Philip Dick nella città della nebbia
AVVISO a chi frequenta questo blog: oggi è lunedì, dunque non si parla (possibile?) di fantascienza.
Ogni inedito di Philip Dick è una festa. Ma urgono subito un avviso e una rassicurazione. L’avvertenza è per chi non ama la fantascienza: la copertina non vi inganni, qui si parla pochissimo di science fiction (infatti il titolo originale era «The Broken Bubble») e solo in riferimento alla rivista di alcuni ragazzetti fuori di testa. In apparente contraddizione, la rassicurazione è per chi ama Dick: è sempre lui, pur se non scrive fantascienza, anche se è giovanissimo (il libro è del 1956 ) il suo tocco magico è lì.
«Nessuna gioia nella nostra Fogville, la città della nebbia». Siamo a San Francisco tra venditori di auto (tema ricorrente in Dick), disc jokey, ribellioni di breve durata, coprifuoco per i minorenni, cibi e vestiti che dovrebbero assicurare identità ma soprattutto il pendolo del sesso che attrae e spaventa. Il non dialogo fra Art e la più grande Pat (gli parla di zone erogene e il ragazzo… scappa via) è tragicomico, indimenticabile: ci svela molto sulla sessuofobia di allora e forse di oggi. I due sono presi dalla passione ma Art pensa che certe cose si fanno al buio; del resto è convinto che sia lecito, anzi normale, picchiare la donna amata se si comporta in modo “strano”. Non a caso un’altra scena memorabile è l’orgia (triste e mancata) di alcuni ottici che, in chiusura del loro congresso annuale, fanno rotolare – cioè prendono a calci – una procace e svestita ragazza chiusa in una bolla di plastica trasparente. Ma forse tutti sono chiusi in bolle pur se non lo sanno.
Nelle faccende d’amore come in tutte le altre i 4 protagonisti principali non hanno certezze che durino più di mezza giornata: ripetono «mai» e «sempre» oppure «ti amo, ti sposo» e poco dopo hanno cambiato idea. «L’immaturità è tutto» commenta Carlo Pagetti nella sua bella prefazione. Ragazzi che nessuno ascolta e dunque disponibili a trovare un messia nel primo adulto che passa: un bravo disc jokey o magari un nazistoide armato sino ai denti. Dentro di loro sbocciamo fantasie, qualche «fiore d’amore e di debolezza» ma in definitiva sembrano ignorare tutto del mondo e persino le parole giuste. La giovanissima Rachel sembra a volte la più saggia forse per il potere che le dà la creatura in grembo. E’ lei a dire «non si possono controllare gli esseri umani», si può solo parlare «ma non fa alcuna differenza». E più avanti, quando la situazione precipita: «Io non so in che modo chiamare le cose. Quando eravamo a scuola sapevamo un sacco di parole ma non si possono usare. E’ dura non sapere le parole».
Il romanzo termina con la convinzione che il figlio di Rachel unirà e salverà i 4. Ma la conclusione del romanzo (l’unica possibile o Dick lascia aperta una via d’uscita?) è che le parole scompaiono senza tornare indietro.
Lento ma come un ragno che tesse la tela nella prima parte, scatenato nella seconda parte, più violento del solito, ricchissimo nei dialoghi e nei colpi di scena, «Il cerchio del robot» conferma che il Dick “realista” aveva tutte le carte regole. E altri 5 romanzi (tutti pubblicati da Fanucci) non fantascientifici lo testimoniano: rifiutati dagli editori e così Dick scrisse solo science fiction. Probabilmente la letteratura realista ha perso un autore della grandezza di Arthur Miller o di John Barth; di certo il fantastico trovò un costruttore di mondi come nessun altro.
Philip Dick
«Il cerchio del robot»
traduzione di Fabio Zucchella
Fanucci
296 pagine, 17 euri
CONSUETA NOTA
Questa mia recensione è stato pubblicata – al solito: parola più, parola meno – il 14 febbraio nelle pagine culturali del quotidiano «L’unione sarda». (db)