Philip Dick, ESEGESI 7
«Autore… chi?» di Giuliano Spagnul
«Diciamo che io sono ispirato a scrivere quello che scrivo da un’entità creativa al di fuori della mia personalità cosciente. (…) Non c’è dubbio che in tutta franchezza io non scrivo i miei romanzi nel vero senso della parola: essi provengono da qualche parte di me che non sono io»(48-9). Questa distanza dell’autore dalla propria opera, al di là dell’abusata posa comune a tanti artisti, in Dick si colora di un’indicazione su una presunta provenienza in “qualche parte di me che non sono io”. In un altro momento riflettendo ancora sul rapporto con la propria opera sente «di essere stato molte persone differenti. Molte persone sono state sedute davanti a questa macchina da scrivere, usando le mie dita. Scrivendo i miei libri». Estremizzando, prosegue dicendo che: «I miei libri sono falsificazioni. Nessuno li ha scritti. È stata la dannata macchina da scrivere, è una macchina da scrivere magica. O come John Denver trova le sue canzoni: li prendo dall’aria. Come le sue canzoni, i miei libri sono già lì. Qualsiasi cosa voglia dire»(62). Non è questo solo un problema di «dissolvenza dell’autore, disseminazione dell’opera, emergenza della collettività all’interno di una operatività artistica diffusa»1 : non si tratta qui del confronto tra l’individuo e la collettività dal punto di vista del campo del fare artistico (se mai all’interno del passaggio dalla modernità alla postmodernità); qui entra in ballo il discorso sull’io, e su quell’io gonfiato dalla pretesa del dire autentico, originale. Non solo quel prendere da un humus creativo diffuso (cosa del resto riconosciuta normale, per chi è onesto, nel fare artistico): qui si parla di ‘falsificazioni’, di macchine da scrivere che magicamente producono dal nulla. Michel Foucault incidendo in profondità il bisturi nella presunta materialità dell’autore ci dice che: «L’autore – o ciò che ho provato a descrivere come la funzione-autore – è probabilmente soltanto una delle specificazioni possibili della funzione-soggetto. Specificazione possibile o necessaria? Guardando le modificazioni storiche che si sono succedute, non sembra indispensabile, assolutamente, che la funzione-autore rimanga costante nella sua forma, nella sua complessità e finanche nella sua esistenza. Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio». Potremmo immaginarci a questo punto gli ottomila fogli dell’Esegesi non più salvati dalla solerzia dell’amico Paul Williams ma lasciati all’incuria, e sparpagliati, circolare per varie mani non innocenti, saccheggiati e manipolati fino a diventare una seria disputa tra appassionati e critici sulle presunte autenticità. «E dietro a tutte queste domande non si capterebbe altro che il rumore di un’indifferenza: “Cosa importa chi parla?”»2. Dick, questo “Hemingway della sub-cultura”3 potrebbe dire che chi parla è Valis e forse Foucault l’avrebbe trovata una risposta persuasiva.
Nota 1: Antonio Caronia, «Reti e comunità. Oltre l’autore» https://www.academia.edu/305207/Reti_e_comunit%C3%A0_oltre_l_autore
Nota 2: Michel Foucault, «Che cos’è un autore?», in Scritti letterari, Feltrinelli, Saggi UE 2010, p. 21
Nota 3: Lawrence Sutin, «Divine invasioni», Fanucci, Roma 2001, p. 256.
Tra sette giorni: «Esegesi 8 – Attraverso gli occhi»