Per un Medio Oriente privo di armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa

di Giorgio Ferrari ed Emanuela Bavazzano

Questo appello è rivolto a tutte e tutti coloro che non si rassegnano all’idea che l’umanità corra il rischio di estinguersi perché le classi dirigenti dei Paesi più potenti del mondo non sanno parlarsi se non attraverso il linguaggio delle armi.

 

Eppure 35 anni fa, quando, in rapida successione, si giunse allo scioglimento del Patto di Varsavia e al dissolvimento dell’Urss, sembrò veramente che il Mondo potesse voltare pagina, non fosse altro perché, con la fine della guerra fredda, si depotenziava la minaccia costituita dagli arsenali nucleari che, apparentemente e ragionevolmente, non avevano più ragione di essere.

 

Le cose però sono andate diversamente, a cominciare dal fatto che l’organizzazione militare più potente del Mondo – la Nato – invece di sciogliersi, come logica conseguenza, si è fatta talmente grande ed influente, da subordinare la politica dell’Europa agli interessi degli Stati Uniti e dell’industria delle armi.

 

Pur senza nutrire rimpianti per quel Mondo diviso in blocchi, non si può non riconoscere che quello odierno è un Mondo più complicato, ingiusto e, soprattutto oggi, più pericoloso, anche perché nelle attuali classi dirigenti c’è la dissennata tendenza a sottovalutare i rischi di un conflitto generalizzato, dove l’idea di impiegare armi nucleari, cosiddette “tattiche”, viene ritenuta tutto sommato “accettabile”.

 

Un’ondata di scellerato bellicismo, che permea nel linguaggio molte componenti della Società, prima tra tutte l’informazione, sta travolgendo ogni ragionevolezza: Pace e Disarmo sono termini banditi e chi li invoca è guardato con sospetto.

 

Ma riteniamo, come tante e tanti tra noi, che non ci si possa rassegnare; è dovere etico imprescindibile trasformare la preoccupazione collettiva in azioni concrete, partendo dalle realtà dentro cui possiamo, e dobbiamo, promuovere alternative all’estinzione di massa.

 

In questo contesto, dove i bilanci delle spese militari si gonfiano come mai era accaduto prima, dove la Nato si prepara a schierare nuovamente gli euromissili in Germania e la Russia sta rivedendo la sua postura nucleare, si aggiunge minacciosa l’Armageddon di Israele che sta portando la guerra in tutto il Medio Oriente, dopo che un suo ministro aveva minacciato di incenerire Gaza con l’atomica.

 

Consci dunque che tutta la situazione internazionale richiederebbe una decisa mobilitazione ed una presa di posizione coerente contro tutte le guerre che incombono sul Mondo e che non possono non riguardarci, ci proponiamo di compiere un piccolo, ma concreto passo sulla Via del Disarmo: fare del Medio oriente un’area libera da armi nucleari e da altre armi di distruzione di massa.

 

Anche se può apparire velleitaria, l’idea ha già trovato una sua formulazione specifica nell’Assemblea generale dell’Onu, sotto la voce Conference on the Establishment of a Middle East Zone Free of Nuclear Weapons and Other Weapons of Mass Destruction.

 

Iniziato nel 2018, l’iter di questa Conferenza è giunto alla sua quinta sessione convocata per i giorni 18 – 22 novembre 2024 ed ha per scopo finale la ratifica di un trattato internazionale vincolante.

 

Al momento le posizioni riguardanti il trattato sono le seguenti:

Favorevoli: uno schieramento largamente maggioritario di Stati, comprendente tutti gli Stati arabi e dell’Africa, oltre a Cina e Federazione russa.

Contrari: Israele e Stati Uniti.

Astenuti: praticamente tutti gli Stati europei, Italia compresa!

 

Una campagna a sostegno di questo trattato internazionale, in questo particolare momento, avrebbe delle notevoli implicazioni, certamente per le sorti del popolo palestinese, ma soprattutto perché, mettendo in luce la minaccia rappresentata dall’arsenale nucleare di Israele, potrebbe contribuire ad una de-escalation di tutta l’area medio-orientale, con potenziali riflessi significativi sull’area del Mediterraneo. Ricordiamo peraltro che, purtroppo, i precedenti di Israele in questo campo non depongono per il meglio: giunto segretamente a realizzare la sua prima bomba attraverso l’aiuto della Francia e poi godendo dell’appoggio degli Stati Uniti, Israele non ha mai ammesso di detenere armi nucleari, non ha mai aderito al TNP (Trattato di Non Proliferazione Nucleare) e non ha mai permesso all’IAEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) di effettuare ispezioni sulle sue installazioni nucleari, così come non ha mai ratificato i trattati per la proibizione di armi chimiche e biologiche, al pari di Egitto, Corea del Nord, Sud Sudan, Somalia, Siria.

 

Conseguentemente, la campagna deve potersi finalizzare con un obiettivo estremamente concreto: chiedere che il governo italiano la smetta di tergiversare ed, invece di astenersi in sede Onu, così come ha fatto finora, voti a favore dell’istituzione del trattato che vieta l’esistenza di armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa nel Medio oriente.

 

Giorgio Ferrari ed Emanuela Bavazzano

 

per adesioni/informazioni scrivere a:

e.bavazzano@gmail.com

 

 

DOSSIER

(a cura di Giorgio Ferrari)

  • Conferenza permanente per la realizzazione in Medio Oriente di un’area libera da armi nucleari e altre armi di distruzione di massa

 

  • L’atomica di Israele: origini e sviluppi di una minaccia incontrollabile

 

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Il lungo cammino del disarmo

Quando nella seduta del 9 dicembre 1974, l’Assemblea generale dell’ONU fu chiamata a votare il testo della risoluzione 3263 che mirava a fare del Medio Oriente un’area libera da armi nucleari, nessuno si aspettava che ricevesse un consenso così vasto, anche perché essa era stata sollecitata dal consiglio della Lega Araba e, inaspettatamente, dall’Iran governato dallo Scià Reza Pahlavi.

Su 138 nazioni presenti in quella assemblea, 128 votarono a favore, 8 non votarono e 2 si astennero (Israele e Burma). Tra i favorevoli c’erano i membri del consiglio di sicurezza ONU (nonché potenze nucleari: Usa, Cina, Urss, Francia e Inghilterra) e la totalità dei paesi europei, tutti visibilmente preoccupati che la situazione del Medio Oriente potesse degenerare ulteriormente con l’introduzione di armi nucleari da parte di un paese dell’area.

Pur senza nominarlo, il riferimento era indirizzato soprattutto ad Israele le cui attività in campo nucleare -per quanto tenute segrete – facevano ritenere che lo stato ebraico fosse dotato di un certo numero di testate nucleari.

Nei cinquanta anni che ci separano da quel primo pronunciamento, la situazione di questa area tormentata del mondo si è aggravata, registrando un continuo riproporsi di conflitti, un escalation negli armamenti con l’introduzione di armi di distruzione di massa chimiche e biologiche, oltre all’aumento della dotazione nucleare attribuita ad Israele, unico paese dell’area che a tutt’oggi è accreditato come potenza nucleare.

Questo stato di cose, pur con tutti i ritardi e le contraddizioni di cui sono affette le istituzioni internazionali, è stato oggetto di costanti richiami e pronunciamenti da parte dell’Assemblea generale dell’ONU e della Conferenza generale della IAEA (Agenzia Internazionale per l’energia atomica) che assommano a:

– 44 risoluzioni dell’Assemblea generale per sollecitare la realizzazione in Medio oriente di un area denuclearizzata;

– 15 risoluzioni dell’Assemblea generale di censura e condanna di Israele per il suo atteggiamento in materia, essendo l’unico paese dell’area a non aver mai voluto ratificare il TNP (Trattato di non proliferazione) e di essersi sottratto alle regole e ispezioni della IAEA;

– 1 risoluzione del consiglio di sicurezza ONU (n. 487 del 19.06.1981) che condanna Israele per aver bombardato il reattore di ricerca iraqeno di Osirak, richiamandola a porre le sue installazioni nucleari sotto il controllo della IAEA;

– 10 risoluzioni della Conferenza generale IAEA sulla criticità della situazione nucleare in Medio oriente, di cui 3 di censura e condanna di Israele per la minaccia rappresentata dalla sua politica nucleare.

Neppure si può dire che l’apparizione sulla scena mediorientale di altre armi di distruzione di massa diverse dal nucleare sia rimasta inosservata: nella risoluzione 49/71 (9 gennaio 1995) dell’Assemblea generale ONU viene richiamata per la prima volta l’idea di estendere la proibizione delle armi nucleari in Medio Oriente anche ad altre armi di distruzione di massa (chimiche, biologiche) stante i sospetti o gli indizi riguardanti l’Iraq, la Siria, l’Egitto e lo stesso Israele.

 

Nel corso dello stesso anno, la conferenza di revisione del TNP approvava una risoluzione sul Medio Oriente in cui, tra l’altro, si richiamavano tutti gli stati dell’area “Ad adottare nelle sedi appropriate misure concrete volte a compiere progressi verso l’istituzione di una zona del Medio Oriente effettivamente verificabile e libera da armi di distruzione di massa, nucleari, chimiche e biologiche e dai loro sistemi di lancio, e ad astenersi dall’adottare misure che impediscano il raggiungimento di questo obiettivo” mentre si invitavano tutti gli stati membri del TNP (in particolare le potenze nucleari) a collaborare alla sua realizzazione.

Ci sono voluti ben 23 anni e innumerevoli discussioni in sede ONU prima che l’Assemblea generale riuscisse a deliberare (Decisione 73/546 del 22.12.2018) l’istituzione di una Conferenza permanente per la realizzazione in M.O. di un’area libera da armi di distruzione di massa e nucleari con 88 voti a favore, 4 contrari e 75 astensioni. Oltre agli stati arabi e moltissimi altri paesi, hanno votato a favore Cina e Russia, mentre la totalità dei paesi europei si è astenuta e i contrari sono stati Israele, Stati Uniti, Liberia e Micronesia.

La prima conferenza si è tenuta il 18 novembre 2019, riconvocandosi automaticamente per il terzo mercoledì di novembre di ogni anno e fino a definitiva approvazione di un trattato vincolante che istituisca nel Medio oriente un’area libera da armi nucleari e altre armi di distruzione di massa.

La prossima sessione è prevista per il 18-22 novembre 2024.

 

 

In principio fu l’atomica di Israele

Il Medio oriente è l’area del mondo che, a partire dal secondo dopoguerra, ha registrato la più alta frequenza di conflitti armati. A ciò ha contribuito, oltre alla nefasta spartizione dell’impero ottomano stabilita dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, un continuo afflusso di armi che quelle stesse potenze non hanno mai smesso di fornire ai neonati stati dell’area per ragioni geopolitiche e di interesse economico, petrolio in primis.

Armi di ogni tipo, convenzionali e non, che hanno fatto di questa area del mondo il mercato privilegiato dall’industria delle armi per esportare i propri prodotti. Ma il Medio Oriente è anche l’area, dopo l’Europa, dove maggiormente si sono importate e prodotte armi di distruzione di massa chimiche e dove, tra complicità e coperture, Israele ha potuto sviluppare il suo programma nucleare nel più assoluto segreto.

Nonostante la censura di stato che ancora oggi -in Israele- circonda la storia dell’atomica israeliana e malgrado Israele non abbia mai ammesso di possedere armi nucleari1, la sua collocazione tra le potenze nucleari è cosa ormai indiscussa.

Tuttavia la ricostruzione dettagliata del come e quando Israele arrivò a fabbricare la bomba non è ancora stata scritta né, tanto meno, si intravvede la possibilità che “l’opacità della politica nucleare israeliana” (così la definì Avner Cohen) venga finalmente resa trasparente, sia da parte israeliana che delle altre nazioni coinvolte fin dall’inizio in questa vicenda.

Nel suo libro Israel and the bomb, che resta il più attendibile lavoro di ricerca in proposito, è proprio Cohen a evidenziare le difficoltà incontrate nell’accedere ai documenti originali negli Stati Uniti (tutt’ora parzialmente secretati), ma soprattutto in Francia e poi in Israele dove, ancor più degli ostacoli frapposti alla consultazione, pesò la censura alla pubblicazione delle sue ricerche per motivi di segretezza.2

Atteggiamento questo che se da un lato metteva all’oscuro l’opinione pubblica israeliana delle scelte fatte in sede di governo, dall’altro incarnava una politica basata sulla menzogna allorquando il primo ministro Ben Gurion affermò in parlamento (dicembre 1960) che l’impianto nucleare di Dimona aveva solo scopi pacifici, dichiarazione che egli trasmise tal quale nel maggio 1961 allo stesso presidente Kennedy. Non meno fuorviante fu Shimon Peres quando nell’Aprile 1963, incontrando Kennedy alla casa bianca nella veste di vice ministro degli Esteri di Israele, gli assicurò che loro (gli israeliani) non avevano alcuna intenzione di introdurre armi atomiche nell’area del Medio oriente, e che certamente non sarebbero stati i primi.

Furono quelli gli anni -sotto l’amministrazione Kennedy- in cui gli Stati Uniti esercitarono la massima pressione su Israele riguardo alla sua politica nucleare. Nonostante Kennedy si sia

 

dimostrato grande amico di Israele, egli era ossessionato dalla possibilità che Israele diventasse una potenza nucleare rompendo così le già delicate relazioni che gli Usa avevano col mondo arabo. Inoltre, stante il braccio di ferro con l’Urss culminato nella crisi dei missili a Cuba, Kennedy non voleva fornire all’Unione sovietica un ulteriore motivazione per aumentare la sua influenza in Medio Oriente.

Questo insieme di cose, oltre alle menzogne riferitegli da Ben Gurion e Peres, fece sì che Kennedy mettesse sotto attenta osservazione il programma nucleare israeliano, spingendosi fino al punto -secondo l’opinione di Avner Cohen- di ottenere le dimissioni di Ben Gurion.

Fu solo dopo l’assassinio di Kennedy e l’arrivo di Lyndon Johnson alla Casa Bianca che l’attenzione degli Usa scemò fino poi a diventare un vero e proprio sostegno con la presidenza di Richard Nixon.

E’un fatto che, a partire dal 1970, gli Stati Uniti non hanno più sollecitato Israele a firmare il TNP e smisero anche di effettuare “visite” nelle installazioni nucleari di Israele, che in cambio si impegnò a mantenere una postura nucleare di basso profilo: nessun test, nessuna dichiarazione, nessun riconoscimento. In pratica, con l’atteggiamento del “Don’t Ask, Don’t Tell” concordato con gli Usa, si passava da una politica nucleare basata sulla menzogna ad una strategia basata sull’omertà, che poi fu chiamata eufemisticamente “opacità”.

D’altro canto dopo la vittoria nella guerra dei sei giorni (1967) gli Stati Uniti erano diventati il primo fornitore di armi ad Israele (la Francia aveva interrotto le sue forniture) e per quanto ancora intenzionati a non inimicarsi il mondo arabo, cominciavano a considerare Israele un alleato strategico, non solo un alleato naturale. Considerazione questa che si rafforzò nel 1973 con la guerra del Kippur, quando Israele lasciò intendere di aver armato i suoi aerei con testate nucleari e di essere pronta ad usarle. Fu in quel frangente che, in base al tipico pragmatismo yankee, l’amministrazione Usa decise che un tale soggetto era meglio avercelo per sempre amico, anche a costo di scontare le veementi proteste degli arabi.

Da quel momento Israele non ebbe più remore nel perseguire la sua politica nucleare: immunizzata com’era dalle ispezioni dell’IAEA, estranea al TNP, utilizzò i progressi tecnologici e successivamente la collaborazione col Sud Africa di Botha per affinare e potenziare il suo arsenale nucleare fino -presumibilmente- a sviluppare testate termonucleari.

Gli indizi in questa direzione sono rappresentati dallo scambio di 600 tonnellate di uranio naturale che nel 1977 il Sud Africa fornì ad Israele in cambio di 30 grammi di Trizio.3

Se ciò fosse vero, significherebbe che il Sud Africa era interessato a sviluppare le bombe termonucleari, ma che Israele era già molto avanti in questa tecnologia (come poi confermarono le rivelazioni di Mordechai Vanunu) dato che disponeva di Trizio: il componente essenziale delle bombe all’idrogeno che non ha altre applicazioni di pratica corrente.

Questa collaborazione col Sud Africa in campo nucleare, ripetutamente condannata dall’Assemblea generale dell’ONU4, contribuì indirettamente a demistificare un argomento capzioso che veniva fatto circolare dagli ambienti politici vicini ad Israele: quello per cui non essendoci prove di test nucleari effettuati da Israele, non si poteva sostenere che esso avesse sviluppato la bomba atomica. In proposito occorre ricordare che la collaborazione di Israele con la Francia in campo nucleare consentiva di aggirare l’ostacolo dei test in “proprio”, dato che questi erano abbondantemente previsti dal programma atomico francese, tra l’altro in località facilmente accessibili come era infatti il Sahara algerino.

Il primo test francese, denominato Gerboise bleue fu effettuato nell’estremo sud dell’Algeria nel 1960 e secondo Pierre Pean5, giornalista e scrittore francese, vi parteciparono “osservatori” israeliani, cioè tecnici e scienziati che stavano lavorando alla bomba di Israele, non ancora messa a punto. Considerato poi che la collaborazione in campo nucleare con Israele fu interrotta da De Gaulle solo nel 1968, che le stime della CIA collocano tra il 1963-64 il periodo in cui Israele è giunto a fabbricare la sua prima bomba e che, infine, gli esperimenti nucleari francesi in Algeria6 (17 in totale) si protrassero fino a tutto il 1966, non si può escludere che oltre a presenziare a questi esperimenti, gli israeliani abbiano testato in Algeria una loro bomba.

 

Ma fu durante la collaborazione con il Sud Africa che emersero gli indizi più evidenti dell’effettuazione di test nucleari congiunti Israele-Sud Africa.

Il 22 settembre 1979, il satellite statunitense VELA 69117 individuò un segnale ottico a doppio flash proveniente da un area prossima alle isole Prince Edward (Atlantico del sud a ridosso dell’Oceano indiano) che faceva ritenere trattarsi di una classica esplosione nucleare.

Le inchieste che ne seguirono furono molto controverse, dimostrando che mentre l’intelligence militare Usa propendeva per classificarlo come un test nucleare, un panel di esperti lo negava basandosi su interpretazioni diverse dei segnali acustici emessi durante l’evento che sembravano scagionare sia il Sud Africa che Israele.

Valutazione questa che non convinse affatto l’allora presidente Jimmy Carter, il quale ordinò di riesumare tutta l’inchiesta sul caso NUMEC (vedi capitolo Scorrerie nucleari ), al fine di verificare se questo esperimento non fosse il prodotto finale del trafugamento di Uranio altamente arricchito che dalla NUMEC era finito nelle mani di Israele.

Per quanto non ci sia stata una conclusione univoca sull’analisi di quell’evento, Carter scrisse nel suo diario, il 27 febbraio 1980, che “tra i nostri scienziati cresce la convinzione che gli israeliani abbiano effettivamente condotto un test nucleare nell’oceano vicino all’estremità meridionale del Sudafrica”.8

Nel 2019, Avner Cohen e William Burr hanno prodotto una rivisitazione dell’inchiesta VELA 6911 attraverso il contributo diretto di importanti personalità coinvolte all’epoca dei fatti nella vicenda. 9

 

 

 

L’atomica dei poveri: la distruzione di massa con le armi chimiche

Usualmente si sente parlare delle armi chimiche come la bomba atomica dei poveri, in contrapposizione a quella nucleare riservata ai paesi più ricchi. Ma si tratta di una suddivisione ingannevole perché, come spesso succede, i ricchi non disdegnano affatto di utilizzare gli strumenti dei poveri per i loro scopi e nel settore degli armamenti ciò è senz’altro vero.

Capita però che accada anche il contrario, cioè che paesi poveri ambiscano a tutti costi a disporre dell’atomica dei ricchi (Pakistan, India, Corea del nord) così privando la loro popolazione di ingenti risorse economiche ben altrimenti destinabili.

Sia come sia, il problema delle armi chimiche nasce, ancora una volta, da una “invenzione” e applicazione tutta europea -l’iprite o agente mostarda – che fu usata per la prima volta durante la prima guerra mondiale e poi abbondantemente impiegata (negli anni ‘20-’30) contro popolazioni inermi dell’Arabia, Del Nord Africa e dell’Eritrea, rispettivamente da Inghilterra, Spagna e Italia. Nonostante la ripugnanza, via via crescente, per questo tipo di armi, esse hanno a lungo proliferato e si sono tecnologicamente sviluppate (Sarin e altri gas) invadendo proprio i paesi meno ricchi.

Nel caso dei paesi del Medio Oriente, oltre all’ambizione di dotarsi di un’arma terrificante, ha contribuito il fatto che il neonato stato di Israele si è mostrato da subito particolarmente interessato e capace nel fabbricare sia armi chimiche che nucleari.

Ripetutamente, paesi come l’Egitto e l’Iran portarono negli anni’60 le loro proteste in ambito internazionale per chiedere l’interruzione del programma nucleare israeliano o, subordinatamente e segretamente, che venisse loro concessa la stessa opportunità: ne l’Unione Sovietica, né gli stati Uniti erano disposti a fornire loro tecnologie nucleari atte a produrre in prospettiva bombe atomiche, formalmente per impedirne la proliferazione, ma in buona sostanza per restare le uniche due grandi potenze in grado di “governare” il mondo.

Ciò ha voluto dire -e non suoni come una giustificazione – che per controbilanciare il potere deterrente di Israele non restavano che le armi chimiche, di cui l’Unione Sovietica è divenuta fornitrice unitamente a paesi come la Germania Ovest, Francia, Olanda, Austria, Italia e Giappone che, direttamente o tramite accordi fatti da loro imprese, hanno venduto armi chimiche o trasferito tecnologia per fabbricarle, a paesi come l’Egitto, la Siria, l’Iraq e la Libia, a partire dalla seconda metà degli anni ‘60.10

 

L’Egitto è accusato di averle impiegate nella guerra civile dello Yemen del Nord del 1963-1967 e l’Iraq le ha notoriamente utilizzate tra il 1980 e il 1991 contro l’Iran e la popolazione curda. La Libia non ha utilizzato armi chimiche, ma ne ha accumulato un’ampia scorta. L’arsenale iraqeno è stato smantellato negli anni ’90 è l’Iraq è entrato a far parte della CWC (Chemical Weapons convention) nel febbraio 2009. La Libia ha rivelato l’ammontare delle sue scorte nel 2004 e si è unita alla CWC, ma nel 2011, quando è scoppiata la guerra civile, solo la metà delle sue scorte di gas mostarda e il 40 percento dei suoi precursori chimici erano stati distrutti.

Il caso siriano è il più rilevante: si valuta che nel 2013 la Siria detenesse 1300 tonnellate di agenti chimici, tra cui diversi tipi di gas mostarda e componenti chimici chiave di gas nervini come il Sarin e il VX, distribuiti in 23 diverse località.

Il caso più noto del loro impiego avvenne nella cittadina di Ghouta, ad est di Damasco a seguito del quale Russia e Stati Uniti -per una volta d’accordo- costrinsero Bashar al-Assad a rinunciare al suo arsenale chimico e ad entrare a far parte della CWC.

Oggi, Egitto e Israele sono gli unici due stati del Medio Oriente non vincolati dalla CWC. Sebbene Israele abbia firmato la CWC nel 1993, non l’ha mai ratificata come del resto non ha mai ratificato la convenzione sulle armi biologiche.

Così come avvenne per il nucleare, la segretezza con cui Israele sviluppò queste armi si deve all’impronta datagli da Ben Gurion che, secondo Avner Cohen, volle svilupparle a tutti i costi: nel marzo del 1948, David Ben-Gurion scrisse a Hud Avriel, incaricato dell’acquisto di armi in Europa, che doveva trovare scienziati ebrei dell’Europa orientale capaci di “aumentare la capacità di uccidere molte persone o, in alternativa, al contrario, in grado di guarire molte persone; entrambe le cose sono importanti” . (Israel and the bomb di Avner Cohen)

Secondo gli estensori di ןודגמרא (Armageddon)11 e lo stesso Cohen12 il fulcro di queste attività fu, fin dal principio, l’Istituto chimico e biologico in Ness Ziona (Tel Aviv), circondato da assoluta segretezza. Chi ha provato a violarla ne ha pagato le conseguenze con anni e anni di prigione come Marcus Klingberg, noto epidemiologo e per lungo tempo vice direttore dell’Istituto.

Klingberg fu arrestato all’aeroporto Ben Gurion nel gennaio 1983 mentre era in partenza per l’Europa. Tradotto segretamente in carcere, fu processato nel giugno 1983 e condannato a 18 anni di carcere per spionaggio, con la proibizione per tutti gli organi di informazione di parlare della sua vicenda.

Tuttavia alcuni anni dopo gli israeliani non riuscirono a silenziare le indagini giornalistiche, fra tutte quella dell’olandese Karel Knip, sull’incidente occorso ad un cargo della El Al precipitato su alcune case della periferia di Amsterdam nel 1992. Inizialmente era stato riferito che l’aereo trasportava frutta, spezie e apparecchiature informatiche. Ma la realtà era diversa. Ci sono voluti 6 anni per scoprire che l’aereo diretto in Israele trasportava 190 litri di una sostanza del tipo dimetilmetilfosfato (DMMP) e altre due sostanze chimiche, acido fluoridrico e isopropanolo, cioè tre delle quattro sostanze utilizzate nella produzione del gas nervino tipo Sarin.

I materiali componenti il carico venivano dalla società Sulctronic Chemicals, Pennsylvania, Usa ed erano destinati all’Istituto Biologico in Ness Ziona, di Tel Aviv.13

 

 

 

L’Armageddon di Israele

Prima di tentare una ricostruzione di come e quando Israele sia giunto a fabbricare bombe atomiche, è utile fare alcune annotazioni di carattere tecnico-scientifico.

Per fabbricare un ordigno nucleare è necessario disporre di materiale fissile, cioè di quegli elementi che sottoposti ad un bombardamento di neutroni, si scindono liberando grandi quantità di energia. Questa reazione nucleare può essere realizzata in due modalità: controllata ed incontrollata. La prima è quella che si ha nelle centrali nucleari che producono energia elettrica; la seconda avviene nelle cosiddette bombe atomiche dove lo scopo è esattamente quello di liberare istantaneamente tutta l’energia racchiusa nei nuclei dei materiali fissili, per dar luogo ad un evento distruttivo di ineguagliabile potenza.

 

Gli elementi fissili che meglio si adattano a questo scopo sono due: l’U235 e il Pu239. Il primo esiste in natura come componente dell’Uranio naturale nella misura dello 0,7% in peso, mentre il Pu239 si può ottenere esclusivamente dalla trasformazione dell’U238     che è il componente principale dell’Uranio naturale (circa il 99,3%in peso). Questa trasformazione avviene costantemente durante il funzionamento delle centrali elettronucleari che risultano essere la fonte principale (quasi esclusiva) per la fabbricazione del Pu239.

La tecnologia nucleare dunque, anche quando è utilizzata per produrre energia elettrica, è inequivocabilmente una tecnologia “dual use” perché la sua applicazione comporta la produzione di uno degli elementi essenziali alla fabbricazione delle bombe nucleari.

Tuttavia, l’ottenimento di quantità sufficienti di U235 o di Pu239 a fabbricare una bomba nucleare, non è di facile attuazione. Entrambi gli elementi, per dar luogo ad una esplosione nucleare come quella delle bombe, devono essere presenti “in purezza” (tanto per usare un termine riferibile alla vinificazione delle uve), cioè a dire che la massa costituente la bomba deve essere composta da U235 o Pu239 “puri”, ovvero con una percentuale quanto più vicina al 99% della massa critica.14

Per ottenere U235 arricchito al 99% (data la sua scarsa presenza nell’Uranio naturale) bisogna disporre di notevoli quantità di Uranio naturale, di grandi quantità di energia e di una tecnologia sofisticata.

Diversamente per ottenere Pu239      serve una centrale nucleare di modesta potenza e un impianto chimico (pericoloso, ma di non difficile realizzazione) per estrarre il Pu239 dal combustibile irraggiato proveniente dalla centrale nucleare.

Per meglio comprendere quali opzioni siano disponibili per un paese che ambisca a dotarsi di bombe al Plutonio, è utile fare un’ultima annotazione.

Come già detto, il Pu239 si produce durante il funzionamento di qualsiasi centrale elettronucleare, ma alcuni tipi di centrali ne producono percentualmente di più e questi sono i reattori che impiegano Uranio naturale non arricchito. Dato infatti che il Pu239 si ottiene dalla trasformazione del U238, più questo elemento è presente, maggiore è la resa in Pu239 ottenibile a parità di peso e siccome la massima concentrazione disponibile in U238 è data dall’Uranio naturale, ciò spiega perché i reattori che lo impiegano sono quelli in cui la resa in Plutonio è maggiore, mentre invece nei reattori ad acqua leggera (la comune acqua che conosciamo), dato che per funzionare abbisognano di un arricchimento in U235 del 3-4% (quindi minore presenza di U238 a parità di peso), la resa in Plutonio è minore.

I reattori in cui la resa in Plutonio è maggiore (cosiddetti plutonigeni) sono quindi quelli ad Uranio naturale-gas-grafite oppure quelli ad Uranio naturale ed acqua pesante (D2O, acqua nella cui molecola sono presenti due atomi di Deuterio che è un isotopo dell’Idrogeno), ma per motivi tecnici che sarebbe complicato spiegare, questi ultimi sono in assoluto i reattori nucleari che, nel loro funzionamento, forniscono la maggiore resa in Plutonio.

 

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Tornando alla vicenda in questione, bisogna considerare che all’epoca dei fatti (gli anni ‘50 del secolo scorso) la tecnologia nucleare era ai primordi e di dominio esclusivo del settore militare. Fu solo nel 1953, con il discorso di Eisenhower alle nazioni unite (Atoms for peace) che si inaugurò l’era del nucleare “civile” che apparve a molti paesi (grandi e meno grandi) come una opportunità da cogliere, sia perché questa tecnologia sembrava schiudere le porte ad un progresso senza precedenti, sia perché implicitamente consentiva ai paesi più ambiziosi di fabbricarsi una bomba atomica e sedersi così al tavolo dei grandi.

Il neonato stato di Israele era, fra questi paesi, forse il più dinamico e intraprendente tanto che già nel 1952 aveva creato l’IAEC (Israeli atomic energy commission) ed era stato il secondo paese (dopo la Turchia) a siglare un accordo di cooperazione in campo nucleare con gli Stati Uniti (1955). L’anno successivo (1956), proprio in virtù di questo accordo, il presidente della IAEC David Bergmann15, avanzò la richiesta di assistenza alla AEC statunitense (Atomic energy commission) per la costruzione di un reattore da 10 Mw ad uranio naturale ed acqua pesante, specificando che necessitavano dagli Usa anche la fornitura di 10 tonnellate di acqua pesante.

 

La richiesta apparve agli occhi dell’amministrazione Usa del tutto anomala per due motivi. Il primo era che questo tipo di reattore implicava una produzione significativa di Plutonio e quindi, secondo l’AEC e il governo Usa (allora piuttosto sensibili al problema della proliferazione), abbisognava di ulteriori e stringenti garanzie da parte di Israele. Il secondo motivo stava nel fatto che gli Stati Uniti non si erano mai impegnati a sviluppare reattori di questo tipo (uranio naturale ed acqua pesante), ritenendoli poco funzionali ai loro scopi politici, militari e di sviluppo tecnologico.

Quest’ultimo aspetto è stato quasi sempre trascurato dalla storiografia scientifica e non, mentre invece ha influenzato considerevolmente lo sviluppo della tecnologia nucleare in Europa (Italia compresa) per circa un ventennio.16

Posto di fronte alle precisazioni dell’amministrazione Usa, il governo di Israele si rese conto che l’idea di sviluppare in proprio, sia pure con l’assistenza degli Stati Uniti, un reattore plutonigeno non era percorribile. Teoricamente esisteva l’opzione dei reattori di tipo inglese (uranio naturale-gas-grafite), ma era stata subito scartata in base a due fortissime contro indicazioni. Una di natura tecnica era che questi reattori per quanto adatti a produrre Plutonio, presentavano una gestione assai complessa e, soprattutto, erano molto più ingombranti a parità di potenza, cosa che mal si adattava ai criteri di segretezza con cui Ben Gurion intendeva portare a termine l’impresa. La seconda contro indicazione era di natura politica e riguardava le relazioni non proprio ideali che correvano tra i due paesi, dato che -nonostante l’Inghilterra avesse contribuito alla creazione dello stato di Israele fin dal 1917 con la dichiarazione Balfour – gli inglesi non avevano dimenticato il trattamento ricevuto dalle organizzazioni sioniste durante il mandato britannico in Palestina: basta pensare ai due grandi attentati terroristici (entrambi nel 1946) contro l’ambasciata del Regno Unito a Roma e quello ancora più grave dell’Hotel King David a Gerusalemme dove furono uccise 91 persone, in maggioranza inglesi.

A superare l’impasse contribuì in maniera determinante Shimon Peres, all’epoca nominato da Ben Gurion direttore generale del Ministero della difesa, il quale propose di abbandonare l’idea di uno sviluppo autoctono del nucleare israeliano e di “comprare” un reattore già sperimentato da un paese tecnologicamente avanzato in questo settore.

Per una serie di considerazioni geopolitiche oltre che tecniche, la scelta cadde sulla Francia.

La Francia era uno dei quattro grandi paesi che uscivano vincitori dalla seconda guerra mondiale, ma non aveva avuto lo stesso trattamento riservato all’Inghilterra, specie nel settore delle tecnologie avanzate e degli armamenti. Gli Usa avevano condiviso molto con l’Inghilterra specie nella tecnologia nucleare (impianti di arricchimento dell’uranio a diffusione gassosa) e soprattutto nella realizzazione della bomba a partire proprio dal progetto Manhattan. La Francia invece ne era stata esclusa e scontava un ritardo considerevole nello sviluppo dei reattori, tant’è che all’inizio dovette affidarsi alle filiere ad uranio naturale (non avendo impianti di arricchimento) sia nella versione a gas-grafite che nella versione ad acqua pesante, entrambe poi abbandonate. Ancora più sensibile il ritardo nello sviluppo delle armi nucleari se si tiene conto che il primo test atomico inglese è del 1952 mentre la prima atomica francese è del 1960.

Sul piano internazionale poi, la Francia usciva sconfitta dalla guerra in Indocina (peraltro registrando il mancato sostegno degli Usa) e proprio nel 1956 doveva affrontare la crisi di Suez (nazionalizzazione del canale di Suez da parte di Nasser) e la montante guerra di liberazione in Algeria a cui Nasser forniva appoggio.

Qualunque siano stati gli approcci iniziali tra i due paesi, è un fatto che – contestualmente alla firma di un accordo di cooperazione scientifica (1957) tra l’IAEC e la CEA (Commissione atomica francese) – la Francia divenne il primo fornitore di armi ad Israele (compresi i modernissimi aerei Mirage) e nel 1958 iniziarono i lavori di costruzione del reattore nucleare di Dimona. Come contropartita Israele partecipò alla mini guerra di Suez occupando militarmente la penisola del Sinai, il cui confine occidentale è segnato proprio dal Canale di Suez.

 

Il progetto Dimona

Situato nel deserto del Negev, Dimona è il luogo dove sorge un complesso di installazioni nucleari, inizialmente concepite per produrre Plutonio, comprendente un reattore nucleare, un impianto di ritrattamento del combustibile irraggiato per estrarre il Plutonio e vari laboratori.

Il reattore di Dimona, diversamente dalla versione accreditata nei documenti ufficiali desecretati e riportata spesso nelle opere di divulgazione, non è “il gemello del reattore di Marcoule” costruito in Francia dalla CEA nel 1955 e denominato EL 3. Quel reattore infatti, aveva una potenza termica di 20 Mw ed era costituto da acqua pesante ed uranio arricchito al 4,5%, mentre il reattore di Dimona era sì ad acqua pesante, ma funzionava con uranio naturale ed era stato dimensionato per raggiungere, in prospettiva, una potenza almeno tre volte superiore a quella dell’originale francese. Queste diversità erano dettate da due esigenze: massimizzare la produzione di Plutonio (per le cose dette in precedenza i reattori ad uranio naturale danno una resa maggiore) e svincolarsi dalla dipendenza dell’uranio arricchito, anche perché c’era in progetto la possibilità di sfruttare i giacimenti di fosfati presenti nell’area del Negev, contenenti modeste percentuali di uranio. Questa opportunità, che poi si è concretizzata, non poteva prescindere dalla realizzazione di un impianto di raffinazione dell’uranio che si è aggiunto nel tempo alle altre strutture presenti nell’impianto di Dimona, così come è dato per certo che gli scienziati israeliani abbiano messo a punto una tecnica innovativa per l’arricchimento dell’uranio naturale basata sulla tecnologia Laser.17

Se questo è vero, lo scopo non può essere stato altro che quello di dotare Israele di armi nucleari quanto meno “tattiche”, dato che Israele non possiede centrali elettronucleari che giustificherebbero la produzione di uranio arricchito.

Le armi nucleari “tattiche” sono di incerta classificazione, dovendosi tener conto di potenza, peso, composizione e modalità di lancio; tuttavia se messe in relazione al loro impiego ci vengono presentate come armi impiegabili in teatri di battaglia ristretti (come quelli che interessano lo stato di Israele) e non su grandi complessi militari/industriali o sulle città, destinate ad essere colpite da armi più potenti. Ciò implica la possibilità che queste armi siano operate da lanciatori tradizionali -non necessariamente missili o aerei- come i normali pezzi di artiglieria. Sono proprio queste le considerazioni che, insieme allo sviluppo della tecnica di arricchimento del U235 per via Laser, hanno fatto pensare che Israele si sia munita anche di “proiettili atomici” (mini bombe) che per una serie di implicazioni tecniche, non possono che impiegare U235 arricchito.

Ciò non esclude tuttavia, che l’arsenale nucleare di Israele abbia finalità offensive, dato che oltre ai missili di media lunga gittata (classe Jericho) e i bombardieri, Israele dispone di vari sottomarini della classe Dolphin (acquistati dalla Germania) e li ha equipaggiati con testate nucleari: dunque con la finalità di portare un attacco molto lontano dai suoi confini.

Un aspetto del progetto Dimona che ha sempre stupito tutti coloro che ne hanno ricostruito la storia, è il fatto che -a parte la Francia che ne era partecipe- le altre potenze mondiali (in primis gli Stati Uniti) non si siano rese conto di conto delle vere finalità dello sviluppo del nucleare israeliano.

Gli ultimi documenti declassificati negli Stati Uniti, provenienti dal NSA (National security Archive), dal Nuclear Proliferation International History Project e dal Center for Nonproliferation Studies del Middlebury Institute of International Studies at Monterey, hanno consentito a vari studiosi, compresi William Burr e lo stesso Cohen, di precisare ulteriormente la ricostruzione fattane nel libro “Israel and the bomb”.

La prima segnalazione ricevuta dall’amministrazione statunitense, circa il progetto Dimona, sembra essere stata fatta da un dirigente dell’industria petrolifera di Israele che nel luglio del 1960 disse, incidentalmente, a dei funzionari statunitensi che in quel luogo si stava costruendo un reattore nucleare.

Le successive indagini, sollecitate dallo stesso Eisenhower, portarono ad una prima conferma quando il ministro degli esteri francese, Maurice Couve de Murville disse al segretario di Stato Christian Herter che la Francia aveva aiutato Israele a costruire il reattore, praticamente una “replica dell’impianto Marcoule”, aggiungendo che, in base all’accordo CEA-IAEC, la Francia avrebbe fornito a Israele le materie prime per avviare l’impianto (Uranio naturale ed acqua pesante) mentre Israele avrebbe consegnato alla Francia il Plutonio prodotto durante l’esercizio. Quanto al

 

finanziamento dell’opera il ministro francese disse che il suo paese aveva dato per scontato che venisse dagli Stati Uniti.

Era una prima evidente menzogna della diplomazia francese a cui se ne aggiunsero altre da parte israeliana, la più celebre delle quali è quella di Addy Cohen, funzionario del Ministero del tesoro di Israele, che nel settembre del 1960, sorvolando in elicottero l’area di Dimona insieme all’ambasciatore americano Ogden Reid, disse a quest’ultimo che l’impianto che stavano sorvolando era una fabbrica tessile.18

Quando poi gli Stati Uniti iniziarono a fare domande più precise su Dimona (anche perché la notizia era apparsa sulla stampa), un irritato Ben-Gurion chiese all’ambasciatore Ogden Reid: “Perché negli Stati Uniti viene detto tutto a tutti?”.

Da quel momento la versione ufficiale di Israele, riportata dallo stesso Ben Gurion alla Knesset il 21 Dicembre del 1960, fu che Dimona era un progetto con scopi pacifici, concepito per lo sviluppo del Negev. Pochi giorni prima però (8 dicembre 1960) la CIA emanava un suo primo rapporto19 sulla questione sostenendo che uno degli scopi principali del progetto Dimona era la produzione di Plutonio per uso militare in una quantità tale da consentire la fabbricazione di una o più bombe nucleari già dagli anni 1963-64.

Queste prime risultanze sulle reali finalità del progetto Dimona avvenivano negli ultimi mesi del 1960 (quando Eisenhower era in procinto di lasciare la Casa Bianca) e dimostravano quanto fossero stati deficitari i servizi di intelligence statunitensi. Gli Stati uniti infatti venivano a conoscenza dell’accordo di collaborazione Francia-Israele tre anni dopo la sua stipula e solo due anni dopo apprendevano che il reattore era già in fase di costruzione avanzata, senza contare che erano rimasti del tutto all’oscuro dell’attivismo israeliano nel cercare di reperire finanziamenti (trovati poi in larga parte proprio nella lobby ebraica statunitense) e, soprattutto, nel fatto che Israele aveva stretto accordi con la Norvegia già nel 1959 per la fornitura di 20 tonnellate di acqua pesante. Accordo questo che coinvolgeva anche l’Inghilterra, dato che ad essa erano destinate le 20 tonnellate prodotte dalla società Noratom, la quale consentì che queste fossero girate ad Israele.

Con l’arrivo di Kennedy alla Casa bianca il dossier Dimona divenne un argomento all’ordine del giorno.

S’è visto come le generiche dichiarazioni di Ben Gurion non avessero convinto Kennedy che, a maggior ragione, voleva venire a capo della faccenda nel modo più diretto possibile, pur senza guastare i rapporti di buon vicinato con Israele.

Dato che Ben Gurion non voleva sentir parlare di ispezioni IAEA o di una qualche equipe indipendente (si arrivò perfino a ipotizzare l’invio di specialisti svedesi o svizzeri) non restava che sostenere la via delle ispezioni “riservate e confidenziali” per opera degli specialisti dell’AEC statunitense, cosa che alla fine Kennedy riuscì ad ottenere, non senza aver alzato la voce.

La prima visita, effettuata da due scienziati della AEC, avvenne tra il 17 e il 22 maggio 196120 e si rivelò irrilevante perché, più che una vera e propria ispezione, si trattò di un tour didattico presso varie installazioni tecniche, tra cui anche Dimona. La conclusione dei due scienziati fu che, nonostante permanessero alcuni dubbi, tutto sembrava indicare che il programma nucleare israeliano avesse finalità pacifiche.

Davvero sconcertante questa conclusione (e così deve essere sembrata anche agli altri specialisti dell’AEC) perché nelle prime dieci righe del loro rapporto già si intravvedono evidenti anomalie. Scrivono infatti i relatori che, oltre al reattore vero e proprio, sono in progetto o in fase di realizzazione le seguenti strutture:

un impianto per il ritrattamento del combustibile; un impianto di estrazione dell’uranio da minerali naturali; un laboratorio di chimica caldo e freddo; un impianto di smaltimento dei rifiuti che servirà a gestire i rifiuti radioattivi provenienti da altre parti del paese; un impianto di sviluppo di componenti ingegneristici.

Colpisce infatti che la spiegazione data dagli israeliani (e accettata dai due ispettori dell’AEC) circa la presenza di un impianto di ritrattamento combustibile per estrarre il Plutonio, sia stata quella di sostenere che il Plutonio estratto dal reattore di Dimona, sarebbe stato reimpiegato come combustibile per nuovi impianti nucleari. All’epoca dell’ispezione infatti (1961) questa ipotesi era

 

del tutto avveniristica, tant’è che i primi elementi di combustibile, solo in parte contenenti plutonio, furono introdotti nelle centrali nucleari nella prima metà degli anni ‘70. Anche l’approntamento presso il sito della centrale di un impianto di smaltimento rifiuti (inevitabilmente ad alta attività, dato che tali sarebbero stati quelli prodotti dall’impianto di ritrattamento combustibile), avrebbe dovuto far sorgere qualche sospetto. Questi impianti infatti, data la tossicità dei materiali impiegati e la presenza di materiali molto contaminanti, non dovrebbero mai essere collocati presso un centro di ricerca come veniva definito Dimona. Se ciò era avvenuto, la decisione non poteva che essere stata quella di realizzare il tutto nella massima segretezza, criterio che si applica precipuamente a tutte le installazioni militari o che hanno finalità militari.

E’ un fatto che, comunque, questa prima visita non risolse i dubbi dell’amministrazione Kennedy, che anzi si indispettì ulteriormente quando incontrando Ben Gurion, pochi giorni dopo, questi gli disse che Dimona era assolutamente concepito per scopi di ricerca.21

I dubbi non risolti si fecero più consistenti e tali da indurre l’amministrazione Kennedy a richiedere una seconda visita a Dimona a cui il governo di Israele oppose una tattica dilatoria che irritò decisamente il presidente. Tra continui rinvii e richieste di chiarimenti Israele riuscì a posticipare la seconda visita di oltre un anno dalla prima e quando comunicò la sua disponibilità, lo fece con brevissimo anticipo così da non consentire agli ispettori di prepararsi.

La seconda visita si tenne nel settembre del 1962 e, dal punto di vista dei risultati, fu meno soddisfacente della prima,22 tuttavia dovendo rispondere alle pressanti richieste dei paesi arabi, primo fra tutti l’Egitto, circa lo stato del programma nucleare israeliano e le sue finalità, gli Stati Uniti “confezionarono” una risposta non veritiera, ma tranquillizzante, nella forma di una Comunicazione del Dipartimento di stato a numerosi governi arabi ed europei in cui si confermava che l’impianto di Dimona era un centro di ricerca per scopi pacifici.23

Kennedy tuttavia, rimasto insoddisfatto, si apprestò a riprendere il discorso delle ispezioni col nuovo primo ministro di Israele Levi Eskhol che nel 1963 era subentrato a Ben Gurion. Era sua intenzione arrivare a imporre ad Israele un calendario di ispezioni serrato, una ogni sei mesi a partire dal gennaio 1964, ma il suo mandato si interruppe nel novembre del 1963 a Dallas.

Il reattore di Dimona era già operativo e il programma nucleare di Israele aveva schivato l’ostacolo più grande che si era posto sul suo cammino.

 

 

Scorrerie nucleari

L’accesso ai materiali strategici, acqua pesante ma soprattutto l’Uranio, costituiva la preoccupazione principale del governo israeliano perché senza di essi il programma nucleare sarebbe stato irrealizzabile e siccome lo si voleva portare a termine nel più stretto segreto, non restava che procurarseli al di fuori delle regole internazionali. Cosa che divenne pratica diffusa da parte di Israele.

Le fonti, al riguardo, sono prevalentemente indiziarie e riferibili ad ammanchi nella contabilità dell’Uranio che periodicamente veniva monitorata dalla IAEA, dalla AEC (per gli Stati Uniti) e dall’Euratom per l’Europa; ammanchi che ammontavano complessivamente a centinaia di tonnellate con provenienze diverse tra cui spiccano due casi: quello della società Usa NUMEC24 e “l’affaire plumbat”25 dal nome di un composto analogo al piombo.

Precedentemente però -tra il 1963 e il 1964 – il governo israeliano aveva acquistato 80-100 tonnellate di yellow-cake dall’Argentina riuscendo a tenere nascosta la transazione. Gli Usa vennero a conoscenza della cosa attraverso l’intelligence canadese ma, come al solito, non andarono a fondo della questione anche perché alla Casa Bianca non c’era più Kennedy, ma Johnson.

I documenti declassificati dopo il 201026 consentono di chiarire l’andamento di questo intricato acquisto a cui fece immediatamente seguito un altro tentativo di acquisto clandestino di uranio da parte di Israele in Gabon.

La NUMEC (Nuclear Materials and Equipment Corporation) era nata nel 1957 nell’ambito della neonata industria nucleare civile ed aveva il suo stabilimento nella città di Apollo, Pennsylvania.

 

Tra i maggiori azionisti figuravano Novick e David Lowenthal, entrambi seguaci del sionismo, ma in particolare Novick era stato a capo dell’Organizzazione sionista d’America.

Uno dei partner dei Lowenthal fu Zalman Shapiro, un chimico nucleare di grandi capacità, nonché presidente di NUMEC fino al 1970.

All’inizio del 1965, l’ufficio operativo di Oak Ridge dell’AEC fece un inventario di routine dell’uranio altamente arricchito di proprietà del governo che l’AEC aveva affittato alla NUMEC, in cui si riscontrò un ammanco significativo di materiale fissile altamente arricchito. All’inizio del 1966, dopo approfondite indagini, l’AEC confermò che 178 chilogrammi di U235     altamente arricchito, mancavano dall’impianto NUMEC. Nel giro di tre anni, questa quantità era aumentata a 269 chilogrammi.

Le successive indagini svolte da tutti gli organismi di intelligence oltre che dalla AEC, convergevano nello stabilire che l’ammanco era dovuto ad un trafugamento; che l’Uranio mancante era probabilmente destinato ad Israele e che c’erano gravi sospetti sul coinvolgimento di Zalman Shapiro. Anche se poi Shapiro fu trasferito in altra sede con incarichi secondari, l’inchiesta non sfociò in un procedimento giudiziario, perché avrebbe creato un enorme imbarazzo all’amministrazione Usa, con immancabili risvolti di natura politica.

In tempi più recenti però, sono stati declassificati altri documenti relativi alla vicenda uno dei quali riporta la testimonianza di un ex dipendente della NUMEC,27 il quale dichiarò che all’inizio del 1965, durante il turno di notte, aveva visto degli estranei armati presso il portale di accesso dell’impianto di uranio che stavano caricando su un camion munito di rastrelliere, contenitori di Uranio altamente arricchito. Avvicinatosi potè constatare che il modulo di spedizione indicava che il materiale era destinato a una nave diretta in Israele con la compagnia di navigazione Zim-Israel. Successivamente un responsabile della NUMEC lo minacciò di tenere la bocca chiusa su ciò che aveva visto.

Dalla metà degli anni ’80 fino al 2009, l’FBI ha declassificato alcuni dei suoi rapporti relativi agli anni ’60 e fino all’inizio degli anni ’70. Tali rapporti indicavano che Zalman Shapiro, per tutto il periodo in cui aveva diretto la NUMEC, aveva collaborato con diversi funzionari israeliani.28 Tra questi c’erano attaché dell’ambasciata israeliana a Washington e altri soggetti riconducibili alle agenzie di intelligence israeliane Shin Bet e Mossad, tutti ritenuti parte dell’organizzazione di intelligence scientifica israeliana (LAKAM)29, che raccoglieva tecnologia nucleare negli Stati Uniti per supportare il programma di armi nucleari di Israele.

Tre anni dopo il trafugamento alla NUMEC, si verificò l’affaire plumbat.30

Il 17 novembre del 1968 il mercantile Scheersberg A, battente bandiera liberiana era salpato dal porto di Anversa diretto a Genova con un carico di 200 tonnellate di yellow cake (U3O8 da cui si estrae l’Uranio naturale), ma invece di arrivare come previsto nel porto italiano, 15 giorni dopo attraccò nel porto turco di Iskenderum, senza nessun carico a bordo.

Le successive ricostruzioni accertarono che l’uranio proveniva dallo Zaire, estratto dalla compagnia mineraria belga Societe Generale del Minerals ed era stato ordinato da una ditta petrochimica tedesca (Asmara chemie) per conto di una società farmaceutica marocchina, entrambe dichiaratesi all’oscuro di tutto. Tuttavia dalle carte di spedizione del carico (560 fusti su cui era scritto “plumbat”), si scoprì che lo scalo a Genova sarebbe dovuto servire a trasferire il carico ad una società di vernici milanese (la SAICA che produceva anche vernici al “piombo”), la quale avrebbe dovuto miscelare l’uranio con un altra sostanza per poi rispedirlo alla Asmara chemie. Ma la SAICA, pur avendo ricevuto un anticipo dalla Asmara chemie per acquistare le apparecchiature atte alla miscelazione, non ricevette mai i 560 fusti di plumbat.

Gli indizi determinanti a collocare la vicenda nell’ambito dell’acquisto clandestino di uranio da parte di Israele, furono due: il fatto che il mercantile Scheersberg A fosse stato acquistato pochi mesi prima di questo viaggio da una società di spedizioni (Byscaine) riconducibile al Mossad e che tutti i membri dell’equipaggio della Scheersberg A furono sostituiti dal nuovo armatore con altri componenti le cui identità risultarono poi del tutto false.

 

Dopo essere partita da Anversa la Scheersberg A deve essersi ancorata in qualche punto discreto del Mediterraneo (si pensa all’isola di Cipro), non troppo distante dalle coste della Palestina, dove il carico di Uranio è stato trasbordato su una o più imbarcazioni dirette in Israele.

Tuttavia Israele, nelle sue scorrerie in campo nucleare, non si è limitata ad ottenere illegalmente i materiali strategici necessari al suo programma nucleare, ma ha effettuato vere e proprie incursioni armate contro le installazioni nucleari dei paesi a lei ostili.

Il 7 giugno 1981 l’aviazione israeliana distruggeva il reattore iraqeno di Osirak che, secondo le valutazioni del governo di Tel Aviv, era stato progettato per fabbricare bombe atomiche da usare contro Israele. Il reattore di Osirak non conteneva ancora materiale fissile ed era una installazione del tutto analoga a quella del reattore siriano di Al-Kibar, distrutto da Israele nel 2007.

Vero è che nel 1991 Saddam Hussein lanciò dei missili, per fortuna senza successo, contro il reattore israeliano di Dimona che era operativo, ma ne fu pesantemente ripagato dagli Usa che bombardarono il centro nucleare iraqeno di Al Tuwaitha in cui erano presenti due reattori di ricerca operativi. In questo caso furono gli Usa ad agire e non Israele per evitare che, in sede di Consiglio di sicurezza ONU, Israele fosse nuovamente condannata come era occorso nel 1981 dopo la distruzione del reattore di Osirak.

E’ appena il caso di ricordare che Israele e Stati Uniti, non hanno mai ratificato i protocolli aggiuntivi del 1977 della convenzione di Ginevra dove, all’Art. 56 del I° protocollo, si vieta di colpire le installazioni nucleari.

Con il bombardamento di Osirak, Israele non aveva solo infranto il tabù che “vietava” di attaccare siti nucleari, ma aveva aperto la strada alla “filosofia” dell’attacco preventivo e “legittimo”, la cui massima espressione si ebbe con la guerra all’Iraq del 2003. Nelle riunioni del Consiglio di sicurezza del giugno 1981, il rappresentante di Israele dichiarò che ”il raid contro il reattore atomico iraqeno Osirak era stato un atto di autoconservazione col quale Israele aveva esercitato il suo diritto di autodifesa come inteso nel diritto internazionale e come richiamato nell’Art. 51 della Carta dell’ONU”.

 

 

Mordechai Vanunu

il 5 ottobre del 1986, il Sunday Times pubblicò un lungo articolo che descriveva le reali potenzialità e finalità del progetto Dimona.

A fornire queste notizie, corredate da numerose fotografie, era stato Mordechai Vanunu, un tecnico che aveva lavorato a Dimona dal 1976 al 1985.

Data la enorme risonanza che avrebbero avuto queste rivelazioni, il Sunday Times le fece verificare da due esperti in armamenti nucleari: lo statunitense Theodore Taylor e il britannico Frank Barnaby, che confermarono l’attendibilità del suo racconto.

Vanunu fece sapere al mondo che l’impianto di Dimona non era costituito solo da un reattore nucleare, ma da un complesso di laboratori e impianti che consentivano di effettuare sottoterra alcune delle operazioni necessarie a fabbricare bombe nucleari.

Tra le strutture di superficie e i sette piani che si sviluppavano in profondità, a lato del reattore nucleare, erano collocati un impianto di riprocessamento per estrarre il Plutonio dal combustibile; un impianto per la produzione di Trizio (con l’impiego di Litio) che non poteva che servire alla fabbricazione di bombe termonucleari; un impianto di arricchimento dell’Uranio con tecnologia Laser, reparti per l’assemblaggio vero e proprio delle bombe oltre a tutti i laboratori di analisi e test necessari a questo ciclo di fabbricazione.

Vanunu rivelò inoltre che l’impianto era in grado di fornire circa 30 Kg di Plutonio all’anno31, cioè un quantitativo davvero significativo se si considera che la massa critica necessaria a fabbricare una bomba al Plutonio è stimata tra 4 e 5 Kg.

Il Mossad era già sulle tracce di Vanunu prima che il Sunday Times pubblicasse il suo racconto, ma dato che si trovava in Inghilterra non si riteneva opportuno ne richiederne ufficialmente l’estradizione, ne organizzare un’azione sul campo col rischio di creare un caso con il governo di Margaret Thatcher.

 

Così attraverso l’agente “Cindy”, una donna con cui Vanunu aveva intrapreso una relazione, fu convinto a fare un viaggio in Italia, dove evidentemente Israele poteva contare su una maggiore tolleranza, e lì fu rapito e condotto in Israele.

Il 6 novembre 1986 il governo di Israele annunciò ufficialmente che Vanunu era stato arrestato con l’accusa di spionaggio e tradimento e il 24 marzo 1988, dopo 7 mesi di processo, fu condannato a 18 anni di carcere.

 

 

Giorgio Ferrari

 

Ottobre 2024

 

1    Israele non ha mai aderito al TNP (Trattato di non proliferazione nucleare del 1968); non è membro dell’IAEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica) e non ha mai accettato che gli ispettori dell’Agenzia visitassero le installazioni nucleari israeliane.

2    “Nell’aprile del 1994, dopo mesi di discussioni, il censore militare israeliano mi informò che per ragioni di stato aveva deciso di vietare la pubblicazione di un lungo articolo di giornale basato su questa ricerca. Appresi che era la prima volta in Israele che un prodotto di ricerca accademica e di borsa di studio, non un’esposizione giornalistica, veniva soppresso nella sua interezza dal censore. Quando tutti gli sforzi per raggiungere un compromesso fallirono, feci una petizione alla Corte Suprema di Giustizia israeliana per annullare la decisione del censore. Tuttavia, mi resi presto conto che le obiezioni del censore avevano poco a che fare con informazioni specifiche che avrei potuto divulgare, poiché durante quasi un anno di corrispondenza legale il censore si rifiutò di dirmi esattamente cosa riteneva discutibile o dannoso.” Avner Cohen, prefazione al libro “Israel and the bomb”

3    www.armagedon.org.il     – Questo documento è opera di un gruppo di giornalisti, scrittori, teologi e attivisti israeliani che vivono in Israele e che si oppongono alle armi di distruzione di massa: Gideon Spiro; Yael Lotan; Dr. Yehuda Atai; Giyora Neumann; Isam Mahoul; Amir Hallel; Akiva Orr. Il documento è redatto parte in inglese e parte in yiddish

 

4    Questa collaborazione è stata esplicitamente condannata dall’Assemblea generale ONU in 15 risoluzione emanate dal 1978 al 1991, cioè una ogni anno e fino alla fine dell’apartheid

5    P. Pean, Les Deux Bombes: ou comment la guerre du Golfe a commencé le 18 novembre 1975, Fayard, Parigi, 1991

 

6    https://www.agenzianova.com/a/602bb1cf6b7b56.73965303/3316327/2021-02-15/ong-denunciano-i-test-nucleari-della-francia-in-algeria-continuano-a-fare-vittime/linked

 

7     https://www.wilsoncenter.org/blog-post/revisiting-1979-vela-mystery-report-critical-oral-history-conference https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/nuclear-vault/2016-11-02/numec-affair-did-highly-enriched-uranium-us-

aid-israels-nuclear-weapons-program#_ednref11 8      Ibidem

9    Ibidem

10 https://apps.dtic.mil/sti/tr/pdf/ADA222311.pdf 11 Vedi nota 3

12 https://www.nonproliferation.org/wp-content/uploads/npr/83cohen.pdf 13 Vedi nota 3

14 Per massa critica di un materiale fissile si intende la quantità minima di questo materiale che consenta di mantenere la reazione a catena senza ulteriore apporto di neutroni dall’esterno

15 David Bergmann era di origine tedesca, ma emigrò in Inghilterra poco prima dell’ascesa del nazismo al potere. Stretto collaboratore di Chaiz Weizmann, leader indiscusso del movimento sionista e primo presidente della repubblica di Israele, Bergmann fu chiamato da David Ben Gurion, all’epoca primo ministro, a dirigere la divisione ricerca dell’Idf (esercito israeliano) e successivamente nominato direttore del IAEC

16 Lo sviluppo dei reattori ad acqua leggera ed uranio arricchito fu, inizialmente, una prerogativa esclusiva degli Stati Uniti. Oltre che per motivi militari (la propulsione nucleare delle navi e sottomarini impiega reattori ad acqua pressurizzata ed uranio altamente arricchito) questa scelta era stata fatta per stabilire un predominio tecnologico degli Usa perché costringeva le altre nazioni interessate al nucleare ad adottare tecnologie basate sull’impiego di uranio naturale. Infatti gli Usa non solo non condividevano con loro le tecnologie per l’arricchimento dell’uranio, ma nemmeno permettevano l’esportazione di Uranio arricchito fabbricato negli Usa, a causa dei vincoli posti dalla non proliferazione. I primi reattori sviluppati in Europa appartengono, non a caso, alla filiera uranio naturale- gas -grafite e vengono costruiti sia in Francia che in Inghilterra. E’ solo verso la metà degli anni ‘60 che compaiono in Francia, Italia e Germania i reattori ad acqua leggera ed uranio arricchito, mentre l’Inghilterra continua nella costruzione di reattori a gas. Inizialmente le società esercenti delle prime centrali nucleari italiane ad acqua leggera, Garigliano e soprattutto Trino Vercellese (che aveva un arricchimento maggiore), faticarono non poco ad ottenere tutte le licenze per esportare dagli Usa il combustibile nucleare necessario al loro funzionamento.

 

17 Nei primi anni ‘70 Israele era all’avanguardia in questa tecnologia che se pure di non facile applicazione consente di accelerare i primi stadi di separazione isotopica dell’Uranio.

 

18 https://www.wilsoncenter.org/publication/the-us-discovery-israels-secret-nuclear-project

19 https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/special-national-intelligence-estimate-snie-100-8-60-implications-acquisition-israel

20 https://nsarchive.gwu.edu/document/21653-8bo

21 https://nsarchive.gwu.edu/document/21630-document-9b-memorandum-conversation-president 22 https://nsarchive.gwu.edu/document/21651-document-16c-rodger-p-davies-phillips-talbot

23 https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1961-63v18/d87

24 https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/nuclear-vault/2016-11-02/numec-affair-did-highly-enriched-uranium-us-aid-israels-nuclear-weapons-program

 

25 https://time.com/archive/6848700/high-seas-uranium-the-israeli-connection/ https://www.nytimes.com/1977/04/29/archives/1968-mystery-of-a-vanished-ship-did-its-uranium-end-up-in-

israel.html

 

26 https://nsarchive2.gwu.edu/nukevault/ebb432/ 27 ibidem

28 ibidem

29 Ibidem LAKAM era un’unità di intelligence israeliana fondata nel 1957 da Shimon Peres, allora direttore generale del Ministero della Difesa. LAKAM è l’acronimo ebraico di Science Liaison Bureau. Il suo primo direttore, che ha ricoperto l’incarico per 20 anni, è stato un ex agente dello Shin Bet di nome Binyamin Blumberg. La motivazione della creazione di LAKAM era quella di fornire intelligence tecnologica al servizio del progetto nucleare.

30 Vedi nota 25

31 Questo quantitativo è in linea con le caratteristiche tecniche e di funzionamento del reattore di Dimona tenuto conto che il reattore EL3 francese aveva una resa in Plutonio di 0,3 gr per un burn-up medio di 25.000 Mwd per tonnellata. Ipotizzando che il reattore di Dimona avesse una potenza almeno doppia (se non tripla) del suo progenitore francese; che il suo burn-up medio fosse poco più della metà di quello francese (15-16.000Mwd per tonnellata) e che la massa di uranio nel reattore fosse tra 4 e 6 tonnellate, si otterrebbe una resa in uranio variabile da un minimo di 30 Kg/anno ad un max di 45 Kg/anno.

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