Pezzi di società, società a pezzi
di Roberto de Lena (*)
foto tratta da unsplash.com
Giovanni è molto arrabbiato perché l’altra mattina qualcuno gli è passato davanti nella fila per prendere il pasto in mensa e nessuno è intervenuto per far rispettare il turno. Vive in macchina ormai da mesi, in un parcheggio affacciato sul mare. Il tempo è ancora clemente, per fortuna, ma l’umidità la sera si fa sentire. Era di origine rumena, il giovane che lo ha scavalcato: “Dovrebbero tornarsene a casa loro! Non sono mai stato razzista, ma ti ci fanno diventare”. “Tutti qua in Italia vengono, dobbiamo chiudere i porti, non se ne può più”, rincara la dose Paolo, che vive a pochi metri da lui in una vecchia roulotte.
Poco prima siamo passati da Mohamed: divide una “stanza” di un metro per due, uno sgabuzzino per intenderci, con Sofia. Stanno giù al porto, vendono una cassetta di pesce ogni tanto e danno una mano ai pescatori a pulirlo. Se la cavano con piccoli lavoretti, anche se la crisi da Covid si fa sentire anche per loro, lavoratori informali sulle cui spalle si basa una buona parte di economia italiana: non riceveranno i sussidi previsti dai ristori del governo.
Sono pezzi di società di una società fatta a pezzi, quelli che incontriamo ogni giorno e ogni sera, qui nella provincia italiana.
VITE DI SCARTO
C’è anche Marco che ha bevuto troppo anche stasera, e con lui Igor: prendono da mangiare nella busta; il primo se ne va barcollando, l’altro vorrebbe parlare di tutto quello che nella sua vita non funziona. Mentre anche Giorgio si avvia verso il letto, un sedile di una Alfa Romeo degli anni Novanta, Massimo, Piero e Franco si separano, ognuno diretto verso la propria coperta stesa a terra sotto all’atrio di una chiesa, nel parchetto dove di giorno giocano i bambini, o in quel piazzale lasciato all’abbandono da anni. Gerardo invece vive in quel grande palazzo che cade a pezzi, ma almeno ha trovato un tetto sulla testa.
E ancora: Adam si è sistemato un bel lettino vicino alla macchina di Guido e dorme all’aperto: quando piove un po’ di spazio nell’auto si trova. Altre ed altri ancora non sono venuti per la cena: stanno al dormitorio e devono “rincasare” presto. Davide, che non si è mai allontanato da Termoli (Campobasso) nei suoi cinquantaquattro anni di vita, sogna invece di scappare da “questa Italia di merda dove nessuno ti aiuta se non sei nero” e di fuggire in Germania: lì le cose funzionano bene, la Merkel tiene tutto sotto controllo, e se perdi il lavoro te ne trovano un altro, così dice.
Sono molte e diverse le vite finite fuori dai binari della “normalità”. Anormali, appunto, vite di scarto. O forse sono lo specchio della democrazia attuale, che ha ridefinito il proprio patto sociale sulle categorie della produttività, della competizione, della paura, della persona come risorsa umana, come capitale umano. Marco, Piero, Massimo, Sofia e gli altri sono inutili, un peso che le nostre società non possono più sopportare. Sono inutili, peraltro, fino a prova contraria: fino a che le loro braccia non servono in qualche campagna del territorio. Sono inutili come lo sono gli anziani improduttivi, come le persone che hanno una disabilità. Se Giovanni ci pensasse bene, scoprirebbe che lui è inutile quanto Georghe, che l’altra mattina gli è passato avanti nella fila per il pasto. Giovanni questo lo sa, ma non vuole ammetterlo: si rifugia nel suo essere italiano. La sua disperazione lo porta a concludere che la sua condizione è determinata da chi sta come lui e gli passa davanti nella fila, gli passa davanti in quella costante lotta per la sopravvivenza che è la vita di strada.
RICOMPORRE LE RELAZIONI IN UNA SOCIETA’ LACERATA
Ma dalla strada, noi che ci andiamo, vediamo meglio quello che succede nelle case, nel corpo della società attuale: vediamo la stessa esasperazione, lo stesso disincanto, la stessa profonda sofferenza, lo stesso rancore sociale. Le vite di strada non sono poi così lontane dalle vite di noialtri che la sera andiamo a dormire in un letto, e ci chiudiamo dietro le spalle la porta di casa proprio come Guido quella della sua auto. Quanti sono i precari e i disoccupati che la pensano come Giovanni? Quanta disperazione c’è nella voce di chi urla “chiudiamo i porti” o che pensa “che paese di merda l’Italia”? Quando abbiamo smesso di occuparci di questo rancore sociale che monta, nelle vite di strada di ogni giorno così come nelle piazze scomposte delle ultime settimane?
Come invertire la rotta? In tanti modi diversi. Fare politiche sociali universali, ad esempio, superando il welfare dei sussidi che divide e incattivisce gli uni contro gli altri, garantire l’accesso alla casa per tutti, finanziare un reddito di esistenza andando a prendere i soldi dove ci sono, dai più ricchi. Organizzare interventi di aiuto, mutualismo, prossimità, uscire dalla violenza sistemica in cui siamo immersi. Abolire le norme che precarizzano e mercificano il lavoro. Lavorare per la conversione democratica ed ecologica della società. Ma prima di tutto stare in strada, ascoltare cosa ha da dire chi ci vive, dare attenzione agli scarti, sostare nei margini, dove non si hanno ricette predefinite. Ricomporre i pezzi scomposti e rancorosi di una società fatta a pezzi dalle logiche del profitto, verso una società della cura.
I nomi delle persone citate sono stati modificati.
Roberto De Lena, l’autore di questo articolo, è operatore sociale (ma è anche impegnato con Attac e Cadtm Italia) in Molise.
(*) ripreso da Comune-info che consiglia anche la lettura – in parallelo – di Dietro le vetrine di Gucci (di Marco Revelli), Sui potenziali lockdowns (di P. Spada S. Gandini e G. Silvestri), Ora serve il reddito di base (di Roberto Ciccarelli) e La società della cura (di aa. vv.)