Per un nuovo Welfare
articoli di Thomas Piketty, Giulio Marcon, Michele Bavaro (ripresi da Internazionale e Sbilanciamoci)
Un nuovo stato sociale per uscire dalla crisi – Thomas Piketty
La crisi legata alla pandemia del covid-19 renderà più rapida la fine della globalizzazione liberista e farà emergere un nuovo modello più equo? È possibile, ma nulla è scontato. In questo momento la priorità è capire le dimensioni della crisi e fare di tutto per evitare il peggio. Ricordiamoci delle previsioni dei modelli epidemiologici. Senza un intervento, il covid-19 avrebbe potuto provocare la morte di circa quaranta milioni di persone nel mondo, di cui quattrocentomila in Francia, cioè circa lo 0,6 per cento della popolazione (nel mondo ci sono più di sette miliardi di abitanti, in Francia quasi settanta milioni). Pressappoco un anno di mortalità supplementare (in Francia ogni anno ci sono 550mila morti, nel mondo 55 milioni). In pratica questo significa che, per le regioni più colpite dal virus, nei momenti più critici il numero di bare avrebbe potuto essere tra cinque e dieci volte più alto del normale, come purtroppo è successo in alcuni focolai italiani.
Per quanto incerte, queste previsioni hanno convinto i governi che non si trattava di una semplice influenza, e che bisognava far stare le persone a casa. Nessuno sa quante saranno le perdite umane e quante avrebbero potuto essere senza il confinamento. Gli epidemiologi sperano che il bilancio finale sia di dieci o venti volte più contenuto rispetto alle previsioni, ma ci sono grandi incertezze. Secondo il rapporto pubblicato dall’Imperial college di Londra il 27 marzo, solo test di massa e isolamento delle persone contagiate permetteranno di ridurre le perdite. In altre parole, il confinamento da solo non basterà a evitare il peggio.
Senza un reddito minimo garantito presto i più poveri dovranno uscire di casa per cercare lavoro, e questo rilancerà l’epidemia
L’unico precedente storico a cui possiamo fare riferimento è quello dell’influenza spagnola del 1918-1920, che provocò quasi cinquanta milioni di morti nel mondo, il 2 per cento della popolazione dell’epoca. Usando i dati anagrafici, i ricercatori hanno dimostrato che dietro la mortalità media si celavano immense disparità: tra lo 0,5 per cento e l’1 per cento negli Stati Uniti contro il 3 per cento in Indonesia e in Sudafrica, e più del 5 per cento in India. È questo che dovrebbe preoccuparci: la pandemia potrebbe toccare i punti più alti nei paesi poveri, dove i sistemi sanitari non sono in grado di reggere l’urto, tanto più dopo le politiche d’austerità imposte dall’ideologia dominante degli ultimi decenni.
Applicare il confinamento in sistemi fragili potrebbe rivelarsi quasi inefficace. Senza un reddito minimo garantito presto i più poveri dovranno uscire di casa per cercare lavoro, e questo rilancerà l’epidemia. In India il confinamento è consistito nel cacciare dalle città i migranti e le persone provenienti dalla campagna. Ci sono state violenze e spostamenti di massa, che potrebbero favorire la diffusione del virus. Per evitare un’ecatombe abbiamo bisogno di uno stato sociale, non di uno stato carcerario. Nell’urgenza le spese sociali potranno essere finanziate con prestiti e con l’emissione di nuova moneta.
In Africa occidentale questa è l’occasione di ripensare la nuova valuta comune e di metterla al servizio di uno sviluppo fondato sugli investimenti nei giovani e nelle infrastrutture, e non al servizio dei capitali dei più ricchi. Il tutto dovrà fondarsi su un’architettura democratica più compiuta rispetto all’opacità che vige tuttora nell’eurozona, dove ci si allieta in riunioni tra ministri delle finanze a porte chiuse, con la stessa inefficacia dimostrata ai tempi della crisi finanziaria.
Il nuovo stato sociale richiederà una tassazione equa e un registro finanziario internazionale, per obbligare i ricchi e le grandi aziende a contribuire. Il regime attuale di libera circolazione del capitale, istituito a partire dagli anni ottanta e novanta sotto l’influenza dei paesi ricchi (e in particolare dell’Europa), favorisce l’evasione dei miliardari e delle multinazionali di tutto il mondo e impedisce alle fragili strutture fiscali dei paesi poveri di sviluppare imposte giuste, e questo rende più fragile la costruzione dello stato.
La crisi può essere anche l’occasione di pensare a una rendita sanitaria e scolastica minima per tutti, finanziata da un diritto universale su una parte del gettito fiscale a carico delle persone più ricche: grandi aziende, famiglie ad alto reddito e grandi patrimoni (per esempio l’1 per cento più ricco del mondo). Dopo tutto il loro benessere si basa su un sistema economico mondiale. Ci vuole quindi una regolamentazione globale per assicurarne la sostenibilità sociale ed ecologica.
Per permettere una simile trasformazione dovremo rimettere in discussione molte cose. Per esempio, il presidente francese Emmanuel Macron e quello statunitense Donald Trump sono pronti ad annullare i regali fiscali che hanno concesso ai più ricchi all’inizio del loro mandato? La risposta dipenderà dalla mobilitazione delle opposizioni e delle maggioranze politiche. Ma una cosa è certa: i grandi sconvolgimenti politico-ideologici sono appena cominciati.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1354 di Internazionale
Una Commissione Beveridge per l’Italia – Giulio Marcon
Nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, il governo bipartisan inglese guidato da Winston Churchill affidò a William Beveridge – che aveva avuto incarichi di governo negli anni precedenti – la guida di una Commissione per l’elaborazione di un piano “per le assicurazioni sociali e i servizi assistenziali”.
Partito come un piano “tecnico”, divenne la base politica e ideale della nascita del Welfare State in Gran Bretagna. L’obiettivo del piano era abbattere i cinque giganti che martoriavano il paese: Miseria, Ignoranza, Malattia, Squallore, Ozio. Da quel piano vennero le politiche laburiste del secondo dopoguerra: il Servizio Sanitario Nazionale, un sistema di assicurazioni sociali pubblico e obbligatorio, la previdenza pubblica, le politiche per la piena occupazione, la nazionalizzazione dei servizi collettivi e tanto altro.
Da una guerra mondiale la Gran Bretagna rinacque.
Di fronte a questa tremenda crisi che stiamo attraversando – che vedrà l’Italia con ogni probabilità affrontare un calo del Pil di 7-8 punti e una disoccupazione in drammatica ascesa – il paese può utilizzare questa occasione per ripartire su basi diverse: rendendo protagoniste le politiche pubbliche, arginando il neoliberismo, lanciando un grande piano di investimenti pubblici, mettendo al centro il lavoro e – soprattutto – disegnando un modello di sviluppo nuovo, sostenibile, equo, di qualità.
Più che le tante task force di tecnocrati che proliferano in questo periodo, serve una sorta di “nuova Commissione Beveridge” capace di visione, di progettare il futuro, con l’obiettivo di ripensare le politiche per il paese per i prossimi anni.
Ecco perché l’appello In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo che pubblichiamo sul nostro sito – firmato da 41 personalità del mondo universitario, della società civile, delle forze sociali ed economiche – va raccolto e sostenuto. Attraverso l’individuazione di 10 punti fermi, l’appello indica la giusta rotta per l’Italia che verrà: la sanità e la scuola pubblica, il Green New Deal, una politica industriale pubblica, la giustizia fiscale, la riduzione delle diseguaglianze, il lavoro.
Ecco perché il sito di Sbilanciamoci! darà spazio e sostegno a questa iniziativa, che è stata firmata anche da molti esponenti delle associazioni aderenti alla campagna. Abbiamo bisogno, mai come oggi, mai come in questa crisi, di un’Italia capace di futuro: un futuro che va pensato e progettato su basi diverse. Bisogna cambiare registro, incamminarsi su una strada nuova, quella di un’economia dell’interesse collettivo e non del privilegio individuale; del benessere sociale e non delle diseguaglianze; che faccia pace con il pianeta e non la guerra per le sue risorse.
Un’economia non per pochi, ma per tutti.
Tra le ricette anti-crisi serve una patrimoniale – Michele Bavaro
Così come è avvenuto dopo la grave crisi economica del 2008, oggi ci si interroga su come ripartire dopo lo shock causato dalla pandemia. All’epoca i governi imboccarono la via della “socializzazione delle perdite” e i debiti provocati dai fallimenti finanziari furono coperti dagli Stati, i quali applicarono politiche di austerità per ridurre il debito pubblico accumulato. Il peso della crisi ricadde così sulle fasce più vulnerabili. Oggi siamo davanti allo stesso bivio e i governi devono scegliere chi debba sostenere i costi della crisi. In quest’ottica, assume una grande rilevanza il tema dell’introduzione di una tassa patrimoniale, un’imposta rivolta a ricchi e super-ricchi. Partiamo da un dato di fatto: l’aumento delle disuguaglianze negli ultimi decenni è ben noto, così come quello della concentrazione della ricchezza. Secondo il Rapporto 2020 di Oxfam i 22 uomini più ricchi del pianeta possiedono una ricchezza superiore a quella di tutte le donne in Africa.
Negli ultimi giorni è apparsa in Italia una proposta del Partito Democratico definita “contributo di solidarietà”, che prevede un incremento della progressività dell’aliquota marginale dell’Irpef. La soglia sarebbe fissata a 80mila euro e poi ci sarebbe un’ulteriore progressività che permetterebbe di incassare circa 1,25 miliardi di euro all’anno. Tralasciando l’arbitrarietà della soglia stabilita, bisogna notare che l’Irpef cattura principalmente i redditi da lavoro dipendente e da pensione (che rappresentano circa l’80% della base imponibile), per cui non è appropriato riferirsi a questa proposta del Pd come a una vera e propria tassa “patrimoniale”. Inoltre, le tasse patrimoniali sono pagate annualmente e non una tantum e si possono differenziare a seconda della base imponibile.
Il concetto di patrimonio è infatti onnicomprensivo e comprende forme di ricchezza immobiliare, mobiliare e finanziaria. Un’altra grande categoria di tasse patrimoniali è quella sugli immobili: in Italia un esempio è l’Imu, in cui il livello di progressività, nonostante l’esenzione per la prima casa, non è elevato. A queste si aggiungono le tasse che possono essere imposte sulle transazioni di ricchezza. Un esempio in tal senso è la tassa sulle transazioni finanziarie conosciuta anche come Tobin tax, introdotta in Italia nel 2013, che garantisce ogni anno circa 400 milioni di euro di introiti. Un altro esempio è la transazione intergenerazionale della ricchezza, in altre parole la trasmissione ereditaria. In Italia su questo tipo di tassazione siamo molto indietro: l’aliquota massima della tassa di successione è al 4%, tra le più basse dei Paesi industrializzati (su questo punto si veda qui).
Per quanto riguarda invece le tasse sul patrimonio, alcune tra le proposte più popolari provengono dagli Stati Uniti. Ben due ex candidati democratici alla nomination per la Presidenza presentavano una patrimoniale nel loro programma, Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Quella di Sanders è una proposta radicale: far pagare l’1% a chi possiede più di 32 milioni di dollari di patrimonio, con un’aliquota crescente fino all’8% per chi possiede più di 10 miliardi di dollari. Secondo le stime tratte dal sito di Sanders, la misura consentirebbe di accumulare oltre 4.000 miliardi di dollari in 10 anni, riducendo in modo sostanziale la concentrazione della ricchezza negli Stati Uniti. La proposta di Elizabeth Warren consiste invece nell’imporre una tassa del 6% sul patrimonio eccedente il miliardo di dollari. Come verificato utilizzando i dati della classifica di Forbes, se in Italia applicassimo questa misura si potrebbe generare un gettito di circa sei miliardi e mezzo di euro colpendo solo 33 persone o famiglie. Le proposte di Sanders e Warren si ispirano peraltro a quelle di Thomas Piketty nel suo Il Capitale nel XXI secolo.
Una tassa simile è stata implementata in Francia fino al 2018. Conosciuta come ISF, Impôt de Solidarité sur la Fortune, è stata sostituita dal governo Macron con un’imposta valida solo per la ricchezza immobiliare. La struttura dell’imposta era complessa e si applicava a patrimoni superiori agli 800mila euro, ma con aliquote marginali molto basse (tra lo 0,5 e l’1,5%), garantendo all’incirca 4-5 miliardi all’anno. Una simulazione effettuata con i dati italiani della Banca d’Italia mostra come in Italia un’imposta così strutturata assicurerebbe un gettito di circa 4 miliardi all’anno. Una misura analoga, con aliquote molto basse, è tuttora in vigore anche in Spagna (Impuesta sobre el patrimonio).
D’altronde, questo tipo di tassazione sul patrimonio o sulla ricchezza presenta un triplice problema di implementazione. In primo luogo, vi è la difficoltà di conoscere in modo dettagliato l’ammontare e la composizione delle grandi ricchezze: tutto ciò come conseguenza di un trentennio di politiche neoliberiste che hanno smantellato le capacità statali di controllare queste dinamiche all’estremo della distribuzione. Bernie Sanders, non a caso, sottolinea nel suo programma l’importanza del rafforzamento dell’IRS (l’Agenzia delle Entrate statunitense) come precondizione per un’applicazione efficace. La stessa cosa vale ovviamente per l’Italia e gli altri paesi. E anche Piketty sostiene nel suo libro sopra citato che la prima utilità di questa tassa sarebbe proprio quella di produrre conoscenze e informazioni su patrimoni e ricchezze.
Il secondo, e forse più gettonato, tra i punti critici di questo tipo di imposta è legato alla libertà di movimento dei capitali: una tassa del genere avrebbe più costi che benefici, in quanto farebbe scappare all’estero i grandi capitalisti. Infine, questa imposizione fiscale sarebbe considerata ingiusta e iniqua in quanto viene tassato annualmente uno stock (il patrimonio) e non un flusso. Detto questo[1], occorre sfatare due miti:
- Qualsiasi tassa è difficile da far pagare, che colpisca uno stock oppure un flusso. Ma la difficoltà nel far rispettare il regolare pagamento dei tributi non può mai essere un elemento di dissuasione per l’imposizione di una fiscalità.
- La libertà di movimento dei capitali può essere arginata. Ci sono modi e metodi per limitarla. L’architettura istituzionale dell’Unione Europea, però, non facilita il compito. Certamente questo limite spinge a internazionalizzare la mobilitazione per introdurre una tassa o una politica simile, dal momento che una patrimoniale introdotta in più paesi moltiplicherebbe la sua efficacia.
Per quanto riguarda l’Italia, il problema dei dati a disposizione e di come definire base imponibile e aliquote non può essere di certo trascurato, anche se – come si è visto – ci sono vari esempi da cui prendere spunto. Inoltre, nell’ottica di una necessaria riorganizzazione fiscale, a una tassa sul patrimonio se ne possono e devono affiancare altre, come l’incremento della progressività delle tasse sul reddito e sugli immobili, oppure una web tax per intercettare i profitti di chi si sta avvantaggiando dalla crisi attuale: le grandi piattaforme ICT e i grandi player del web.
Quello che andrebbe tuttavia sottolineato è l’intento con cui va disegnata la misura. Un’imposta patrimoniale non può essere pensata e costruita alla stregua di una colletta filantropica tra i grandi industriali e capitalisti del Paese per finanziare alcune opere pubbliche. Essa va interpretata piuttosto nel segno di una politica fortemente redistributiva che miri a ridurre (se non azzerare) la concentrazione dei grandi capitali. Inserire un’aliquota elevata su determinate ricchezze deve avere l’effetto a lungo termine di erodere quelle stesse ricchezze, riducendo via via gli introiti della tassa. Quindi, un’efficace imposta patrimoniale è una tassa a tempo con cui si prevede che entro un certo periodo si vada assottigliando il numero di coloro che sono chiamati a pagarla. L’obiettivo dovrebbe essere eradicare i super-privilegiati, partendo dal presupposto che con una ricchezza redistribuita in più mani è la società intera a beneficiarne e a poter raggiungere risultati migliori.
[1] Per una trattazione più approfondita sul tema si rimanda a questa pubblicazione dell’Ocse.