Percorsi di femminismo comunitario in America latina
Voci di donne dal Guatemala alla Bolivia, i due paesi con la maggior presenza di popoli indigeni del continente
di David Lifodi
“Il femminismo comunitario rappresenta uno strumento utile per articolare le lotte dei popoli”: su questo principio concordano le fondatrici del movimento, le boliviane Adriana Guzmán e Julia Paredes e la guatemalteca Lorena Cabnal.
La storia di quest’ultima è particolare: indigena maya-xinka, è stata espulsa dalla sua comunità per aver denunciato le violenze sessuali e i femminicidi. Il femminismo comunitario, per lei, rappresenta una sorta di rivendicazione dell’autonomia delle donne indigene contro il patriarcato ancestrale originario e il sistema di oppressione machista all’interno delle stesse comunità indigene. Eppure, Lorena non ha mai rinnegato né le sue origini né la cosmogonia india, ma al tempo stesso, per la sua storia, ha deciso che non poteva più rimanere in silenzio. Dopo aver conosciuto cosa significava dove fuggire dal territorio maya q’eqchí, in Alta Verapaz, a causa della repressione del governo di Rios Montt e dei suoi successori, responsabili del genocidio maya all’inizio degli anni Ottanta, Cabnal, che adesso ha 44 anni, a 15 anni fuggì di casa e a 25 aveva già studiato medicina e psicologia all’università, ma soprattutto aveva ereditato la sua metà xinka dalla nonna paterna. Aveva anche sperimentato le violenze sessuali in famiglia, ma quando giunse nella comunità xinca capì che all’interno delle sue strutture di governo e non solo vigeva la stessa logica patriarcale del mondo esterno. Lorena denunciò che il governo xinka era composto solo da uomini, mettendone in discussione la sua stessa composizione, oltre ad evidenziare che le donne erano le più povere all’interno della comunità.
Fu in questo contesto, nel 2006, che decise di seguire la pratica politica del femminismo comunitario contro violenze e discriminazioni, da lei descritte come aspetti di “fondamentalismo indigeno”. La risposta della comunità fu dura: prima Cabnal fu accusata di essere stata indottrinata da qualche femminista bianca straniera, poi le imposero di avere una nuova gravidanza perché “i figli rappresentano l’unico modo per garantire l’esistenza dei popoli indigeni” ed uno solo non bastava. La goccia che fece traboccare il vaso fu la denuncia di violenze contro le donne all’interno della comunità. In pratica, Lorena Cabnal fu messa nelle condizioni di andarsene dalla comunità, che però non ha mai rinnegato, continuando a militare e a rivendicare la sua doppia lotta in qualità di donna indigena (non a caso chiama il suo paese, il Guatemala, con la denominazione indigena Iximulew) e femminista.
Per le donne che vi hanno aderito, il femminismo comunitario rappresenta le migliori modalità per costruire la strada verso l’emancipazione nel territorio di Abya Yala, il nome che il popolo kuna (da Panama alla Colombia) ha dato al continente americano prima della conquista degli europei. Non a caso, le donne che aderiscono al femminismo comunitario si riconoscono più nelle lotte di Gregoria Apaza e Bartolina Sisa, che nel 1781 si battevano per prendere le decisioni politiche e militari al pari dei leader incas Túpac Katari e Túpac Amaru, che nel femminismo occidentale. Come sostiene Julia Paredes, esponente boliviana dell’Asamblea Feminista Comunitaria, le cinque assi di sviluppo del femminismo comunitario sono: corpo, spazio, tempo, organizzazione e memoria delle donne. In particolare, la necessità dello spazio è ritenuta vitale affinché il corpo possa svilupparsi, che si tratti della scuola, del quartiere, della strada o dovunque si svolga la vita comunitaria. Quanto alla memoria, le femministe comunitarie hanno ben presente che il mondo precolombiano era tutt’altro che benevolo nei confronti delle donne, tanto da riproporre gli stessi sistemi di oppressione tipici di quello europeo. E ancora, quanto al tempo, Paredes sottolinea l’assunto luchar por vivir y vivir bien. Si tratta della necessità, per le donne, di riappropriarsi di attività che non siano più soltanto quelle di prendersi cura della casa e della famiglia, ritenute noiose e poco importanti dall’uomo. In questo senso emerge una forte critica verso il femminismo europeo, percepito come ripetitivo, scarsamente innovativo e limitato a semplici rivendicazioni di principio. Julia Paredes spiega tutto ciò nel suo libro Hilando fino desde el feminismo comunitario, dove parla inoltre delle origini del femminismo comunitario, nato in Bolivia e che conta su una grande adesione delle donne indigene.
Sorto come un movimento sociopolitico focalizzato sull’urgenza e sulla necessità di costruire nuove comunità, il femminismo comunitario mette in discussione il sistema patriarcale, neoliberista e coloniale per affermare una prospettiva rivoluzionaria, non a caso Adriana Guzmán parla di decolonizzare il femminismo e invita a smettere di intenderlo solo in chiave eurocentrica. In questo senso, spiega sempre Guzmán, il femminismo non deve fossilizzarsi sulle rivendicazioni per l’uguaglianza di genere o la lotta per i diritti, ma porsi in opposizione al patriarcato, percepito come il sistema di tutte le oppressioni. Mujeres Creando Comunidad, questa l’associazione a cui appartiene Guzmán, si batte affinché protagonista della rivoluzione sia l’intera comunità, non solo gli uomini: è per questo, argomenta, che finora le rivoluzioni alla fine hanno fallito, proprio perché non sono riuscite ad eliminare quel patriarcato ogni volta tornato sulla scena. Il femminismo comunitario mira a costruire un buen vivir per le donne e per gli uomini. Una sfida per le organizzazioni popolari latinoamericane.