stare sulla terra per togliere le spine dalla zampa del lupo.
Ogni passo di cammello corrisponde a un evento. E attraversando il deserto in carovana se ne comprende il senso. Attraversare la vita è così, un passo dopo l’altro. Come naufrago nel mare in tempesta, sospinto dall’onda alla deriva, nessuna riva per salvarsi, nessuna sponda.
La piazza era gremita di gente e sopra migliaia di teste dondolavano immensi striscioni. Il cielo era cupo come se, invece che mattina, fosse il tramonto. Un uomo sul palco parlava. E un mare di volti stanchi ascoltava. Un aquilone ondeggiava sui tetti delle case. S’era alzato il vento. Lo sbattere d’ali d’un colombo, e un tubare sommesso sopra al cornicione. Poi la folla tuonò, e uno scroscio d’applausi esplose come una salva di cannone. E l’uomo sul palco parlava con foga. Col collo gonfio e la passione in gola. E la sua voce era calda e profonda. E sincera. E le sue parole erano di giustizia e di pace.
Cominciò a piovere e la piazza era un mare di ombrelli. Ma quell’uomo non mollava. E c’era odore di terra bagnata e di antico. L’aquilone sbatteva le ali grevi di pioggia e pareva sfinito.
Poi un ruggito percosse la piazza da un capo all’altro, furioso. Un tuono che spaccava i vetri e scagliava la gente lontano. E c’era odore di polvere da sparo e di macello. Una bicicletta volò alta nel cielo. A Brescia, una bomba più nera della notte più nera. Il 28 maggio del 1974, anno del Signore. Era tornata la guerra.
Bombe, bombe, bombe che non se ne può più. Che chiudono le bocche e spengono le voci. Che portano lontano la memoria per poi dimenticarla. Senza ribellione c’è solo malattia, e le bombe ne diffondono il contagio.
E allora io, senza più memoria, butto bombe sull’Iraq, bombe sulla Iugoslavia, bombe sull’Afganistan, bombe sulla Libia. Li ammazzo tutti, e salto e mi sbraccio e sghignazzo. Perché io, in preda all’amnesia, sono pur sempre una democrazia.
Antonio Fantozzi…me l’hai mandato questo tuo il 5 di maggio… “Il Caso” di Antonio Fantozzi,il piu bel romanzo(non solo) noir che abbia mai letto… “Francobolli del Senegal” di Antonio Fantozzi,la piu bella raccolta di poesie(non solo) che abbia mai letto… miele da raccogliere e mangiare con le dita… Grazie di esistere,se tu fossi nato in un altro paese avrebbero dovuto fabbricare apposta una tipografia per stamparne mille copie l’ora… e non sarebbe bastato.