Perché non possiamo non dirci nazisti

articoli, video, canzoni di Gian Luigi Deiana, Chris Hedges, Munther Isaac, Jeffrey Sachs, David Rovics, Sarah Babiker, Pasquale Pugliese, Costantino Ceoldo, Eusebio Filopatro, Samir Al Quryioti, Amedeo Cottino, Elena Basile, Pino Arlacchi, Francesco Masala, William Van Wagenen, Mike Whitney, Caitlin Johnstone, Rashid Khalidi, Saadi Shirazi, Gideon Levy, Giuliano Marrucci, Alberto Bradanini, Fabrizio Poggi, Laura Tussi, Izzeldin Abuelaish, Refaat Alareer, Alessandro Bianchi, Latuff

NUDI DI GUERRA – Gian Luigi Deiana

lezioni di rappresaglia

circolano in queste ore le immagini di civili di gaza catturati nelle retate delle celeberrime IDF (cioè le forze israeliane di “difesa”) e concentrati in campi sportivi (concentrate in campi, però sportivi);

centinaia di persone compaiono in fila in mutande; le eroiche IDF informano che così si può verficare con certezza la presenza o meno di esplosivi sotto i vestiti: questione plausibile, ma se te li spogli a uno a uno, che senso ha, dopo la verifica individuale sui corpi, ammucchiare in fila tutta questa gente denudata, per semplice gusto di fotografia? sono queste le gesta delle gloriose IDF?

ecco dunque che le immagini cominciano a circolare, e tutte le persone in grazia di dio, come peraltro il timoratissimo ‘washington post’, restano un poco perplesse a vedere in quelle righe di prigionieri (civili, quindi presi per rappresaglia) due bambini in mutande in mezzo a cento adulti in mutande;

la perplessità, o l’indignazione, ovviamente lamentano la presenza di piccoli in mezzo ai grandi, perchè non sta bene:

ok, ma il senso di questo genere di rappresaglia non sta nell’umiliare bambini mettendoli in riga nudi in mezzo ad adulti nudi: sta invece nell’inverso, cioè umiliare gli adulti esponendoli nudi allo sguardo dei loro bambini;

sembra una specie di pedofilia del sadismo: il vero orrore non è la promiscuità di piccoli nudi in mezzo ad adulti nudi; ciò è brutto, ma si tratta di una situazione temporanea; il vero orrore sta proprio nella costrizione invertita dello sguardo: e cioè che bambini, più o meno nudi, siano posizionati a vedere l’umiliazione dei loro adulti: non tanto il padre accomunato nell’impotenza al figlio, ma il figlio costretto a vedere l’impotenza del padre;

questa crudeltà, inutile e stupida, ma inventata da intellegenze pervertite, è il nazismo

da qui

 

 

 

 

IL TEOREMA HERZOG – Gian Luigi Deiana

sterminare la palestina

isaac herzog è il presidente di israele, cioè il capo dello stato; non è il capo del governo, oggi benjamin netanyahu, tenuto secondo logica a perseguire la linea concordata nella sua maggioranza; no, herzog è il capo dello stato, formalmente una democrazia, tenuto a rappresentare tutti i cittadini; per tale ragione è a lui che si sono rivolti i familiari degli ostaggi del 7 ottobre, proprio mentre contestavano radicalmente l’opzione governativa per la guerra e quindi netanyahu stesso;

ma la posizione espressa da herzog, al di fuori delle sue miserabili dichiarazioni di solidarietà con le vittime israeliane dell’azione di hamas in quel giorno, è stupefacente in bocca a un presidente di una repubblica che vanta democrazia e valori dell’occidente:

herzog dice, letteralmente, che è falsa la retorica secondo cui il popolo palestinese, e in specie la popolazione di gaza, è inconsapevole delle operazioni di hamas, e che quindi di qualunque atto di hamas è “responsabile l’intera nazione”: ciò significa, alla lettera, che se per cancellare hamas è necessario cancellare la palestina, e quindi il popolo palestinese, ciò deve essere compiuto, senza alcun limite di condotta e senza alcun codice di guerra;

questo, in termini di logica, è un teorema: e dunque l’onu, i diritti umani, la diplomazia, la quotidianità delle stragi, i crimini guerra, lo scambio di prigionieri, le donne e i bambini, ecc. sono assolutamente insignificanti: “no limits”, questa è la condotta, laddove il senso stesso del concetto, la guerra, si perverte in quello di distruzione totale;

è ormai di assoluta evidenza non solo la criminosità senza regola dell’esercito israeliano, non solo la pianificazione di pogrom da parte dei coloni contro famiglie contadine palestinesi inermi, non solo la falsità spudorata addotta a giustificare bombardamenti di ospedali, distruzione di cimiteri, cecchinaggio sui luoghi di culto, omicidi mirati contro i giornalisti, ecc.; non solo: ma la gravità inaudita di questa non-guerra, ovvero di terrorismo su vasta scala compiuto da uno stato contro una popolazione civile, sta nel fatto che il presidente stesso di questo stato adduce a giustificazione di questo sterminio la “responsabilità della nazione” che ne subisce la volontà di annientamento;

beninteso: anche io, teorema per teorema, sono persuaso che la società civile israeliana abbia una sua responsabilità nell’avere cancellato le possibilità della pace, nell’aver fatto proprio l’assassinio di rabin, disonorandone la memoria e gettando nella spazzatura il suo disegno di pacificazione; nell’avere mantenuto al potere un personaggio efferato e corrotto quale natanyahu, e nell’aver affidato il governo del paese a partiti fascisti;

sì, sono persuaso che la società civile israeliana abbia gravissime responsabilità: ma in primo luogo io non sono un capo di stato in una guerra di terrore; e in secondo luogo non mi azzarderei mai ad affermare che tale responsabilità è da addebitare all’intera “nazione” ebraica;

vi è infatti una assoluta differenza tra il concetto di “società civile” e il concetto di “nazione”; il precedente storico a noi più prossimo, relativamente a questa assimilazione concettuale (società=nazione, ovvero società presente = nazione storica) fu proclamato da chi, e per giustificare cosa?

sì, fu proclamato da adolf hitler per giustificare lo sterminio; lo sterminio della nazione ebraica;

il teorema herzog, in quanto teorema, a fronte dei suoi effetti quotidiani (cimiteri, ospedali, reparti neonatali, chiese, moschee, scuole, strutture dell’onu, campi profughi… ) il teorema herzog è davvero così diverso?

da qui

 

 

 

La ricetta d’Israele – Francesco Masala

Una parte di nazismo (che non è mai morto), una parte di Abu Ghraib, le bombe degli Usa, il silenzio dell’Europa (che non si costerna, non s’indigna, ma s’impegna a mandare sempre più armi e morte), e soprattutto la sterminata devozione al libro che racconta le imprese, anzi gli orrori, di qualche migliaio d’anni fa, del loro sanguinario padrone.

 

Gaza: continua il genocidio e la pulizia etnica contro i palestinesi. Si lamentano vittime collaterali, sono i guerriglieri di Hamas e gli ostaggi israeliani.

 

Netanyhau si scusa con Hamas, il premio Nobel per la Pace non dovrebbe sfuggirgli.

 

Errore dell’ONU, dopo la possibilità di autorizzare la creazione di nuovi stati, si sono dimenticati di approvare l’articolo che, dopo un periodo di prova, revocasse l’autorizzazione all’esistenza dello stato.

 

 

LA MORTE DI ISRAELE – Chris Hedges

Gli Stati coloniali hanno una vita a termine. Israele non fa eccezione.

Dopo aver terminato la sua campagna genocida a Gaza e in Cisgiordania Israele apparirà trionfante. Sostenuto dagli Stati Uniti, avrà raggiunto il suo obiettivo demenziale. Le sue furie omicide e la violenza genocida avranno sterminato o ripulito etnicamente i palestinesi. Il suo sogno di uno Stato esclusivamente per gli ebrei, con tutti i palestinesi rimasti privati dei diritti fondamentali, sarà realizzato. Si rallegrerà per la sua vittoria intrisa di sangue. Celebrerà i suoi criminali di guerra. Il suo genocidio sarà cancellato dalla coscienza pubblica e gettato nell’enorme buco nero dell’amnesia storica di Israele. Chi in Israele ha una coscienza sarà messo a tacere e perseguitato.

Ma nel momento in cui Israele riuscirà a decimare Gaza – Israele parla di mesi di guerra – avrà firmato la propria condanna a morte. La sua facciata di civiltà, il suo presunto vantato rispetto per lo stato di diritto e la democrazia, la storia “mitologica” del coraggioso esercito israeliano e della miracolosa nascita della nazione ebraica, saranno ridotti in cenere. Il capitale sociale di Israele sarà esaurito. Si rivelerà come un brutto regime di apartheid, repressivo e pieno di odio, alienando le giovani generazioni di ebrei americani. Il suo patrono, gli Stati Uniti, con l’arrivo di nuove generazioni al potere, prenderà le distanze da Israele come sta facendo con l’Ucraina. Il suo sostegno popolare, già eroso negli Stati Uniti, verrà dai fascisti cristianizzati d’America che vedono nel dominio di Israele su un’antica terra biblica un presagio del Secondo Avventi e nella sottomissione degli arabi un razzismo affine ad una supremazia bianca.

Il sangue e la sofferenza dei palestinesi – a Gaza è stato ucciso un numero di bambini 10 volte superiore a quello di due anni di guerra in Ucraina (evidenziato dal Traduttore)- apriranno la strada all’oblio di Israele. Le decine, forse centinaia di migliaia di fantasmi avranno la loro vendetta. Israele diventerà sinonimo, con le sue vittime, come lo sono i turchi per gli armeni, i tedeschi per i namibiani e poi gli ebrei, i serbi per i bosniaci. La vita culturale, artistica, giornalistica e intellettuale di Israele sarà eliminata. Israele sarà una nazione stagnante dove i fanatici religiosi, i bigotti e gli estremisti ebrei che hanno preso il potere domineranno il discorso pubblico. Troverà i suoi alleati in altri regimi dispotici. La ripugnante supremazia razziale e religiosa di Israele sarà il suo attributo distintivo, ed è per questo che i suprematisti bianchi più retrogradi negli Stati Uniti e in Europa, tra cui filosemiti come John HageePaul Gosar e Marjorie Taylor Greene, sostengono con fervore Israele. La millantata lotta all’antisemitismo è una celebrazione sottilmente mascherata del potere bianco.

I dispotismi possono esistere a lungo dopo la loro scadenza. Ma sono terminali. Non è necessario essere uno studioso della Bibbia per capire che la sete di fiumi sangue di Israele è antitetica ai valori fondamentali dell’ebraismo. La cinica strumentalizzazione dell’Olocausto, compreso il bollare i palestinesi come nazisti, ha poca efficacia quando si compie un genocidio in diretta streaming contro 2,3 milioni di persone intrappolate in un campo di concentramento.

Le nazioni hanno bisogno di qualcosa di più della forza per sopravvivere. Hanno bisogno di una mistica. Questa mistica fornisce uno scopo, una civiltà e persino una nobiltà che ispira i cittadini a sacrificarsi per la nazione. La mistica offre speranza per il futuro. Fornisce un significato. Fornisce identità nazionale.

Quando la mistica implode, quando viene smascherata come menzogna, crolla un fondamento centrale del potere statale. Ho raccontato la morte delle mistiche comuniste nel 1989, durante le rivoluzioni in Germania Est, Cecoslovacchia e Romania. La polizia e i militari decisero che non c’era più nulla da difendere. La decadenza di Israele genererà la stessa fiacchezza e apatia. Non sarà in grado di reclutare collaboratori indigeni, come Mahmoud Abbas e l’Autorità Palestinese – vituperata dalla maggior parte dei palestinesi – per eseguire gli ordini dei colonizzatori. Lo storico Ronald Robinson cita l’incapacità di reclutare alleati indigeni da parte dell’Impero britannico come il punto in cui la collaborazione si è invertita in non cooperazione, un momento determinante per l’inizio della decolonizzazione. Una volta che la non collaborazione delle élite indigene si trasforma in opposizione attiva, spiega Robinson, la “rapida ritirata” dell’Impero è assicurata.

A Israele non resta che un’escalation di violenza, compresa la tortura, che accelera il declino. Questa violenza su larga scala funziona nel breve periodo, come nella guerra condotta dai francesi in Algeria, nella Guerra Sporca della dittatura militare argentina e durante il conflitto britannico in Irlanda del Nord. Ma a lungo termine è un suicidio.

Si potrebbe dire che la battaglia di Algeri è stata vinta grazie all’uso della tortura”, osservava lo storico britannico Alistair Horne, “ma che la guerra, la guerra d’Algeria, è stata persa“.

Il genocidio a Gaza ha trasformato i combattenti di Hamas in eroi nel mondo musulmano e nel Sud globale. Israele può spazzare via la leadership di Hamas. Ma l’assassinio passato – e presente – di decine di leader palestinesi ha fatto ben poco per smorzare la resistenza. L’assedio e il genocidio a Gaza hanno prodotto una nuova generazione di giovani uomini e donne profondamente traumatizzati e infuriati, le cui famiglie sono state uccise e le cui comunità sono state cancellate. Sono pronti a prendere il posto dei leader martirizzati. Israele ha mandato le azioni del suo avversario nell’empireo.

Israele era in guerra con se stesso già prima del 7 ottobre. Gli israeliani stavano protestando per impedire l’abolizione dell’indipendenza giudiziaria da parte del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. I bigotti e i fanatici religiosi, attualmente al potere, avevano sferrato un attacco deciso al secolarismo israeliano. L’unità di Israele dopo gli attacchi è precaria, è un’unità negativa, è tenuta insieme dall’odio. E nemmeno questo odio è sufficiente a impedire ai manifestanti di denunciare l’abbandono degli ostaggi israeliani a Gaza da parte del governo.

L’odio è un bene politico pericoloso. Una volta finito un nemico, coloro che alimentano l’odio vanno alla ricerca di un altro. Gli “animali umani” palestinesi, una volta sradicati o sottomessi, saranno sostituiti da ebrei apostati e traditori. Il gruppo demonizzato non potrà mai essere redento o curato. Una politica dell’odio crea un’instabilità permanente che viene sfruttata da chi cerca di distruggere la società civile.

Israele era ben avanti su questa strada il 7 ottobre, quando ha promulgato una serie di leggi discriminatorie nei confronti dei non ebrei che ricordano le leggi razziste di Norimberga, che esclusero gli ebrei dalla [vita civile della] Germania nazista. La legge sull’accettazione delle comunità consente agli insediamenti esclusivamente ebraici di escludere i richiedenti la residenza sulla base “dell’adeguatezza alle prospettive fondamentali della comunità”.

Molti dei giovani più istruiti di Israele hanno lasciato il Paese per trasferirsi in luoghi come il Canada, l’Australia e il Regno Unito, mentre un milione di persone si è trasferito negli Stati Uniti. Anche la Germania ha visto un afflusso di circa 20.000 israeliani nei primi due decenni di questo secolo. Dal 7 ottobre circa 470.000 israeliani hanno lasciato il Paese. All’interno di Israele, gli attivisti per i diritti umani, gli intellettuali e i giornalisti – israeliani e palestinesi – sono attaccati come traditori in campagne diffamatorie sponsorizzate dal governo, posti sotto sorveglianza statale e sottoposti ad arresti arbitrari. Il sistema educativo israeliano è una macchina per l’indottrinamento dei militari.

Lo studioso israeliano Yeshayahu Leibowitz ha avvertito che se Israele non separasse la Chiesa dallo Stato e non ponesse fine all’occupazione dei palestinesi, darebbe origine a un rabbinato corrotto che trasformerebbe l’ebraismo in un culto fascista. “Israele“, ha detto, “non meriterebbe di esistere e non varrebbe la pena di preservarlo“.

La mistica globale degli Stati Uniti, dopo due decenni di guerre disastrose in Medio Oriente e l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, è contaminata quanto il suo alleato israeliano. L’amministrazione Biden, nel suo fervore di sostenere incondizionatamente Israele e di placare la potente lobby israeliana, ha aggirato il processo di revisione del Congresso con il Dipartimento di Stato per approvare il trasferimento di 14.000 munizioni per carri armati a Israele.

Il Segretario di Stato Antony Blinken ha sostenuto che “esiste un’emergenza che richiede la vendita immediata“. Allo stesso tempo ha cinicamente invitato Israele a ridurre al minimo le vittime civili.

Israele non ha alcuna intenzione di ridurre al minimo le vittime civili. Ha già ucciso 18.800 palestinesi, lo 0,82% della popolazione di Gaza – l’equivalente di circa 2,7 milioni di americani. Altri 51.000 sono stati feriti. Secondo le Nazioni Unite metà della popolazione di Gaza sta morendo di fame. Tutte le istituzioni e i servizi palestinesi che sostengono la vita – ospedali (solo 11 dei 36 ospedali di Gaza sono ancora “parzialmente funzionanti“), impianti di trattamento delle acquereti elettrichesistemi fognariabitazioniscuoleedifici governativicentri culturalisistemi di telecomunicazionemoscheechiesepunti di distribuzione di cibo delle Nazioni Unite – sono stati distrutti. Israele ha assassinato almeno 80 giornalisti palestinesi insieme a decine di loro familiari e oltre 130 operatori umanitari delle Nazioni Unite insieme ai loro familiari. Le vittime civili sono il punto. Questa non è una guerra contro Hamas. È una guerra contro i palestinesi. L’obiettivo è uccidere o rimuovere 2,3 milioni di palestinesi da Gaza.

L’uccisione di tre ostaggi israeliani che apparentemente erano sfuggiti ai loro rapitori e, a torso nudo, si erano avvicinati alle forze israeliane, sventolando una bandiera bianca e chiedendo aiuto in ebraico, non è solo tragica, ma è anche uno spaccato delle regole di ingaggio di Israele a Gaza. Queste regole sono: uccidere tutto ciò che si muove.

Come ha scritto su Yedioth Ahronoth il maggior-generale israeliano in pensione Giora Eiland, già a capo del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano:

lo Stato di Israele non ha altra scelta che trasformare Gaza in un luogo in cui sia temporaneamente o permanentemente impossibile vivere… Creare una grave crisi umanitaria a Gaza è un mezzo necessario per raggiungere l’obiettivo“. “Gaza diventerà un luogo dove nessun essere umano potrà esistere“, ha scritto. Il maggiore generale Ghassan Alian ha dichiarato che a Gaza “non ci saranno né elettricità né acqua, ci sarà solo distruzione. Volevate l’inferno, avrete l’inferno

La presidenza Biden, che ironicamente potrebbe aver firmato il proprio certificato di morte politica, è legata al genocidio di Israele. Cercherà di prendere le distanze in modo retorico, ma allo stesso tempo incanalerà i miliardi di dollari di armi richiesti da Israele – compresi 14,3 miliardi di dollari in aiuti militari supplementari per aumentare i 3,8 miliardi di dollari di aiuti annuali – per “finire il lavoro“. È un partner a pieno titolo nel progetto di genocidio di Israele.

Israele è uno Stato paria. Questo è stato pubblicamente dimostrato il 12 dicembre, quando 153 Stati membri dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno votato per un cessate il fuoco, con solo 10 paesi – tra cui gli Stati Uniti e Israele – contrari e 23 astenuti. La campagna di terra bruciata di Israele a Gaza significa che non ci sarà pace. Non ci sarà una soluzione a due Stati. L’apartheid e il genocidio definiranno Israele. Questo fa presagire un lungo, lunghissimo conflitto, che lo Stato ebraico non potrà vincere.

da qui

 

 

 

Portare una testimonianza – Mr. Fish – Chris Hedges

In tempo di guerra scrivere e fotografare sono atti di resistenza, atti di fede. Affermano la convinzione che un giorno – un giorno che gli scrittori, i giornalisti e i fotografi potrebbero non vedere mai – le parole e le immagini evocheranno empatia, comprensione, indignazione e forniranno saggezza. Raccontano non solo i fatti, anche se i fatti sono importanti, ma la consistenza, la sacralità e il dolore delle vite e delle comunità perse. Raccontano al mondo com’è la guerra, come resistono coloro che sono presi nella sua morsa di morte, come c’è chi si sacrifica per gli altri e chi non lo fa, com’è la paura e la fame, com’è la morte. Trasmettono le grida dei bambini, i lamenti di dolore delle madri, la lotta quotidiana di fronte alla selvaggia violenza su scala industriale, il trionfo della loro umanità attraverso la sporcizia, la malattia, l’umiliazione e la paura. È per questo che scrittori, fotografi e giornalisti vengono presi di mira dagli aggressori in guerra – compresi quelli israeliani – per essere cancellati. Sono testimoni del male, un male che gli aggressori vogliono seppellire e dimenticare. Smascherano le menzogne. Condannano, anche dalla tomba, i loro assassini. Dal 7 ottobre Israele ha ucciso almeno 13 poeti e scrittori palestinesi e almeno 67 giornalisti e operatori dei media a Gaza e tre in Libano.

Quando mi occupavo di guerra ho sperimentato la futilità e l’indignazione. Mi sono chiesto se avessi fatto abbastanza, o se valesse la pena rischiare. Ma si va avanti perché non fare nulla significa essere complici. Si fa cronaca perché ci si preoccupa. Renderete difficile agli assassini negare i loro crimini.

Questo mi porta al romanziere e drammaturgo palestinese Atef Abu Saif. Lui e il figlio quindicenne Yasser, che vivono nella Cisgiordania occupata, stavano visitando la famiglia a Gaza – dove Atef è nato – quando Israele ha iniziato la sua campagna di terra bruciata. Atef non è nuovo alla violenza degli occupanti israeliani. Aveva due mesi durante la guerra del 1973 e scrive: “Da allora ho vissuto le guerre. Così come la vita è una pausa tra due morti, la Palestina, come luogo e come idea, è una pausa nel mezzo di molte guerre“.

Durante l’Operazione Piombo Fuso, l’assalto israeliano a Gaza del 2008/2009, Atef si rifugiò per 22 notti nel corridoio della sua casa di famiglia a Gaza, assieme alla moglie Hanna e ai due figli, mentre Israele bombardava e bombardava. Il suo libro “Il drone mangia con me: Diari da una città sotto assedio” è un resoconto dell’operazione Protective Edge, l’assalto israeliano del 2014 a Gaza che ha ucciso 1.523 civili palestinesi, tra cui 519 bambini.

I ricordi della guerra possono essere stranamente positivi, perché averli significa essere sopravvissuti“, osserva sardonicamente.

Ha fatto di nuovo quello che fanno gli scrittori, tra cui il professore e poeta Refaat Alareerucciso, a Gaza il 7 dicembre insieme a suo fratello, sua sorella e i suoi quattro figli, in un attacco aereo contro l’appartamento della sorella. L’Osservatorio Euro-Mediterraneo dei Diritti Umani ha dichiarato che Alareer è stato deliberatamente preso di mira, “bombardando chirurgicamente l’intero edificio”. La sua uccisione è avvenuta dopo settimane di “minacce di morte che Refaat ha ricevuto online e per telefono da account israeliani”.

Refaat, che aveva conseguito un dottorato sul poeta metafisico John Donne, a novembre aveva scritto una poesia intitolata “Se devo morire“, che era diventata il suo testamento morale e poetico. È stata tradotta in numerose lingue. Una lettura della poesia da parte dell’attore Brian Cox è stata vista quasi 30 milioni di volte

Se io devo morire,

tu devi vivere

per raccontare la mia storia

per vendere le mie cose

per comprare un pezzo di stoffa

e delle corde,

(fallo bianco con una lunga coda)

affinché un bambino, da qualche parte a Gaza

mentre guarda il cielo negli occhi

aspettando il suo papà che se n’è andato in un lampo…

e non ha detto addio a nessuno

nemmeno alla sua carne

nemmeno a se stesso –

vede l’aquilone, il mio aquilone che hai fatto tu,

che vola in alto

e pensa per un attimo che un angelo sia lì

che riporta l’amore

Se devo morire

che porti speranza

che sia un racconto.

 

Atef, trovandosi ancora una volta a vivere tra le esplosioni e la carneficina delle granate e delle bombe israeliane, pubblica caparbiamente le sue osservazioni e riflessioni. I suoi resoconti sono spesso difficili da trasmettere a causa del blocco di Internet e del servizio telefonico da parte di Israele. Sono apparsi su The Washington PostThe New York TimesThe Nation e Slate.

Il primo giorno del bombardamento israeliano, un amico, il giovane poeta e musicista Omar Abu Shawish, viene ucciso, apparentemente in un bombardamento navale israeliano, anche se in seguito i rapporti diranno che è stato ucciso in un attacco aereo mentre si recava al lavoro. Atef si interroga sui soldati israeliani che osservano lui e la sua famiglia con “i loro obiettivi a infrarossi e la fotografia satellitare”. Possono “contare le pagnotte nel mio cestino o il numero di polpette di falafel nel mio piatto?“, si chiede. Osserva le folle di famiglie stordite e confuse, con le case in macerie, che trasportano “materassi, sacchi di vestiti, cibo e bevande“. Rimane ammutolito davanti al “supermercato, all’ufficio di cambio, al negozio di falafel, alle bancarelle di frutta, alla profumeria, al negozio di dolciumi, al negozio di giocattoli – tutto bruciato“.

Sangue dappertutto, insieme a pezzi di giocattoli per bambini, lattine del supermercato, frutta distrutta, biciclette rotte e bottiglie di profumo in frantumi“, scrive. “Il posto sembrava il disegno a carboncino di una città bruciata da un drago“.

Sono andato alla Press House, dove i giornalisti stavano scaricando freneticamente immagini e scrivendo rapporti per le loro agenzie. Ero seduto con Bilal, il responsabile della sala stampa, quando un’esplosione ha scosso l’edificio. Le finestre sono andate in frantumi e il soffitto è crollato su di noi a pezzi. Siamo corsi verso la sala centrale. Uno dei giornalisti sanguinava, colpito da un vetro volante. Dopo 20 minuti ci siamo avventurati per ispezionare i danni. Ho notato che le decorazioni del Ramadan erano ancora appese nella strada”.

La città è diventata una landa desolata di macerie e detriti“, scrive Atef, che dal 2019 è ministro della Cultura dell’Autorità Palestinese, nei primi giorni del bombardamento israeliano su Gaza City. “I bei palazzi cadono come colonne di fumo. Penso spesso a quando mi hanno sparato da bambino, durante la prima intifada, e a come mia madre mi ha detto che sono morto per qualche minuto prima di essere riportato in vita. Forse questa volta posso fare lo stesso, penso“.

Affida ai familiari il figlio adolescente.

La logica palestinese prevede che in tempo di guerra si dorma tutti in posti diversi, in modo che se una parte della famiglia viene uccisa, un’altra parte vive“, scriveva. “Le scuole delle Nazioni Unite sono sempre più affollate di famiglie sfollate. La speranza è che la bandiera delle Nazioni Unite li salvi, anche se nelle guerre precedenti non è stato così“.

Martedì 17 ottobre scrive:

Vedo la morte avvicinarsi, sento i suoi passi farsi più forti. Basta che sia finita, penso. È l’undicesimo giorno del conflitto, ma tutti i giorni si sono fusi in uno solo: lo stesso bombardamento, la stessa paura, lo stesso odore. Al telegiornale leggo i nomi dei morti sul ticker in fondo allo schermo. Aspetto che appaia il mio nome.

Al mattino squilla il telefono. Era Rulla, una parente in Cisgiordania, che mi diceva di aver sentito che c’era stato un attacco aereo a Talat Howa, un quartiere a sud di Gaza City dove vive mio cugino Hatem. Hatem è sposato con Huda, l’unica sorella di mia moglie. Vive in un edificio di quattro piani che ospita anche sua madre, i suoi fratelli e le loro famiglie.

Ho chiamato in giro, ma non funzionava il telefono di nessuno di loro. Sono andato all’ospedale al-Shifa per leggere i nomi: gli elenchi dei morti sono appesi ogni giorno fuori da un obitorio improvvisato. Riuscivo a malapena ad avvicinarmi all’edificio: migliaia di abitanti di Gaza avevano fatto dell’ospedale la loro casa; i suoi giardini, i suoi corridoi, ogni spazio vuoto o angolo libero aveva una famiglia al suo interno. Mi sono arreso e mi sono diretto verso Hatem.

Trenta minuti dopo ero nella sua strada. Rulla aveva ragione. L’edificio di Huda e Hatem era stato colpito solo un’ora prima. I corpi della figlia e del nipote erano già stati recuperati; l’unico sopravvissuto noto era Wissam, una delle altre figlie, che era stata portata in terapia intensiva. Wissam era stata subito operata, dove le erano state amputate entrambe le gambe e la mano destra. La sua cerimonia di laurea al liceo artistico si era svolta solo il giorno prima. Dovrà passare il resto della sua vita senza gambe, con una mano sola. “E gli altri?” ho chiesto a qualcuno.

“Non riusciamo a trovarli”, mi hanno risposto.

Tra le macerie, abbiamo gridato: “C’è nessuno? Qualcuno ci sente?” Abbiamo chiamato i nomi dei dispersi, sperando che qualcuno fosse ancora vivo. Alla fine della giornata siamo riusciti a trovare cinque corpi, tra cui quello di un bambino di 3 mesi. Siamo andati al cimitero per seppellirli.

La sera sono andata a trovare Wissam in ospedale; era appena sveglia. Dopo mezz’ora mi chiese: “Khalo [zio], sto sognando, vero?”

Le ho risposto: “Siamo tutti in un sogno”.

“Il mio sogno è terrificante! Perché?”

“Tutti i nostri sogni sono terrificanti”.

Dopo 10 minuti di silenzio, ha detto: “Non mentirmi, Khalo. Nel mio sogno non ho le gambe. È vero, no? Non ho le gambe?”.

“Ma hai detto che è un sogno.”

“Non mi piace questo sogno, Khalo.”

Dovevo andarmene. Per 10 lunghi minuti ho pianto e pianto. Sopraffatto dagli orrori degli ultimi giorni, sono uscito dall’ospedale e mi sono ritrovato a vagare per le strade. Ho pensato: “Potremmo trasformare questa città in un set cinematografico per film di guerra”. Film sulla Seconda Guerra Mondiale e sulla fine del mondo. Potremmo affittarla ai migliori registi di Hollywood. Il giorno del giudizio su richiesta. Chi potrebbe avere il coraggio di dire ad Hanna, così lontana a Ramallah, che la sua unica sorella è stata uccisa? Che la sua famiglia è stata uccisa? Telefonai alla mia collega Manar e le chiesi di andare a casa nostra con un paio di amici per cercare di ritardare l’arrivo della notizia. “Mentile”, dissi a Manar. “Dille che l’edificio è stato attaccato dagli F-16, ma che i vicini pensano che Huda e Hatem fossero fuori in quel momento. Qualsiasi bugia che possa essere utile”.

Volantini in arabo lasciati cadere dagli elicotteri israeliani fluttuano giù dal cielo. Annunciano che chiunque rimanga a nord del corso d’acqua Wadi sarà considerato un complice del terrorismo, “il che significa“, scrive Atef, “che gli israeliani possono sparare a vista“. L’elettricità viene tagliata. Cibo, carburante e acqua iniziano a scarseggiare. I feriti vengono operati senza anestesia. Non ci sono antidolorifici o sedativi. Va all’ospedale al-Shifa a trovare sua nipote Wissam che, straziata dal dolore, gli chiede un’iniezione letale. Dice che Allah la perdonerà.

Ma non perdonerà me, Wissam.

Glielo chiederò, a nome tuo” dice.

Dopo gli attacchi aerei si unisce alle squadre di soccorso “sotto il ronzio dei droni che non riuscivamo a vedere nel cielo“. Un verso di T.S. Eliot, “un cumulo di immagini spezzate“, gli passa per la testa. I feriti e i morti sono “trasportati su biciclette a tre ruote o trascinati su carri da animali“.

Abbiamo raccolto pezzi di corpi mutilati e li abbiamo riuniti su una coperta; trovi una gamba qui, una mano là, mentre il resto sembra carne macinata“, scrive. “Nell’ultima settimana, molti abitanti di Gaza hanno iniziato a scrivere i loro nomi sulle mani e sulle gambe, a penna o con un pennarello indelebile, in modo da poter essere identificati quando arriverà la morte. Potrebbe sembrare macabro, ma ha perfettamente senso: vogliamo essere ricordati, vogliamo che le nostre storie siano raccontate, vogliamo dignità. Come minimo, i nostri nomi saranno sulle nostre tombe. L’odore dei corpi non recuperati sotto le rovine di una casa colpita la settimana scorsa rimane nell’aria. Più passa il tempo, più l’odore è forte“.

Le scene intorno a lui diventano surreali. Il 19 novembre, 44° giorno dell’assalto, scrive:

Un uomo a cavallo viene verso di me, con il corpo di un adolescente morto legato alla sella davanti. Sembra che sia suo figlio, forse. Sembra una scena di un film storico, solo che il cavallo è debole e a malapena in grado di muoversi. Non è reduce da nessuna battaglia. Non è un cavaliere. I suoi occhi sono pieni di lacrime mentre tiene il piccolo frustino in una mano e la briglia nell’altra. Ho l’impulso di fotografarlo, ma poi mi sento improvvisamente male all’idea. Non saluta nessuno. Alza a malapena lo sguardo. È troppo preso dalla sua perdita. La maggior parte delle persone utilizza il vecchio cimitero del campo; è il più sicuro e, sebbene sia tecnicamente pieno da tempo, hanno iniziato a scavare tombe meno profonde e a seppellire i nuovi morti sopra quelli vecchi, ovviamente tenendo unite le famiglie.

Il 21 novembre, dopo i continui bombardamenti dei carri armati, decide di fuggire dal quartiere di Jabaliya, nel nord di Gaza, per dirigersi verso il sud, insieme al figlio e alla suocera, che è su una sedia a rotelle. Devono passare attraverso i checkpoint israeliani, dove i soldati selezionano a caso uomini e ragazzi dalla fila per arrestarli.

Decine di corpi sono sparsi su entrambi i lati della strada“, scrive. “Sembra che stiano marcendo nel terreno. L’odore è orrendo. Una mano si protende verso di noi dal finestrino di un’auto bruciata, come se chiedesse qualcosa, a me in particolare. Vedo quelli che sembrano due corpi senza testa in un’auto: arti e parti preziose del corpo buttati via e lasciati a marcire“.

Dice a suo figlio Yasser: “Non guardare. Continua a camminare, figliolo“.

All’inizio di dicembre la casa di famiglia viene distrutta da un attacco aereo.

La casa in cui uno scrittore cresce è un pozzo da cui attingere materiale. In ognuno dei miei romanzi, ogni volta che volevo rappresentare una casa tipica del campo, ho evocato la nostra. Spostavo un po’ i mobili, cambiavo il nome del vicolo, ma chi volevo prendere in giro? Era sempre la nostra casa.

Tutte le case di Jabalya sono piccole. Sono costruite a caso, in modo disordinato, e non sono fatte per durare. Queste case hanno sostituito le tende in cui vivevano i palestinesi come mia nonna Eisha dopo lo sfollamento del 1948. Coloro che le hanno costruite hanno sempre pensato che presto sarebbero tornati alle belle e spaziose case che si erano lasciati alle spalle nelle città e nei villaggi della Palestina storica. Quel ritorno non è mai avvenuto, nonostante i nostri numerosi rituali di speranza, come la salvaguardia della chiave della vecchia casa di famiglia. Il futuro continua a tradirci, ma il passato è nostro.

Anche se ho vissuto in molte città del mondo e ne ho visitate molte altre, quella piccola casa sgangherata è stato l’unico posto in cui mi sono sentito a casa“, prosegue. Amici e colleghi mi chiedevano sempre: perché non vivi in Europa o in America? Ne hai l’opportunità. I miei studenti hanno chiesto: perché sei tornato a Gaza? La mia risposta era sempre la stessa: ‘Perché a Gaza, in un vicolo del quartiere Saftawi di Jabalya, c’è una casetta che non si trova in nessun’altra parte del mondo’. Se nel giorno del giudizio Dio mi chiedesse dove vorrei essere mandato, non esiterei a dire: ‘A casa’. Ora non c’è più nessuna casa“.

Atef è ora intrappolato nel sud di Gaza con suo figlio. Sua nipote è stata trasferita in un ospedale in Egitto. Israele continua a martellare Gaza con oltre 20.000 morti e 50.000 feriti. Atef continua a scrivere.

La storia del Natale è la storia di una povera donna, incinta di nove mesi, e di suo marito costretti a lasciare la loro casa di Nazareth, nel nord della Galilea. La potenza romana occupante ha chiesto che si registrino per il censimento a 90 miglia di distanza, a Betlemme. Quando arrivano non ci sono stanze. La donna partorisce in una stalla. Il re Erode, che ha saputo dai Magi della nascita del Messia, ordina ai suoi soldati di dare la caccia a tutti i bambini di Betlemme e dintorni di età non superiore ai due anni e di ucciderli. Un angelo avverte in sogno Giuseppe di fuggire. I due coniugi e il bambino fuggono con il favore delle tenebre e intraprendono un viaggio di 40 miglia verso l’Egitto.

All’inizio degli anni ’80 mi trovavo in un campo profughi per guatemaltechi fuggiti dalla guerra in Honduras. I contadini e le loro famiglie, che vivevano nella sporcizia e nel fango, con i villaggi e le case bruciati o abbandonati, stavano decorando le loro tende con strisce di carta colorata per celebrare la Strage degli Innocenti.

Perché è un giorno così importante?” chiesi.

È in questo giorno che Cristo è diventato un rifugiato“, mi rispose un contadino.

La storia di Natale non è stata scritta per gli oppressori. È stata scritta per gli oppressi. Siamo chiamati a proteggere gli innocenti. Siamo chiamati a sfidare il potere di occupazione. Atef, Refaat e quelli come loro, che ci parlano a rischio di morte, fanno eco a questa ingiunzione biblica. Parlano perché non restiamo in silenzio. Parlano perché prendiamo queste parole e queste immagini e le rivolgiamo ai principati del mondo – i media, i politici, i diplomatici, le università, i ricchi e i privilegiati, i produttori di armi, il Pentagono e i gruppi di pressione di Israele – che stanno orchestrando il genocidio a Gaza.

Il Cristo bambino non giace oggi nella paglia, ma in un mucchio di cemento rotto.

Il male non è cambiato nel corso dei millenni. E nemmeno la bontà.

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Generale yankee Ben Hodges: l’Ucraina banderista non segue abbastanza l’esempio nazista – Fabrizio Poggi

Di fronte alle ultime esternazioni sull’Ucraina, da parte dell’ex comandante delle forze yankee in Europa, generale Ben Hodges, non pare fuor di luogo ricordare una cosa nota a tutti, ma tanto spesso dimenticata e cioè di come in larga parte gli ex comandanti della Wehrmacht avessero istruito gli alti ufficiali USA alle strategie tedesche. E un fatto altrettanto spesso volutamente ignorato è di come proprio quegli ex generali hitleriani fossero stati sconfitti non dagli anglo-americani, ma almeno per l’80% dall’Esercito Rosso.

Ora, cosa ha detto Ben Hodges? In un’intervista a un canale Telegram australiano ha dichiarato che per Kiev non è sufficiente seguire le idee naziste, ma la junta dovrebbe adottarne anche la pratica bellica: «gli ucraini dovrebbero mutuare l’esempio della Germania nel 1944, allorché, nonostante i massicci bombardamenti alleati, la Germania elevò al massimo livello la produzione di caccia e bombardieri». Così, oggi, gli ucraini dovrebbero aumentare la produzione di mezzi militari e munizionamento sul proprio territorio, nonostante «la pioggia di missili e droni» russi.

Hodges ha anche detto che è scandaloso che un così gran numero di giovani e ragazze ucraini si rifugino all’estero, non vestano la divisa e che invece questa immensa risorsa vada senz’altro mobilitata, fino all’ultimo ucraino, come fecero i nazisti nel 1945, arruolando ragazzi, vecchi e donne nella Volkssturm. E si sa come andò a finire.

Hodges, nota qualcuno sui social, dimentica che gli americani sono usciti sempre sconfitti dalle guerre che hanno iniziato, proprio perché sono andati a lezione dei caporioni della Wehrmacht.

Ma non basta. Hodges ha parlato anche della necessità per Kiev di avviare la produzione di armi in Ucraina, sull’esempio nazista. Su questo versante, le sue parole non sono che uno schermo dietro cui si nasconde il ben più netto “Kiev non riceverà più quel grosso volume di armamenti occidentali cui era sinora abituata”. E, ancora una volta, ha “dimenticato”, o ha evitato di dire, che nella Germania del 1944, in fabbriche scavate nelle profondità delle montagne e al sicuro dal potenziale esplosivo delle bombe dell’epoca, lavoravano su tre turni decine di migliaia di schiavi di guerra ma che, nonostante ciò, meno di un anno dopo aver raggiunto quel «massimo livello di produzione di caccia e bombardieri», la Germania nazista non esisteva più. Un funereo pronostico?…

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Alberto Bradanini – I 7 crimini che rendono un governo genocidario

La lucida, coraggiosa giornalista australiana, Caitlin Johnstone, afferma[1] che se un governo dovesse dare inizio al genocidio di un popolo – una strategia destinata a durare nel tempo, anni o decenni, a meno che non riuscisse a cacciarli prima, dalla loro terra, con la forza – inizierebbe con l’eliminazione del maggior numero possibile di donne e bambini[2]. La loro soppressione, com’è evidente[3], risolverebbe il problema nella culla, è il tragico caso di rilevare, impedendo il riprodursi di un popolo che quell’ipotetico governo genocidario intendesse spazzar via. A ben guardare quel governo farebbe esattamente ciò che Israele sta facendo a Gaza.

Quel governo genocidario prenderebbe poi di mira i civili e le infrastrutture civili per rendere assai difficile o impossibile la sopravvivenza della popolazione da eliminare. Guarda caso si tratta proprio di quello che Israele sta facendo a Gaza[4].

Sempre quel governo genocidario punterebbe quindi ai centri culturali, con il fine di distruggere le radici storiche della popolazione da sopprimere, demolendo luoghi di cultura, musei ed edifici religiosi[5]. Sarà anche qui una coincidenza, ma è esattamente ciò che Israele sta facendo a Gaza[6].

Sempre quell’ipotetico governo genocidario cercherebbe anche di colpire i membri migliori, i più preparati e competenti di quella sciagurata popolazione, sterminando medici, avvocati, accademici, giornalisti e leader di pensiero, al fine di impedire la possibile ricostituzione di quella civiltà che intende depennare dalla mappa del mondo. Ancora una volta, esso farebbe esattamente ciò che sta facendo Israele a Gaza[7].

Inoltre, per condividere le responsabilità dei crimini commessi (non si sa mai che un giorno qualcuno possa essere chiamato a rendere conto!), quell’ipotetico governo incoraggerebbe tutti i membri della leadership del paese (non solo della compagine governativa) a far uso di tale retorica genocida, mascherata o esplicita, affinché tale progetto appaia una scelta di tutto il paese, non solo di qualche settore politico-militare temporaneamente uscito di testa. Sarà un caso, ma vengono alla memoria alcune espressioni utilizzate dal governo israeliano (ad es. Yoav GallantMin. della Difesa, secondo il quale i palestinesi sono animali umani[8]) quando ha spiegato al mondo cosa intende fare a Gaza[9].

Quel medesimo governo genocidario aggredirebbe poi la popolazione indesiderata con ogni mezzo – bombardamenti aerei, ordigni al fosforo bianco o di qualsiasi altro colore – forzandola a dirigersi verso il confine[10], facendo poi trovare le altre nazioni davanti alla tragica scelta di accogliere quella misera umanità, con tutti gli inconvenienti politici e sociali che tale scelta comporterebbe, o di assistere a un altro massacro, sulla base del principio di diritto internazionale auto-generato da quello stesso governo genocidario e sintetizzabile come segue: “vi avevo avvertiti, non fingete di ignorare le conseguenze della vostra colpevole inerzia”. E per aiutare quelle nazioni a decidere in fretta continuerebbero a piovere su quelle genti esplosivi di ogni genere, mentre i loro spazi di vita si ridurrebbero sempre più, inesorabilmente.

Quel governo genocidario, infine, una volta sbarazzatosi di quell’ingombrante popolazione, ripopolerebbe la terra lasciata vuota con persone compatibili, con quanto riguardo all’etica e alla civiltà giuridica nazionale o internazionale si può solo immaginare.

Ebbene, sarà un’altra coincidenza, ma questo è proprio ciò che Israele sta facendo a Gaza, sotto gli occhi inerti o spenti del mondo intero e con l’ignobile copertura (mediatica, finanziaria e militare) della superpotenza americana, un paese dove governo, stato profondo e stato permanente (finanza, industria militare e intelligence) quando si occupano di Medioriente devono rendere conto a Israele[11] (i cui interessi in America sono rappresentati dalla potentissima Aipac[12]), se del caso anche contro gli stessi interessi della nazione americana, che talvolta (seppur raramente) divergono da quelli dello Stato Ebraico. E tutto ciò in barba a ogni criterio di democrazia, responsabilità giuridica ed equità, oltre che di una dose davvero minima di umanità. Vergogna!…

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Gideon Levy: Per Israele, 20.000 gazawi sono responsabili della loro stessa morte. Non mi sono mai vergognato tanto

Il giornalista Ben Caspit è il simbolo del centro politico israeliano. Vive a Hod Hasharon e conduce un talk show radiofonico con il giornalista Yinon Magal, che è di estrema destra. Caspit, presumibilmente, non lo è. È un giornalista con buoni collegamenti, molto rispettato e di successo.

Nel fine settimana, il direttore esecutivo del gruppo anti-occupazione Breaking the Silence ha scritto su X: “Non guardate dall’altra parte. Un corrispondente della CNN è entrato nel sud della Striscia di Gaza e ha aperto una ‘finestra sull’inferno’ di Gaza”.

Questo è ciò che Caspit, una persona moderata e che si ritiene rispettabile, ha detto in risposta: “Perché dovremmo guardare? Si sono guadagnati onestamente il loro inferno; non ho un briciolo di compassione”. Caspit, come al solito, è il portavoce dell’opinione corrente israeliana.

Ottomila bambini sono responsabili della propria morte; 20.000 persone sono responsabili di essere state uccise; 2 milioni di persone hanno causato il proprio sradicamento. È così che una persona ricca parla sempre dei poveri, una persona di successo dei meno fortunati, una persona sana dei disabili, un forte di un debole, un Ashkenazi di un ebreo Mizrahi: la colpa è del loro vittimismo.

Nell’Israele del dopo 7 ottobre, si possono incolpare 10.000 bambini e neonati per la loro stessa morte senza che Israele abbia nemmeno un briciolo di responsabilità e di colpevolezza. Nell’Israele del dopo 7 ottobre, ci si può sentire senza colpe solo perché Hamas ha iniziato a commettere atrocità per primo.

Un paese giace in rovina e tutti i suoi abitanti sono in un inferno, e il generatore di questo inferno non ha alcuna colpa, nemmeno minima, nemmeno insieme alla colpa di Hamas. Il giornalista che è il simbolo del centro israeliano non ha nemmeno un briciolo di compassione per i bambini amputati mostrati nel coraggioso e orribile reportage di Clarissa Ward da un ospedale di Rafah.

Che vengano amputati arti, che i bambini muoiano, che tutti i gazawi muoiano, che soffochino in un inferno, non sono affari nostri. Sono loro i responsabili del loro disastro, solo loro. Caspit ha colto nel segno: la vittima è responsabile del suo vittimismo.

Mettendo da parte la questione delle colpe e delle responsabilità – che sono tutte di Hamas e non di Israele, i cui soldati e piloti scorrazzano liberi e senza freni a Gaza – noi non c’entriamo nulla, l’importante è che non ci sentiamo in colpa per nulla.

A parte questo, bisogna essere incredibilmente ottusi, crudeli e persino barbari per non provare almeno un po’ di empatia per i bambini che muoiono sui pavimenti degli ospedali, per un padre che piange sul corpo del figlio, per un neonato coperto dalla polvere della sua casa bombardata, che cerca invano qualcuno nel mondo, per le persone che vivono da due mesi nel terrore, nella disperazione e senza più nulla nella loro vita; per gli affamati, i malati, i disabili e i diseredati della Striscia di Gaza.

Persino l’empatia è proibita agli occhi di Caspit e dei suoi, per evitare che si insinui un pensiero pericoloso e proibito: che sono esseri umani quelli che vivono a Gaza. È una cosa che gli israeliani non riescono a sopportare.

Attenti a non superare una linea pericolosa, a cui possono far seguito pensieri estranei agli israeliani riguardo a quanto sia lecito spingersi per una giusta causa; cosa è lecito e, soprattutto, cosa è vietato in qualsiasi circostanza.

Ci sono cose che sono proibite in qualsiasi circostanza. L’uccisione di 8.000 bambini in due mesi, per esempio. Caspit e i suoi vogliono solo applaudire l’eroico esercito senza vedere cosa fa.

L’umanità è proibita, siamo israeliani. Quando si verifica un terremoto in qualsiasi parte del mondo, inviamo aiuti e siamo orgogliosi di noi stessi, ma le uccisioni di massa a Gaza non ci riguardano. È così che funziona la moralità di Israele. È pensata per permettere a Caspit, non solo a Magal, di sentirsi bene con se stessi riguardo a Gaza.

In occasione di una conferenza internazionale tenutasi lo scorso fine settimana a Istanbul, ho detto, tra le altre cose, che non mi sono mai vergognato così tanto di essere israeliano come quando ho visto le immagini da Gaza. Queste parole sono state pubblicate su un popolare sito web israeliano di intrattenimento. Durante il fine settimana, ho ricevuto centinaia (forse migliaia, ormai) di chiamate e messaggi di testo ingiuriosi. Spesso si può conoscere una società attraverso le sue fogne. Insieme vinceremo, recita lo slogan attuale.

Tuttavia, la distanza tra il liquame che mi viene indirizzato e le parole apparentemente rispettabili di Caspit è minore di quanto si possa immaginare. Non c’è differenza tra l’odio per gli arabi e la loro disumanizzazione, espressi nel linguaggio volgare e inarticolato dei miei interlocutori, e le parole ben formulate di Caspit.

Sia il basso che l’alto Israele hanno perso la loro immagine umana. Questo è un motivo sufficiente per vergognarsi di essere israeliani.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

da qui

 

 

senza titolo – SAADI SHIRAZI

«Son membra d’un corpo solo i figli
di Adamo,
da un’unica essenza quel giorno
creati.
E se uno tra essi a sventura
conduca il destino,
per le altre membra non resterà
riparo.
A te, che per l’altrui sciagura non
provi dolore,
non può esser dato nome di Uomo»

da qui

 

 

Una guerra coloniale – Rashid Khalidi

Lo storico Rashid Khalidi, docente di studi arabi moderni a New York e titolare della cattedra Edward Said alla Columbia University, il 20 dicembre ha discusso a Democracy Now! del più volte rinviato voto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla sospensione dei combattimenti a Gaza e del futuro della Palestina. Secondo quanto riferito, l’amministrazione Biden ha ritardato il voto delle Nazioni Unite e ha spinto altri paesi ad annacquare il linguaggio. L’incessante attacco di Israele a Gaza ha ucciso quasi 20.000 palestinesi e costretto alla fuga oltre il 90% dei 2,3 milioni di persone della Striscia di Gaza. “La situazione a Gaza è indicibile”, dice Khalidi, professore di studi arabi moderni intitolati a Edward Said nella Columbia University. “Stiamo parlando di eventi traumatici che segneranno le generazioni a venire”, ha aggiunto l’autorevole storico statunitense-palestinese che ha poi spiegato come la guerra di Gaza rischi di innescare un conflitto regionale e quanta rabbia stiano suscitando per “intere generazioni” nel mondo arabo e oltre quel mondo il comportamento di Israele e quello del governo degli Stati Uniti. Qui sotto potete vedere il video della trasmissione e leggerne la traduzione di una trascrizione urgente che potrebbe non corrispondere integralmente alla sua forma finale

 

AMY GOODMAN: Il capo dell’ala politica di Hamas, Ismail Haniyeh, è ​​arrivato al Cairo, in Egitto, per colloqui mentre crescono le speranze che si possa raggiungere un nuovo accordo per un cessate il fuoco e il rilascio di altri ostaggi. Il bombardamento israeliano di Gaza è iniziato 75 giorni fa, il 7 ottobre, poche ore dopo l’attacco di Hamas contro Israele. Le autorità sanitarie di Gaza affermano che finora sono stati uccisi almeno 19.600 palestinesi. Si teme però che altre migliaia di persone siano ancora intrappolate sotto le macerie.

Poco prima di questa trasmissione, Israele ha colpito edifici residenziali nella città meridionale di Rafah, vicino all’ospedale speciale del Kuwait. Un giornalista di Al Jazeera, Hani Mahmoud, era in onda quando è avvenuto l’attacco.

HANI MAHMOUD: Mentre stiamo entrando nel… ooh! Dio mio! L’hai sentito?

DEMOCRACY NOW!: Sì, sì, l’abbiamo sentito!

HANI MAHMOUD: Oh mio Dio! Oh, quello è l’ospedale! Quello è l’ospedale! Quello è l’ospedale! Dio mio! Ragazzi, lo avete sentito?

DEMOCRACY NOW!: Sì, lo sentiamo. Lo stiamo sentendo, Hani. Stai… stai bene?

HANI MAHMOUD: Lo hai sentito? Tutti i detriti.

DEMOCRACY NOW!: Sei… sei in un posto sicuro per continuare a parlare con noi?

HANI MAHMOUD: Perché? Perché? Perché?

AMY GOODMAN : “Perché? Perché?” si chiede Hani Mahmoud, giornalista di Al Jazeera. Al Jazeera riferisce che l’attacco israeliano ha distrutto una grande moschea a Rafah, oltre a due case residenziali. Droni israeliani erano stati visti nel cielo poco prima degli attacchi. In precedenza, un altro attacco israeliano al campo profughi di Jabaliya aveva ucciso almeno 46 palestinesi e ne aveva feriti decine.

Si prevede che oggi il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite voti una nuova risoluzione su Gaza. Martedì il voto è stato rinviato dopo che gli Stati Uniti si sono detti contrari alla bozza della risoluzione. Già l’8 dicembre gli Stati Uniti hanno posto il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva il cessate il fuoco.

Tutto ciò avviene mentre la tensione cresce nel Mar Rosso. Il segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin ha annunciato che gli Stati Uniti guideranno una nuova task force militare per proteggere le navi nel Mar Rosso a seguito di una serie di attacchi da parte delle forze Houthi dallo Yemen.

Ora si unisce a noi Rashid Khalidi, il professore di studi arabi moderni intitolati a Edward Said alla Columbia University, qui a New York. È autore di numerosi libri, incluso l’ultimo, La guerra dei cent’anni sulla Palestina. Il suo recente articolo d’opinione per il Los Angeles Times è intitolato “Come gli Stati Uniti hanno alimentato la decennale guerra di Israele contro i palestinesi”.

Professor Khalidi, mi chiedevo se potesse iniziare parlando semplicemente della situazione generale a Gaza. La sua famiglia viene dalla Cisgiordania. Anche lei però ha dei familiari a Gaza. E voglio sottolineare che ho particolarmente parlato del nome del giornalista di Al Jazeera, Hani Mahmoud, perché è così orribile nominare i giornalisti solo dopo che sono stati uccisi, e così tanti di loro sono morti. Il coraggio di Hani Mahmoud è sorprendente mentre lo osserviamo attraversare la Striscia di Gaza e oggi nel bel mezzo di questo attacco. Partiamo da lì, professor Khalidi.

RASHID KHALIDI: Beh, è ​​molto fortunato ad essere ancora vivo. Più di 90 giornalisti sono stati uccisi a Gaza: siamo ormai all’undicesima settimana di questa guerra. Sono stati uccisi anche 283 operatori sanitari e 135 lavoratori delle Nazioni Unite. È il numero di vittime più alto che le Nazioni Unite abbiano mai subito in tutta la loro storia. Ma questa è solo la punta dell’icebergPrima ha citato circa 20.000 persone uccise. Probabilmente il numero è molto più alto, perché sono tante migliaia quelle sepolte sotto le macerie o disperse. E probabilmente non conosceremo il bilancio finale delle vittime per molti, molti mesi ancora, quando le operazioni per rimuovere le rovine degli edifici che sono stati distrutti saranno completate.

La situazione a Gaza è indicibile. Quello che sentiamo dalla famiglia di mia nipote non posso descriverlo. È incredibile. Le persone sono alla ricerca dei generi di prima necessità e a volte non li trovano: serve legna da ardere per scaldare l’acqua e per cucinare, non c’è acqua sufficiente perché tutti possano bere, per non parlare di lavarsi. Potrei continuare. È indicibile. È intollerabile.

La cosa più tragica è che questa situazione è chiaramente voluta. Né il nostro governo (Usa) né quello israeliano riconoscono il fatto che ciò che sta accadendo lì sta causando l’impoverimento di oltre 2 milioni di persone. Questo potrebbe essere facilmente fermato, e dovrebbe essere fermato. Non riesco a capire come questo paese, gli Stati Uniti, possa permettere che tutto questo continui. L’idea che attaccare Hamas significhi distruggere più della metà delle abitazioni di Gaza, ferire 50.000 persone e ucciderne 20.000. Per me è incomprensibile che il governo Usa possa essere così insensibile e determinato a non prendere le distanze da Israele, per quanto riguarda la natura fondamentale di questa guerra, che è in realtà diretta contro il popolo di Gaza. Oltre 2 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Questo è il più grande sfollamento nella storia palestinese. L’uccisione di 20.000 persone, di cui quasi la metà erano bambini, non ha precedenti nella storia palestinese. Stiamo quindi parlando di eventi traumatici che segneranno le generazioni a venire, ma questo non sembra essere motivo di preoccupazione per il nostro governo, per non parlare poi del governo di Israele.

JUAN GONZÁLEZ: Professor Khalidi, abbiamo assistito a manifestazioni di massa senza precedenti a sostegno dei palestinesi in tutto il mondo. La maggioranza dei governi dell’Assemblea Generale dell’Onu, la stragrande maggioranza, ha chiesto un cessate il fuoco, ma il Consiglio di Sicurezza continua a rappresentare un ostacolo, soprattutto per il comportamento degli Stati Uniti. Può parlarci di ciò che questo sta facendo alla legittimità delle stesse Nazioni Unite?

RASHID KHALIDI : Beh, penso che stia danneggiando le Nazioni Unite, ma anche la legittimità della posizione degli Stati Uniti. Non è il Consiglio di Sicurezza a bloccare l’azione. È il governo degli Stati Uniti a farlo. L’ultima volta che una risoluzione sul cessate il fuoco è stata presentata al Consiglio di Sicurezza c’è stata un’astensione e 13 voti a favore. E hanno trascorso tre giorni cercando di ottenere una risoluzione che non implicasse un cessate il fuoco, ma una pausa umanitaria. Gli Stati Uniti l’hanno ostacolata per tre giorni. Penso dunque che questo danneggerà non solo le Nazioni Unite, perché sono palesemente impotenti di fronte a questa catastrofe, ma stia danneggiando gli Stati Uniti.

C’è un sostegno enorme in tutto il mondo per porre fine a questa situazione. C’è simpatia in tutto il mondo per i palestinesi. Penso che i sondaggi mostrino un sostegno molto forte anche negli Stati Uniti per porre fine a questa guerra, per lo meno per fermare quello che sta succedendo in modo che gli aiuti umanitari possano arrivare. L’amministrazione Biden è chiaramente impermeabile a tutto questo. E poi penso che i media mainstream, francamente, siano complici. Nessuno sa che quattro grandi sindacati hanno chiesto un cessate il fuoco: la United Auto Workers, gli infermieri, gli elettricisti e i postini. Il New York Times, ad esempio, non si è nemmeno degnato di menzionarlo. Stiamo parlando di una grande rabbia e opposizione alla politica verso l’amministrazione Biden da parte di ampie fasce del popolo statunitense. Loro continuano a lavorare come se tutto ciò non avesse importanza. Trovo molto difficile spiegarlo, francamente.

JUAN GONZÁLEZ: Ci sono stati numerosi resoconti dei media di attacchi contro le truppe statunitensi in Siria e Iraq. Minacciano di espandere il conflitto oltre i soli Territori occupati e Gaza. Ma cosa diavolo stanno ancora facendo le truppe statunitensi in quei due paesi? Il Congresso ha autorizzato la loro presenza lì? I governi di quei Paesi li vogliono davvero lì?

RASHID KHALIDI: Il governo siriano, la dittatura di Bashar al-Assad, certamente non li vuole. Il pretesto per essere in Siria [non udibile] è quello di essere lì contro lo Stato islamico. Non credo, però, che ci sia alcuna autorizzazione per la loro presenza lì. Si suppone che le truppe presenti in Iraq siano impegnate nell’addestramento dell’esercito iracheno, ma in Iraq c’è molta opposizione, anche se il governo iracheno ha accettato la loro presenza lì. C’è molta opposizione nel parlamento iracheno alla presenza delle forze Usa in Iraq…

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SE DOVESSI COMMETTERE UN GENOCIDIO – Caitlin Johnstone

Se dovessi commettere un genocidio, mi assicurerei di uccidere il maggior numero possibile di donne e bambini per eliminare le future generazioni delle persone che sto cercando di spazzare via. A pensarci bene, credo che in pratica farei quello che Israele sta facendo attualmente a Gaza.

Se volessi commettere un genocidio, prenderei deliberatamente di mira i civili, gli ospedali e le infrastrutture civili per rendere sempre più difficile la sopravvivenza della popolazione indesiderata. In realtà, un buon esempio di ciò sarebbe quello che Israele sta facendo attualmente a Gaza.

Se dovessi commettere un genocidio, mi assicurerei di prendere di mira i centri culturali per distruggere la storia e la cultura della popolazione che desidero eliminare, eliminando i loro musei e gli antichi edifici religiosi. E sapete una cosa? Suppongo che farei più o meno quello che Israele sta facendo attualmente a Gaza.

Un’altra cosa che farei se volessi commettere un genocidio è assicurarmi di uccidere tutti i membri migliori e più brillanti della popolazione che sto cercando di sterminare – i loro medici, avvocati, accademici, giornalisti e leader di pensiero – per impedire qualsiasi ricostruzione della civiltà che sto cercando di eliminare. In altre parole, farei quello che Israele sta facendo attualmente a Gaza.

Se volessi commettere un genocidio, ovviamente dovrei assicurarmi che tutti i miei principali sottoposti siano d’accordo con l’operazione, quindi probabilmente li vedreste pronunciare in continuazione una retorica genocida a sostegno di questi piani. Un po’ come il modo in cui i funzionari israeliani hanno parlato negli ultimi due mesi quando hanno discusso delle loro operazioni a Gaza.

Se dovessi commettere un genocidio, vorrei anche avere un piano per cacciare gli indesiderabili che non possono essere eliminati con un omicidio di massa dalla terra da cui voglio che siano rimossi. Vedreste le persone del mio governo discutere spesso di piani di pulizia etnica, proprio come state vedendo discutere più e più volte tra i funzionari e i leader di pensiero israeliani.

Se volessi commettere un genocidio, continuerei ad attaccare la popolazione indesiderata con estrema aggressività, spingendola sempre più verso un confine straniero, costringendo infine le altre nazioni ad accoglierla o a continuare a lasciarla massacrare mentre faccio piovere esplosivi militari sul loro spazio vitale in continua diminuzione.

In ogni caso, mi sbarazzerei della popolazione di cui stavo cercando di liberarmi così da poter ripopolare la terra che ho sequestrato con un tipo di persone più desiderabili. In altre parole, farei esattamente quello che Israele sta chiaramente facendo, sotto gli occhi di tutto il mondo.

Traduzione di Costantino Ceoldo per ComeDonChisciotte.org

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LA GUERRA A GAZA NON È PER HAMAS, È UN PROBLEMA DEMOGRAFICO – Mike Whitney

Ci è stato ripetuto più volte che l’obiettivo dell’operazione di Israele a Gaza è “sconfiggere Hamas”. Ma è vero? Noi non crediamo che lo sia. Non crediamo che una persona ragionevole tenterebbe di sradicare un’organizzazione militante distruggendo vaste aree del Paese e uccidendo decine di migliaia di persone innocenti. Non è così che si raccoglie il sostegno per la propria causa né questa è una strategia efficace per sconfiggere il nemico. Al contrario, è una politica che sicuramente farà inorridire alleati e avversari, minando notevolmente le possibilità di successo dell’operazione. Ecco perché non crediamo che l’attacco di Israele a Gaza abbia a che fare con Hamas. Pensiamo che sia una cortina fumogena usata per distogliere l’attenzione dai veri obiettivi della campagna.

E quali potrebbero essere questi “veri obiettivi”?

I veri obiettivi riguardano una questione che non viene mai discussa dai media, ma che è il fattore principale che guida gli eventi. I dati demografici.

Come tutti sappiamo, il piano a lungo termine di Israele è quello di incorporare Gaza e la Cisgiordania nella Grande Israele. Gli israeliani vorrebbero controllare tutto il territorio dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Il problema, tuttavia, è che, se annetteranno i territori occupati senza disfarsi della popolazione, allora la popolazione palestinese sarà pari o superiore a quella ebraica, il che porterebbe alla scomparsa dello Stato Ebraico. Questo, in poche parole, è il problema di base…

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RICOSTRUIRE GUSH KATIF: IL PROGETTO PER IL RITORNO DEI COLONI EBREI A GAZA – William Van Wagenen
Dopo quasi tre settimane dalla sanguinosa invasione di terra di Gaza da parte di Israele, un soldato israeliano aveva girato un video dall’interno dell’enclave bombardata e assediata in cui esclamava: “Porteremo a termine la missione che ci è stata assegnata. Conquistare, espellere e insediare. Hai sentito, Bibi?“.

Sono passati due mesi dall’inizio dei bombardamenti di Tel Aviv su Gaza e gli obiettivi finali non sono ancora chiari. La CNN ha rivelato che il “piano originale” di Israele per la guerra era di “radere al suolo Gaza“. Il ministro israeliano Ron Dermer aveva proposto un piano per “sfoltire” la popolazione di Gaza, costringendo i civili a fuggire in Egitto via terra o in altre parti dell’Africa e dell’Europa via mare, perché il “mare è aperto per loro“.

L’unica cosa certa è che questa è una campagna di bombardamenti israeliani su Gaza mai vista prima. Nelle campagne passate, gli israeliani avevano cercato mediatori internazionali “fin dal primo giorno” per arrivare ad un cessate il fuoco nel giro di giorni o settimane.

Questa volta invece, gli israeliani e i loro sostenitori americani non vogliono assolutamente un cessate il fuoco. Sebbene in questo conflitto i loro obiettivi finali per Gaza siano cambiati, è altrettanto importante notare che i piani futuri di Tel Aviv potrebbero essere completamente diversi da quelli di Washington. Semplicemente, Israele non ha mai avuto un governo così di destra come quello attuale messo insieme dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu; un gabinetto pieno di fondamentalisti religiosi e di fervore messianico.

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Gli imperi terminali e le guerre inutili – Pino Arlacchi

AVVENTURE CHE DIVENTANO DISASTRI – Interessi militari e industriali accecano la capacità di giudizio: le amministrazioni Usa hanno scelto l’autolesionismo. E i morti sono boomerang geopolitici: ecco la mappa

C’è un filo che collega le guerre imperiali contemporanee, dal Vietnam a Gaza. Il filo dell’autolesionismo di chi le scatena, cioè della stupidità dei loro perpetratori, intrecciata con l’oscenità dei loro effetti sulla popolazione civile e sugli stessi combattenti.

Il detto di Clausewitz che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” è molto popolare. Ma è anche molto logoro, perché a ben vedere è una mezza verità, che vale solo per le guerre di conquista, scatenate da un potere imperiale in espansione, la cui politica estera consiste nella predazione di risorse altrui e nell’intimidazione dei concorrenti attuali o potenziali.

La guerra si tramuta poi in una gravosa necessità nel momento in cui la politica del vincitore è diventata quella di salvaguardare il bottino dalle mire dei competitori e dalla reazione armata degli assoggettati.

Ma è nel momento del declino di una potenza egemone che la guerra divorzia dalla politica, ed è costretta a mostrare la sua natura più profonda, cioè la sua oscenità e stupidità assolute. Oscenità per lo scempio di vite innocenti e di soldati causato da operazioni militari sempre più sbagliate e sconsiderate. E stupidità nel senso di un danno che lo stupido – secondo i manuali sul tema – infligge a se stesso oltre che agli altri.

Gli imperi declinanti tendono a fare delle guerre inutili, prive di un lucido calcolo dei costi e dei benefici. Avventure che si risolvono in disastri che accelerano anziché rallentare la fase terminale della loro supremazia. Dal Vietnam a Gaza, si sono combattuti conflitti che il più forte poteva evitare se la nebbia della stupidità, emessa copiosa dagli interessi industriali e militari in gioco, non ne avesse compromesso la capacità di giudizio.

C’è qualcuno in grado di dimostrare quale vantaggio abbiano tratto gli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam? Il cosiddetto “effetto domino” – cioè il contagio che una vittoria dei vietcong comunisti avrebbe inferto all’Asia e che avrebbe imposto l’intervento militare in quel Paese in nome del mondo libero – non si è visto. Non c’era prima, e non si è manifestato dopo la sconfitta e il ritiro delle truppe americane al prezzo di 58 mila morti da un lato e tre milioni dall’altro.

Ancora più inconsistente è stata, poi, la motivazione dell’invasione dell’Afghanistan nell’ottobre 2001, un mese dopo l’11 settembre. Quel Paese è stato attaccato perché non si poteva attaccare l’Arabia Saudita, patria di 15 dei 19 dirottatori contro le due Torri. I talebani non avevano avuto alcun ruolo nell’attentato, la cui matrice saudita era subito emersa, ma doveva essere nascosta perché di possibile grande imbarazzo per il presidente in carica e per la famiglia Bush in rapporti di affari decennali con l’establishment saudita, famiglia Bin Laden inclusa. L’occupazione si è conclusa 20 anni dopo con una sconfitta militare, politica ed economica senza attenuanti. E con il ritorno dei talebani.

Due anni dopo è stato il turno dell’Iraq, invaso e occupato perché il suo governo avrebbe detenuto armi di distruzione di massa. Mai trovate dopo l’invasione perché mai esistite. Il danno politico autoinflitto qui è consistito in un cambio di regime risoltosi in un governo iracheno favorevole all’Iran, cioè al maggiore avversario degli Stati Uniti nella regione. Il danno economico è stato quantificato in quasi 2.000 miliardi di dollari finiti nelle fauci dell’industria militare e in un contributo al super-indebitamento di Washington. Con la ciliegina sulla torta – come ammesso da Obama nel 2015 – della nascita dell’Isis come effetto della guerra.

L’assalto alla Siria di Assad nel 2011 è stata una guerra largamente per procura, dove gli Usa di Obama hanno armato e finanziato formazioni terroristiche sunnite riconducibili ad al Qaeda e a quelle degli autori dell’11 settembre. Ne è risultata una guerra civile da 500 mila morti, terminata con l’intervento della Russia e dell’Iran a fianco di Assad, che è adesso al potere più forte di prima.

Ucraina. È vero che è stata la Russia ad attaccare l’Ucraina in risposta a 30 anni di espansione minacciosa della Nato fino ai suoi confini. Ma lo scontro poteva durare solo poche settimane perché Mosca e Kiev avevano raggiunto un accordo secondo cui i russi avrebbero ritirato le proprie truppe in cambio della neutralità dell’Ucraina. Com’è noto, l’accordo fu sabotato dall’intervento dell’Europa e degli Stati Uniti, che hanno trasformato il conflitto tra Russia e Ucraina in una guerra tra Nato e Russia. La quale sta emergendo vittoriosa sia sul piano militare sia su quello politico, godendo della neutralità o dell’appoggio della “maggioranza globale”, cioè del 90% degli Stati del pianeta.

Valeva la pena di aggiungere 300 mila morti e la devastazione dell’Ucraina alla lista delle sconfitte imperiali?

Anche il conflitto tra Israele e palestinesi di Gaza è guidato dalla sindrome autolesionista di un impero che tramonta. Lo Stato di Israele e le sue forze armate sono tenuti in piedi dal sostegno incondizionato del governo Usa, che è il decisore di ultima istanza di ciò che fa Tel Aviv. Siccome tutto lascia pensare che Hamas non sarà distrutto né militarmente né politicamente perché ha già raggiunto i suoi obiettivi – la propria sopravvivenza dentro e fuori Gaza, il ritorno della questione palestinese al centro dell’agenda politica mondiale, la fine del mito dell’invincibilità dell’esercito di Israele e dell’infallibilità della sua intelligence – è il caso di continuare a seguire un altro canone della stupidità? Quello definito da Einstein come la pretesa di ottenere risultati diversi ripetendo sempre la stessa azione. Dal Vietnam a Gaza.

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Gaza e non solo: “L’Italia della Meloni ultima pedina del carro” – Elena Basile

di Alessandro Bianchi
Le responsabilità dell’occidente nella mattanza in corso a Gaza, il ruolo della diplomazia internazionale e la posizione dell’Italia nelle attuali crisi.

Questi i temi principali della nostra intervista per “Egemonia” a Elena Basile, ex ambasciatrice in Svezia, scrittrice e divulgatrice che, prima con lo pseudonimo Ipazia sul Fatto Quotidiano e poi in prima persona in TV, ha messo in campo coraggio e competenza per squarciare il velo di immensa ipocrisia e censura sui temi di politica internazionale.

Sull’astensione dell’Italia all’Assemblea delle Nazioni Unite, i toni dell’Ambasciatrice sono durissimi.  “Questo Governo di estrema destra-centro si è reso complice dei crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati a Gaza dal terrorismo di Stato di Israele. Distaccandosi da Paesi mediterranei come Francia e Spagna che hanno sottoscritto la risoluzione almeno per una tregua umanitaria, ha perso ogni credibilità nei confronti dei Paesi arabi ed è surrealistico pensi di poter divenire protagonista di un fantomatico piano Mattei per la cooperazione con la sponda sud del Mediterraneo”.

Non è il tempo dei toni pacati e l’Ambasciatrice è molto chiara nelle sue affermazioni a l’AntiDiplomatico. “Gli Stati uniti e i suoi vassalli europei sono complici della guerra genocida a Gaza”. Sull’Ucraina prima e sul genocidio israeliano a Gaza poi, del resto, il progetto di integrazione europea ha scelto la via della lenta eutanasia dei suoi popoli per seguire le politiche bellicistiche e di potenza degli Stati Uniti e di Israele. Sul cosa dovrebbe fare ora l’Unione Europea per redimere parzialmente la sua coscienza, Basile ci dichiara: “L’Europa dovrebbe chiedere il cessate il fuoco immediato, procedere al riconoscimento simbolico dello Stato di Palestina e premere per una conferenza di pace inclusiva di tutti gli attori internazionali, compresi Russia, Cina , Iran, e Hamas che dovrebbe rinunciare in questo modo alla lotta armata”.

Ma il recente Consiglio europeo del 16 dicembre ha avuto come unici focus il Patto di Stabilità e l’apertura dei negoziati con Ucraina e Moldavia, dimostrando, forse definitivamente, come l’Unione Europea oggi non solo sia un elemento di pace e diplomazia, ma di ulteriore pericolosa destabilizzazione in questa fase drammatica delle relazioni internazionali. “L’apertura di questi negoziati sono la conferma che l’Europa federale, l’Europa politica, progetto dei Paesi fondatori sarà definitivamente  messa da parte.” E’, prosegue Basile, il trionfo dell’Europa come area di libero scambio e la fine di ogni possibile progetto di comunità con istituzioni federali. “E’ il trionfo dell’Europa degli anglosasssoni.”

E il genocidio a Gaza prosegue, nella complice indifferenza e diretta responsabilità dell’Unione Europea che arma le mani piene di sangue dello Stato di Israele. Genocidio, un termine che va ponderato e impiegato con cautela, certamente. Tuttavia è quello che viene utilizzato sempre più di frequente da funzionari delle Nazioni Unite e le immagini, raccapriccianti, che arrivano dalla striscia lasciano davvero pochi dubbi. Dinanzi a tutto questo, le opinioni pubbliche europee, italiana in particolare, appaiono come addormentate e la pressione ai governi responsabili diretti del massacro resta sterile, quasi impercettibile. “La politica statunitense ha leve ricattatorie nei confronti delle classi dirigenti europee che non possono non essere ascoltate. Ricordatevi di Moro e di Craxi. Non hanno fatto una bella fine”, sottolinea con magistrale sintesi e efficacia Basile.

Del resto, gli obiettivi di pulizia etnica di Israele sono alla luce del sole. “Lo hanno detto esplicitamente i dirigenti di questo Governo di estrema destra”, sottolinea Basile. “Vogliono provocare una seconda NAKBA e rendere Gaza un luogo non più abitabile”. E, attraverso il colonialismo di insediamento, Israele ha spazzato via di fatto la quasi totalità dei territori palestinesi, umiliando le Nazioni Unite, il diritto internazionale e rendendo la locuzione dei “due popoli due stati” come una vuota retorica di chi vuole ripulirsi la coscienza. Con abile accuratezza l’Ambasciatrice ci delinea quale sia il vero problema che impedisce una soluzione negoziale e diplomatica della questione palestinese. “Uno stato laico e democratico oppure la soluzione dei due Stati sarebbero possibili se ci fosse una volontà politica israeliana e statunitense di realizzarli. Non mi sembra sia il caso. Da anni sarebbe stato possibile lavorare a questa ipotesi. Non è stato mosso un dito dopo il 2000. Dal 2007 l’impunità per l’atroce blocco di Gaza e gli insediamenti illegali nella Cisgiordania è stata assicurata. L’occidente democratico di fronte all’apartheid praticato da Israele e alle ricorrenti punizioni collettive a Gaza ha pronunciato buone parole e realizzato qualche spettacolo strappa lacrime, rendendosi nei fatti complice della barbarie”.

L’obiettivo minimo oggi è il cessate il fuoco che possa impedire il perpetrarsi di un massacro che si avvicina alla cifra raccapricciante di 20 mila vittime (la maggior parte donne e bambini). Molto dipenderà da quanto gli Stati Uniti permetteranno all’alleato israeliano nel perpetrare questi crimini e con l’inizio della campagna elettorale che incombe sono sempre più le voci insofferenti che si levano dagli Usa. Ma per l’Ambasciatrice Basile non conviene farsi troppe illusioni. “Non credo che gli Usa rivedranno la loro posizione. La lobby di Israele che come spiega il noto studioso statunitense Mersheimer non è una lobby ebraica e non parla a nome della comunità ebraica non lo permetterebbe…” Meglio aggrapparsi allora alle posizioni di Cina, Sud Africa (che ha formalmente chiesto alla CPI un mandato di arresto per i responsabili israeliani) e in generale del nuovo mondo multipolare che su Gaza hanno mostrato il loro definitivo allontanamento dal mondo perpetrato da Usa e UE. “L’Occidente è isolato. Il sud Globale ci considera poveri demograficamente, in declino economico, ipocriti sui diritti umani e pieni di doppi standards, con una arroganza culturale e un potere che non poggia più sulle basi economiche del passato, tenuto in vita solo militarmente. L’Italia è l’ultima pedina del carro”, la conclusione di Basile.

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Gaza. La guerra non è contro Hamas, è contro i palestinesi – Amedeo Cottino

Per decenni ha regnato in Italia, con pochissime eccezioni, il silenzio sull’oppressione del popolo palestinese da parte di Israele, neppure rotto dalla denuncia, all’inizio di questo secolo, dello storico israeliano Ilan Pappé nel suo La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008). Ora i chierici, come li aveva chiamati Julien Benda (La traison des clers, Grasset, 1958), coloro cioè a cui è affidato il compito di difendere la giustizia e la ragione – gli intellettuali in buona sostanza – si sono infine svegliati. Mi riferisco al recente documento nel quale qualche migliaio di accademici italiani ha avanzato l’urgente richiesta di cessare il fuoco e di rispetto del diritto umanitario internazionale.

Ma questo uscire dalla ben nota “torre d’avorio” è davvero il segnale di un risveglio, è la manifestazione di un più generale impegno a fare chiarezza fino in fondo sulla questione palestinese? Non è una domanda né retorica né accademica: migliaia di palestinesi vengono sterminati in questi giorni e noi non possiamo cavarcela semplicemente firmando un appello o tanto meno commuovendoci a fronte dei morti. Si tratta, se questo impegno vuole diventare reale, di prendere atto di alcuni fatti e di trarne le dovute conseguenze.

PrimoIl sionismo – o, meglio, l’impresa sionista – si è rapidamente mosso fin dai suoi albori in vista di un preciso obiettivo finale: Eretz Israel, la nazione ebraica con l’esclusione dei palestinesi. Lo scriveva nel 1896 Theodore Hertlz, il leader sionista per eccellenza, l’autore di un testo non a caso intitolato Lo Stato Giudaico. Un titolo dal significato inequivocabile: Stato giudaico perché, a suo avviso, l’assimilazione e l’emancipazione degli ebrei non potevano funzionare in quanto gli ebrei erano una nazione. Un obiettivo perseguito tenacemente attraverso la progressiva colonizzazione del territorio della Palestina all’insegna dell’idea icasticamente espressa da Ben Gurion, una delle figure chiave di questo processo di colonizzazione e futuro primo presidente dello Stato di Israele, che la Palestina fosse «una terra senza popolo per un popolo senza terra». Scrive Pappé:

«La Palestina non soltanto era disabitata: era la terra promessa, Eretz Israel, la denominazione della Palestina nella religione ebraica, una Palestina intesa però esclusivamente come il luogo di pellegrinaggio religioso. Di questa concezione il movimento sionista si sbarazza assai presto mettendo a tacere l’opposizione ebraica fedele a un’interpretazione spirituale delle profezie bibliche […]: la tradizione e la religione ebraica istruiscono chiaramente gli ebrei ad aspettare la venuta del Messia promesso “alla fine dei tempi”, prima di poter tornare a Eretz Israel da popolo sovrano in una teocrazia ebraica, ovvero da obbedienti servi di Dio (ragione dell’antisionismo degli ebrei ultraortodossi). […] In altre parole, per portare a termine il loro progetto gli ideologi sionisti rivendicavano il territorio biblico o lo ricreavano, o meglio lo reinventavano come la culla del loro nuovo movimento nazionalista. Secondo loro la Palestina era occupata da “stranieri’ e si doveva riprenderne il possesso. Stranieri significava tutti i non ebrei che avevano vissuto in Palestina dal periodo romano».

Qui abbiamo una narrazione – frutto di una scelta politica precisa – che ha probabilmente beneficiato di un’altra narrazione, vale a dire quella radicata e diffusa in Europa per secoli secondo cui le terre extra europee erano appunto terra nullius, la terra di nessuno. E allora la domanda da rivolgere a noi chierici è: Siamo disposti ad accettare senza discutere quelle che Edward Said chiamò «le assurde pretese fondate sulla Bibbia»? La risposta non può che esser negativa. Ci pioverà addosso quasi sicuramente l’accusa di antisemitismo; ma che importa? Non mancano gli argomenti per ribatterla.

Secondo. Ora si dà il caso che, malgrado la narrazione della terra promessa come occupata da stranieri, di fatto gli autoctoni c’erano e ci sono. Erano la stragrande maggioranza della popolazione. In Palestina, agli albori del Novecento, gli ebrei erano poco più di 50.000 contro quasi un milione di palestinesi e di arabi. Dunque il processo di colonizzazione se intendeva, per così dire, essere coerente a questa visione, cioè all’obiettivo di una terra riservata agli ebrei, doveva assumere una forma specifica, tale cioè da essere funzionale allo scopo. E questa forma non poteva essere altro che il colonialismo di insediamento. Un modello coloniale che, nella sua forma idealtipica, implica, per realizzarsi, l’assenza o la scomparsa della popolazione autoctona. Come bene ci hanno spiegato E. Bartolomei, D. Carminati e Alfredo Tradardi (Esclusi, 2017), il colonialismo di insediamento, a differenza del colonialismo classico dove la potenza occupante assume il controllo dei mercati, delle risorse e sfrutta la popolazione colonizzata, si propone di sostituirsi agli autoctoni per costituire una società nuova, fondata sulla loro esclusione. In sintesi, alla logica dello sfruttamento propria del colonialismo classico, si sostituisce la logica dell’eliminazione. Un modello peraltro lungi dal costituire una novità; c’è, infatti, un mostruoso precedente storico, vale a dire l’Olocausto Americano. Lo ha studiato lo storico statunitense David Stannard (The American Holocaust, 1992) secondo la cui stima noi europei abbiamo sterminato nel corso di quattro secoli di massacri nelle due Americhe tra i 75 e i 100 milioni di nativi. Ecco come funziona il colonialismo d’insediamento; la pulizia etnica della Palestina descritta da Pappé nel sopra citato libro ne è l’illustrazione.

Terzo. La narrazione della terra nullius e il processo del colonialismo di insediamento si avvalgono a loro volta della narrazione di un Altro che non c’è o, se c’è, è ontologicamente diverso da noi. Il nativo, lo straniero, infatti, non appartengono alla nostra specie. La logica è elementare: se l’Altro non fa parte della mia specie, le mie remore morali vengono meno e io mi sento legittimato a compiere atti che altrimenti non commetterei mai se rivolti a un mio simile. È il disimpegno morale. Detto in modo poco elegante: stacchiamo la spina. In Palestina, questo sguardo sull’Altro nelle sue varianti più o meno deumanizzanti non è il frutto casuale, estemporaneo, della violenza in corso, conseguenza cioè dell’abbruttimento che la guerra comporta; non lo è e non può esserlo proprio poiché questo rifiuto di riconoscere all’Altro lo statuto di umano è elemento integrante del modello coloniale di insediamento. E di ciò troviamo conferma un po’ ovunque, sia nel presente sia nel passato. Ne abbiamo una testimonianza recentissima nelle dichiarazioni di alcuni politici israeliani che, a commento o giustificazione del massacro in corso della popolazione della striscia di Gaza, hanno parlato dei palestinesi come di un popolo di animali. Con toni non apertamente razzisti ma significativi comunque dell’assoluta Alterità dei palestinesi, le parole dell’ex presidente israeliano Moshe Katav che una ventina di anni fa dichiarava: «Mi sembra che a poche centinaia di metri da noi viva una popolazione che non soltanto non appartiene al nostro continente, non soltanto non appartiene al pianeta, ma appartiene in effetti a un’altra galassia» (Haaretz, 2001). Altrettanto rivelatrici le testimonianze, molte delle quali risalenti all’inizio del secolo, dei soldati israeliani in sevizio nei Territori occupati (La nostra cruda logica, 2016). Senza dimenticare le voci dei refusnik, gli obiettori di coscienza israeliani, come la voce di Stephen Langur che osserva: «La legge morale si applica alle persone, perciò si può evitare di sentirsi in colpa persuadendosi che gli oppressi siano subumani» e aggiunge: «La dottrina della subumanità degli arabi è di gran moda presso di noi, “cavallette”, “scarafaggi”, “un millesimo di ebreo”, “animali”, “il popolo più sudicio della terra”» (Meglio carcerati che carcerieri, 2003).

Quarto. I palestinesi. Come l’operaio che, nel racconto distopico di Samuel Butler Erewhon, viene condannato perché colpevole «del grave delitto di tubercolosi polmonare», parimenti, la “disgrazia” dei palestinesi è di vivere su una terra che è la loro e di non volerla abbandonare. In ultima istanza, la loro “colpa” è di esser palestinesi; di essere, al pari dell’operaio tubercolotico, ciò che sono.

Quinto. Noi, i chierici, siamo stati finora, in stragrande maggioranza, degli spettatori. Abbiamo murato le nostre finestre per non sentire le grida di dolore che provenivano da quella terra. Ma lo spettatore, il terzo, non esistono. Come scriveva Albert Camus, «noi non possiamo fare un gesto in questo mondo senza correre il rischio di far morire» (La peste, 2002).

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Sionismo e antistoria – Eusebio Filopatro

La tragedia in Palestina non è solo una tragedia locale: è una tragedia mondiale, poiché è un’ingiustizia che minaccia la pace nel mondo

Arnold Toynbee

È impossibile proseguire l’ingiustizia storica patita dai palestinesi

Xi Jinping


La lancia dell’Imperatore

Lo Stato di Israele riappare nella storia moderna il 22 maggio 1799 con la cosiddetta “dichiarazione di Acre”:

“[Napoleone] Bonaparte ha fatto pubblicare un proclama, nel quale invita gli ebrei dell’Asia e dell’Africa a radunarsi sotto i suoi vessilli per ristabilire l’antica Gerusalemme: ne ha già armato un gran numero, e i loro battaglioni minacciano Aleppo”[1]

Napoleone non era certo un umanitario filantropo[2]. Era invece un eccelso dominatore e stratega. Il suo appello rispondeva a una serie di ragioni:

  • Spezzare la continuità geografica degli imperi arabo-islamici che per secoli avevano costituito grandi potenze alle soglie dell’Europa: la strettoia del Sinai è il punto più propizio dove installare un avamposto per controllarli, come un guinzaglio che preme sul collo di un mastino;
  • Controllare l’istmo di Suez (il canale è stato realizzato molti decenni dopo), un nodo strategico impareggiabile tra due-tre continenti e cardine del commercio mondiale;
  • Conferire un’ulteriore motivazione ideologica agli ebrei da lui impiegati come soldati, e generalmente attrarre le simpatie di quanti condividevano l’obiettivo della rifondazione di uno stato ebraico;
  • Contenere il problema dell’integrazione ebraica, infiammato tanto dagli antisemiti quanto da coloro tra gli ebrei che detestavano i goyim (in Yiddish, goyische kopf, letteralmente “testa di gentile/non ebreo”, significa sostanzialmente: “idiota”[3]).

Nessuno di questi obiettivi è esclusivamente ristretto alla Francia o ad altri imperi coloniali: difatti dopo Napoleone sono stati fatti propri da quanti, come l’Impero Britannico e infine gli Stati Uniti, più si sono dedicati al progetto di un’egemonia globale.

Questi ovvi aspetti politici relativi allo Stato d’Israele sono stati occultati sotto lo schermo moralistico e retorico che accomuna la critica di Israele all’antisemitismo e al negazionismo. I propagandisti che danno voce a queste distorsioni non si curano delle critiche che originano spesso da prestigiosi intellettuali ebrei e israeliani. Accusare chi critica Netanyahu e Israele di essere antisemita, negazionista, razzista, è come accusare chi critica Giorgia Meloni e lo Stato italiano – magari durante il ventennio fascista – di nutrire pregiudizi contro gli italiani in quanto tali. Illogico, ma efficace, come tipico della propaganda.

Il racconto di Israele e le “poche parole” sui palestinesi

Spiace che a questa antistoria si sia prestato un giornalista e intellettuale per molti versi apprezzabile, che ha rappresentato un raro esempio di libertà d’espressione e di riflessione riguardo al conflitto in Ucraina, e si è confermato al di sopra della media italiana anche nel criticare quanto si sta consumando a Gaza. Marco Travaglio non si spinge ad affermare che Napoleone ha intentato la creazione di Israele per proteggere i superstiti dell’Olocausto, ma a tratti ci va vicino. Il suo pamphlet, di fatto filo-israeliano, si rivolge idealmente “A chi non si arruola, ma si informa per ragionare e capire”.

In realtà, chi si informa troverà nel testo parecchie, troppe lacune e dicerie, assieme a veri e propri errori, alcuni dei quali facilmente evitabili, mentre a chi ragiona non sfuggiranno dei salti logici, delle contraddizioni, delle incongruenze, tali che il lettore di Travaglio alla fine non avrà realmente capito né il perché né il come né le implicazioni del conflitto in Palestina. Francamente, per comprendere la tragedia che si consuma a Gaza, un quarto d’ora degli eccellenti documentari di Francesca Mannocchi vale un giorno intero sul libro di Travaglio. E questo certo non per difetti stilistici dell’autore, che comunica molto efficacemente. Se però Travaglio avesse scritto il libro di cui c’è bisogno, magari avrebbe ricevuto meno ospitate televisive e più interessamenti di altro genere, ma avrebbe sicuramente onorato la sua professione di giornalista e meglio servito l’opinione pubblica italiana.

Il libro si intitola Israele e i palestinesi in poche parole. Nel testo c’è invece un solo soggetto: Israele, e la sua epopea presentata come gloriosa, almeno finché non è macchiata da quel figliol prodigo di Netanyahu. Chiuso il libro, rimangono in mente parecchi dettagli lirici e la profondità psicologica accordata agli israeliani. “Ancora una volta sono io solo triste in mezzo a tanta gente allegra”, legge Travaglio direttamente dal diario di Ben Gurion. Tutt’attorno gli israeliani “Piangono, ridono, si abbracciano con la folla in delirio che intona l’Hatikvah (“speranza”): l’inno ebraico, più simile a una preghiera che a una marcia.” Ci sono tante altre citazioni di un tenore simile. Golda Meir appare più preoccupata per i figli dei palestinesi che per i propri (“Noi vi potremo un giorno perdonare per avere ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo mai per averci costretto a uccidere i vostri. Una possibilità di pace esisterà quando dimostrerete di amare i vostri figli più di quanto odiate noi”). Moshe Dayan è “noto per il rispetto dei diritti umani: “Il massimo di tortura che un prigioniero deve subire – raccomanda ai suoi uomini – è mangiare il rancio dell’esercito israeliano”.” Travaglio ha ripetuto quest’ultima citazione anche in televisione.

Retorica e realtà

Nemmeno tra le righe si legge il dubbio che queste frasi non provino nulla, e possano piuttosto fuorviare come presentazione interessata di personaggi controversi, tutti oratori navigati. La citazione di Golda Meir può essere soppesata con la decisione di scatenare l’operazione “Vendetta di Dio”, nella quale i servizi israeliani ammazzarono e ferirono un bel po’ d’innocenti pur di vendicare le vittime del massacro di Monaco. Oppure può essere bilanciata da un’altra, più famosa citazione: “Non esiste qualcosa come un popolo palestinese. Non è che siamo venuti, li abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Essi non esistevano”. Del resto, Margaret Thatcher inaugurò il suo premierato con la preghiera di San Francesco (“oh Signore fa di me uno strumento della tua pace…”) e nel 2003, alla domanda su quale fosse il suo filosofo preferito, George W. Bush ebbe la spudoratezza di rispondere “Gesù Cristo, perché ha cambiato il mio cuore”. Ora, a nessuno verrebbe in mente di considerare queste pirotecnie retoriche come rappresentative delle rispettive personalità, tantomeno delle politiche corrispondenti. Invece Dayan non è, nel libro di Travaglio, “il controverso eroe di Israele”[4] sospettato addirittura di aver dato l’ordine di affondare la nave-spia americana USS Liberty (34 morti e 170 feriti, per i quali Israele accettò di pagare cospicui risarcimenti), e nemmeno un famigerato trafugatore di opere d’arte, ma addirittura “un archeologo” più che un soldato. Di opposto parere il (vero) archeologo israeliano Raz Kletter, che ha dedicato ai “tre decenni di ruberie e di traffici” di Dayan un’intera monografia,[5] il cui titolo è un gioco di parole che letteralmente ribalta il giudizio di Travaglio – Un archeologo molto generale. Lungi dall’essere un caso isolato, il libro sovrabbonda di questi eufemismi: verrebbe da dire, il libro consiste in un continuo eufemismo. Questa straordinaria cosmetica verbale è riservata, ben inteso, agli israeliani. Nel poco spazio concesso ai palestinesi, c’è comunque l’occasione di riportare il sospetto che Arafat sia morto di AIDS.

Dai personaggi israeliani cui è riservato il palcoscenico è poi depurata ogni complessità, anche quando “poche parole” aiuterebbero il lettore italiano a meglio capire la complessità del problema. Non c’è ad esempio traccia dei ripensamenti tardivi di Dayan, che ne precedettero di poco la morte. Scrive invece il ricercatore israeliano Shany Mor:

“… è comunque necessario notare la crescente consapevolezza di Dayan, negli ultimi anni di vita, che l’occupazione semipermanente costruita a sua immagine e somiglianza non era sostenibile e doveva essere sostituita con qualcosa di più in linea con le norme internazionali e con gli interessi israeliani a lungo termine. La sua morte precoce, così come quella del suo rivale di lunga data Yigal Allon, proprio mentre anch’egli stava vivendo una sorta di risveglio tardivo sulla stessa questione, ha tolto una voce vitale proprio quando era più necessaria. Egli è stato anche il pioniere di un altro tipo di personaggio israeliano tragico: la figura dell’establishment che improvvisamente si rende conto delle implicazioni catastrofiche del dominio israeliano in Cisgiordania e poi improvvisamente muore, viene assassinato, ha un ictus, viene condannato per corruzione o costretto alla pensione. Anche questo è un personaggio israeliano per eccellenza, che Dayan stesso ha inventato e personificato.”[6]

Travaglio ricorre persino a toni natalizi nel narrare la prima campagna di acquisto dei terreni dei palestinesi:

“La svolta arriva a Natale del 1901. Il V Congresso sionista di Basilea decide di distribuire a tutti gli ebrei del mondo un salvadanaio di latta bianco e azzurro. L’anno seguente, con i risparmi raccolti, nasce il Fondo Nazionale Ebraico per acquistare terreni in Palestina e ospitarvi i primi insediamenti.”

Quasi scappa una lacrima, immaginando un bimbo in qualche freddo Shtetl polacco che si priva delle patate per devolvere un obolo al sogno dell’aliyah (la “ascesa” o “ritorno” alla Terra Promessa). Chissà quanta latta biancazzurra sarà servita per il salvadanaio del barone Edmond De Rothschild, oggi sepolto a Ramat Hanadiv in una cripta degna di un monarca, e noto come “il barone” o “il nobile donatore” per l’irresistibile impulso che il suo potente impero finanziario diede agli insediamenti[7]

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MENO DI CANI – Costantino Ceoldo

Basta una ricerca distratta su Internet per ottenere risultati infiniti sull’incredibile amore che molti esseri umani provano per gli animali. Che siano cani, gatti, maiali o ippopotami, istrici o scimmie appese ad un albero, c’è sempre qualcuno che li ama di un amore impossibile e ritiene di doverli difendere a prescindere dalla crudeltà vera o presunta dell’essere umano. Perfino se si tratta di serpenti o granchi marini.

Ma da quando è iniziata la terribile campagna militare israeliana contro i palestinesi, gli stessi che sono sempre svelti a lamentarsi per le sofferenze di un cane bastonato o di un verme che striscia sono rimasti in silenzio.

Eppure la carneficina è sotto i nostri e i loro occhi. L’uragano di bombe che l’aviazione e l’esercito israeliano hanno sganciato e sganciano su Gaza non scuote il cuore di animalisti e ambientalisti. Né la grande stampa occidentale fa eco al male che dilaga impunito sui palestinesi.

È evidente che se i palestinesi fossero nati cani, gatti o maiali, comunque animali, avrebbero avuto maggior fortuna nell’essere difesi dall’Occidente che conta (o che crede di contare ancora). Ma nessuno li difende, nati come sono solo in una miserabile forma umana e occupando un posto che la stragrande maggioranza degli ebrei contemporanei ritiene così loro da poter realizzare uno stermino di massa…

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L’economia di guerra – Pasquale Pugliese

All’interno del sistema di violenza simbolica nel quale – per dirla con Pierre Bourdieu – “i dominati applicano categorie costruite dal punto di vista dei dominanti ai rapporti di dominio, facendoli apparire come naturali” (1998) e perfino desiderabili, l’anziano e acciaccato papa Francesco svolge tra i capi di Stato, rispetto al dominio simbolico del bellicismo – l’ideologia di guerra che vorrebbe ammantare la guerra di naturalità – il ruolo del bambino della fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore che candidamente, guardandolo, esclama: “il re è nudo!”. Smascherando ciò che i rapporti di dominio vogliono far passare come normale per i dominati. È accaduto anche nell’udienza generale di mercoledì 29 novembre, nella quale, ricordando le guerre in Ucraina e in Palestina, il papa ha ribadito, per l’ennesima volta, che “la guerra sempre è una sconfitta, tutti perdono”, correggendosi subito dopo: “Tutti no, c’è un gruppo che guadagna tanto: i fabbricanti di armi, questi guadagnano bene sopra la morte degli altri”. La guerra smascherata nella sua nuda verità.

Dopo che le spese militari globali, e dunque i profitti dei produttori di armi, sono raddoppiate dal 2001 al 2021 – ossia nei vent’anni di guerre Usa seguite all’11 settembre, come registrato dal Sipri di Stoccolma – dal febbraio 2022, ossia dall’invasione russa dell’Ucraina, a cui è seguito il massiccio invio di armi al suo governo da parte dei paesi Nato, le azioni in borsa dei 70 produttori di armi più importanti al mondo, tra i quali l’italiana Leonardo, hanno ripreso a crescere vertiginosamente, guadagnando fino al 325 per cento (Milano finanza, 24 novembre 2023).

In un circuito perverso in cui i profitti dei produttori di armi sono direttamente proporzionali alla quantità di morti causata dai loro prodotti immessi sul mercato: almeno mezzo milione di morti tra i soldati ucraini e russi, il massacro di una generazione di giovani nel cuore dell’Europa; almeno 15mila morti dal 7 ottobre 2023 ad oggi nella striscia di Gaza, di cui oltre seimila bambini, con un ritmo di vittime “che non ha precedenti in questo secolo” (New York Times, 25 novembre 2023). Per tacere delle altre guerre dimenticate dai media.

La gravità dell’escalation bellica globale, e dei suoi effetti anche sui paesi produttori di armi, è stata descritta in un recente rapporto commissionato da Greenpeace in Germania, Italia e Spagna a un team di esperti sul riarmo dell’Europa, che non ha avuto – in coerenza con il sistema di violenza culturale bellicista – la risonanza mediatica che avrebbe meritato. Secondo il rapporto, pubblicato lo scorso 27 novembre, nell’ultimo decennio la spesa per le armi nei Paesi Nato della Ue è cresciuta 14 volte più del loro Pil complessivo. Il rapporto dimostra che tra il 2013 e il 2023 in Europa le spese militari hanno registrato un aumento record (più 46 per cento nei Paesi Nato-Ue) trainato proprio dall’acquisto di nuove armi (più 168 per cento nei Paesi Nato-Ue). Ma anche le importazioni di armi della Ue hanno subito un’impennata, triplicandosi tra il 2018 e il 2022. Un simile aumento della spesa militare e dell’acquisto di armi è in netto contrasto con la stagnazione delle economie europee ed è un grave passo verso la militarizzazione dell’Europa che, anziché portare sicurezza, scrive Greenpeace, “rischia di destabilizzare ulteriormente l’ordine internazionale”.

All’interno di questo trend europeo, nonostante le difficoltà delle finanze pubbliche italiane, la spesa militare è cresciuta con un ritmo senza precedenti anche nel nostro Paese sottraendo risorse pubbliche alla spesa sociale, civile e ambientale. Nel periodo 2013-2023 la spesa militare in Italia è aumentata del 30 per cento e quella per i soli nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi a 5,9 miliardi di euro (più 132 per cento). Mentre, nello stesso periodo, l’investimento per la sanità è aumentato solo dell’11 per cento, la spesa per la protezione ambientale del 6 per cento e la spesa per l’istruzione del 3 per cento. Un’economia di guerra che, mentre produce strumenti di morte, sottrae preziose risorse di vita.

“In Italia – spiega il rapporto di Greenpeace – 1.000 milioni di euro spesi per l’acquisto di armi mettono in moto un aumento della produzione interna di soli 741 milioni di euro. La stessa cifra investita in altri settori ha invece un effetto moltiplicatore quasi doppio, con un aumento della produzione pari a 1.900 milioni di euro nella protezione ambientale, 1.562 milioni di euro nella sanità e 1.254 milioni di euro nell’istruzione. Uno scarto ancora maggiore si registra nell’impatto occupazionale dei 1.000 milioni di spesa, che nel settore della difesa sarebbe limitato a 3.000 nuovi posti di lavoro, mentre nel settore dell’istruzione sarebbe di quasi 14.000, più di 12.000 nella sanità e quasi 10.000 nella protezione ambientale. In pratica, circa 4 volte tanto”.

La guerra e la sua preparazione – mentre potenziano il dominio del complesso militare-industriale internazionale – non solo devastano i luoghi in cui si svolge e le esistenze di chi ne è vittima, non solo trasformano ogni conflitto in conflitto armato generando crescente insicurezza globale, ma impoveriscono e distruggono le prospettive di futuro anche nei paesi che, apparentemente, ne dovrebbero trarre profitto. La nuda verità, sottratta alla violenza simbolica che fonda la mistificazione bellicista.

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Il genocidio danza sulla tomba dei diritti umani – Sarah Babiker

Refaat Alareer ha scritto che se fosse morto avrebbe voluto che si raccontasse la sua storia. Voleva che qualcuno comprasse per lui un pezzo di tela e uno spago e costruisse un aquilone che volasse sui cieli di Gaza, per portare speranza a un bambino che aspetta un padre che non tornerà.

Quel poeta, scrittore, attivista e insegnante palestinese è stato assassinato il 7 dicembre, il giorno dopo che gli Stati Uniti hanno usato il loro potere nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per garantire che la sola cosa che i bambini di Gaza che possano veder volare sulle loro teste siano bombe. Come quella israeliana, precisa, che ha ucciso lui, i fratelli e i nipoti. Proiettili che ammazzano genitori, figli e poeti. Detonazioni che massacrano la speranza.

Libertà, giustizia, pace nel mondo, dignità intrinseca (all’essere umano in quanto tale, ndt) diritti uguali e inalienabili, famiglia umana. Tutti questi concetti confluiscono nelle prime frasi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, che il 10 dicembre ha compiuto 75 anni. “Non basta parlare di pace; bisogna crederci. E non basta credere; bisogna lavorare per conseguirla”, diceva una delle sue precorritrici, l’allora first lady statunitense Eleanor Roosevelt. Nei successivi 75 anni, il suo paese ha lavorato per la guerra. Due giorni prima che questa dichiarazione piena di speranza compisse 75 anni, gli Stati Uniti hanno permesso, con il loro veto, nel quadro delle Nazioni Unite, che un nuovo genocidio continuasse senza alcun freno.

“Il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”, si legge nel preambolo della Dichiarazione Universale. Il riferimento è chiaro e concreto, non si tratta delle atrocità del colonialismo, non si tratta della schiavitù. La barbarie di cui parla la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è quella dell’Olocausto. La Seconda Guerra Mondiale è fresca nella memoria, sei mesi prima l’ONU avrebbe riconosciuto lo Stato di Israele.

Il “disconoscimento e il disprezzo” dei diritti umani del popolo palestinese è diventato subito un patto criminale, guidato da Israele e dagli Stati Uniti, e ratificato con la loro inerzia dagli stessi paesi che rivendicano un posto speciale nella concezione dei diritti umani, la liberale Europa, capace di chiudere gli occhi di fronte al genocidio del popolo palestinese mentre fa affari con coloro che lo perpetrano. Oppure capace di chiedere moderazione nel massacro, mentre commercia in armi letali che di “moderazione” non hanno proprio nulla.

 

Come l’industria del genocidio nazista aveva pretese di modernità e sistematicità, così Israele sviluppa app e mappe digitali per dire agli abitanti di Gaza da quale quadratino di terra devono fuggire per poi indicarne uno nuovo senza smettere un minuto di bombardarli. Oppure Israele avverte con chiamate telefoniche ed e-mail i suoi obiettivi che verranno uccisi. Refaat viveva sotto questa minaccia, a quanto pare le sue parole erano “terroristiche” in questo universo parallelo della narrativa israeliana dove tutto sembra terrorismo o sostegno al terrorismo tranne il record di morti civili.

Bisognerà fare attenzione, perché tracciare parallelismi tra la barbarie nazista e quella sionista sarebbe antisemitismo, dicono coloro che si auto-ergono a custodi della memoria dell’Olocausto, l’IHRA. Sempre più stati in Occidente lo sostengono. Non solo: anche criticare Israele è antisemita. Una delle ultime personalità ad assaporare la portata di tanta confusione è stata la pensatrice Judith Butler, ebrea lei stessa, che andava a partecipare, la settimana scorsa, a un dibattito sulla strumentalizzazione dell’antisemitismo a Parigi, in rappresentanza dell’organizzazione Jewish Voice for Peace, un incontro sospeso dalla giunta comunale della capitale francese per la sua natura “polemica”.

Settantacinque anni dopo, i “diritti” di uno Stato coloniale schiacciano i diritti umani delle palestinesi e dei palestinesi, quelli che si basano sulla “dignità intrinseca in ogni essere umano”. C’è chi fa poesia per esorcizzare la morte e c’è chi fa tik tok per banalizzarla. I video degli israeliani che deridono la popolazione di Gaza, prendendosi gioco della distruzione e della morte, mostrano che la “dignità intrinseca nell’essere umano” è solo una formula per la cui irrilevanza sono già morti 10mila ragazzi e ragazze negli ultimi due mesi. Più di 20mila persone in totale. Le foto scattate dall’esercito israeliano che ritraggono decine di uomini in mutande, umiliati ed esposti come un trofeo di guerra, avallano questa sfida alla dignità intrinseca dell’altro.

Nel frattempo, da quando Elon Musk ha incontrato Benjamin Netanyahu in Israele, il magnate è diventato diligente, gli attivisti di tutto il mondo constatano come le loro timeline di X si riempiano di post filo-israeliani, come ha denunciato lo stesso Alareer prima della sua morte. Allo stesso tempo, di tanto in tanto i profili di chi denuncia la strage diventano invisibili. Chissà cosa avrebbe fatto Goebbels se avesse avuto a sua disposizione l’impero degli algoritmi. Ancora una volta, biosgna fare attenzione. Si sa che, 75 anni dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’obiettivo è più confrontare i genocidi che emularli.

“Quanto sangue, quante vite palestinesi, quante volte dovremo andarcene perché Israele sia soddisfatto”, si domandava Refaat in un articolo scritto per il New York Times, mentre Israele bombardava Gaza, nel 2021. Con le lacrime agli occhi, mentre le settimane si accumulano nella fossa comune dell’impotenza, milioni di persone nel mondo si pongono la stessa domanda. E non trovano risposta da nessuna parte. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, intanto, invecchia e corre verso la morte, come una logora fanzine che nessuno ha mai preso sul serio.

 

Fonte e versione originale: El Salto

Traduzione per Comune-info: marco calabria

L’ultima poesia di Refaat Alrareer, poeta palestinese, insegnante di letteratura del mondo e fondatore del progetto «We are not Numbers». Alrareer è stato ucciso da un bombardamento mirato israeliano il 6 dicembre 2023 nella Striscia di Gaza.

Se dovessi morire,
tu devi vivere
per raccontare
la mia storia
per vendere le mie cose
per comprare un po’ di carta
e qualche filo,
per farne un aquilone
(fallo bianco con una lunga coda)
cosicché un bambino,
da qualche parte a Gaza,
guardando il cielo
negli occhi
in attesa di suo padre che
se ne andò in una fiamma
senza dare l’addio a nessuno
nemmeno alla sua stessa carne
nemmeno a se stesso
veda l’aquilone, il mio
aquilone che tu hai fatto,
volare là sopra
e pensi per un momento
che un angelo sia lì
a riportare amore.
Se dovessi morire,
fa che porti speranza
fa che sia un racconto!

da qui

 

 

 

Gaza: è catastrofe umanitaria. E la responsabilità degli intellettuali? – Laura Tussi

Ripudiamo ogni guerra con l’adagio “Restiamo Umani” di Vittorio Arrigoni.

È un momento in cui dobbiamo chiamare a raccolta tutte le nostre risorse emotive e difese psicologiche per continuare a credere nell’umanità, per mantenere la speranza, per praticare la pace e affermare la nonviolenza. Un conflitto che impregna anche l’aria e l’acqua della Palestina è esploso con una violenza senza precedenti e ora più che mai abbiamo il dovere di riflettere, comprendere e agire, senza voltare la testa dall’altra parte, come siamo tristemente abituati a fare. Come diceva Vittorio Arrigoni, che proprio fra le strade di Gaza ha trovato la morte, “Restiamo umani”.

Un genocidio contro i più fragili del pianeta.

Anche gli Stati Uniti hanno votato contro il cessate il fuoco. E’ davvero vergognoso, anzi abominevole.

Nelle manifestazioni a sostegno di Gaza, interviene sempre la polizia in assetto antisommossa per bloccare i manifestanti che protestano solo perché vogliono la pace.

Ormai il potere, tutti i governi occidentali e non solo, sostengono il dominio e la prevaricazione di Israele su un popolo inerme e costituito perlopiù da bambini e adolescenti.

Gli occhi del mondo.

In modalità vigliacche, costantemente vengono attaccati e decimati i più fragili. A partire dai bombardamenti degli ospedali ormai senza più nemmeno carburante per mantenere le macchine che fanno stare in vita i malati terminali. Un mio amico ha adottato una bambina di Gaza di soli 12 anni di cui non si hanno più notizie. E non si hanno più notizie dei bambini-farfalla a Gaza. E così di altre, molte, troppe povere persone.

Ripudiamo ogni guerra con gli scritti per la nonviolenza.

E’ direi di vitale importanza la diffusione di questi nostri libri e articoli contro la guerra, per ripudiare ogni conflitto armato, per la dignità di tutti noi antifascisti e ecopacifisti che vogliamo la pace sopra ogni cosa.

E’ importante scrivere e denunciare fino a quando attivisti di buona volontà gestiscono ancora quei pochi siti online e spazi e ambiti editoriali liberi soprattutto dall’odio e dalla propaganda bellicista e militaresca. Perché la pace è vita. E, ripeto, oggi, adesso, in queste ore è in atto un genocidio perpetrato ai danni di un popolo quasi tutto costituito di bambini e adolescenti e quindi civili tutti innocenti e inermi.

Gli occhi dei bambini di Gaza che Resistono.

Un genocidio perpetrato dai poteri forti compresi soprattutto noi occidentali. E questo genocidio peserà come un crimine, un macigno sulle nostre coscienze. Sempre se si può ancora parlare di coscienza. Sono certa di essere compresa. Noi non siamo né con Hamas né con Israele, ma contro la guerra e la violenza oscurantista che sta ottenebrando le menti di tutti noi, società presunta civile. Sempre che si possa parlare ancora di civiltà nel sonno della ragione che genera mostri. Mai più odio. Mai più guerra. Mai più violenza dettata e imposta dal neoliberismo più becero e bellicista e militaresco…

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redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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