Piazza della Loggia, una storia militante

di Anna Clara Basilicò e Michele Borra (*)

Cinquant’anni fa la strage fascista di Brescia: serviva a fermare le lotte e bloccare lo spostamento a sinistra dell’Italia.

La mattina del 28 maggio 1974, in piazza della Loggia, a Brescia, è in corso sotto una fitta pioggia il comizio della manifestazione antifascista convocata dal Cupa (Comitato Unitario Permanente Antifascista) in seguito al crescendo di violenze di matrice fascista che negli ultimi mesi si sono susseguite in città e provincia: aggressioni ai picchetti operai fuori dalle fabbriche e agli studenti delle scuole, attentati a sedi di partiti della sinistra e lettere minatorie ai giornali. La notte del 19 maggio Silvio Ferrari, esponente di Ordine Nuovo, muore saltando in aria in pieno centro, in piazza del Mercato.
Sulla sua Vespa trasportava una bomba a orologeria.
Alle 10.12 di quel 28 maggio, in piazza della Loggia, esplode una bomba. Sei manifestanti muoiono sul colpo, più di cento rimangono feriti. Altri due antifascisti moriranno in seguito. L’ordigno era stato piazzato in un cestino dei rifiuti, accanto a una colonna del porticato che delimita il lato orientale della piazza. Sotto i Macc de le ure. Cinquant’anni dopo, la colonna è rimasta sbrecciata, a ricordare al passante distratto l’orrore della strage.

Le ricostruzioni storiche e l’iter giudiziario tuttora in corso hanno rilevato che a collocare la bomba nel cestino dei rifiuti furono militanti dell’organizzazione eversiva fascista Ordine Nuovo, reclutati, coordinati e coperti da uomini dei carabinieri, dell’esercito, dei servizi segreti e del comando Nato di Verona.
Nel 2017, quarantatré anni dopo la strage, la Corte di Cassazione ha confermato le condanne all’ergastolo per Carlo Maria Maggi, all’epoca dirigente di Ordine Nuovo del Triveneto, e Maurizio Tramonte, ordinovista e informatore del Sid (Servizio Informazioni Difesa). Il 30 maggio 2024, al Tribunale dei minori di Brescia inizierà il processo a carico di un altro militante ordinovista di allora, Marco Toffaloni, accusato di concorso in strage insieme a Maggi, Tramonte e Roberto Zorzi, il cui processo procede parallelo a quello di Toffaloni.

Anniversari così importanti portano con sé una sorta di liturgia: le celebrazioni sono più solenni e le retoriche in qualche modo più altisonanti. E naturalmente si tracciano bilanci: che ne è stato di coloro che furono il bersaglio di quella bomba? Che ne è della memoria di quegli eventi?

Nel mirino delle bombe

Rispondere alla prima domanda significa anzitutto comprendere chi o cosa fosse l’obiettivo di quell’ordigno. La Strage di piazza della Loggia si inserisce nel contesto della «strategia della tensione» e dello stragismo politico che per una lunga stagione della storia italiana ha visto l’azione sinergica di organizzazioni neofasciste, apparati dello Stato italiano, servizi segreti esteri e strutture internazionali legate all’Alleanza atlantica nell’organizzazione di aggressioni, attentati e stragi.
Una strategia che si poneva il duplice obiettivo di arrestare lo spostamento a sinistra della politica e della società italiana dell’epoca e, soprattutto, colpire le spinte operaie, studentesche e femministe che la attraversavano in maniera diffusa.
Spinte radicali, che non si limitavano ad attaccare la presenza sulla scena pubblica e parlamentare del Movimento sociale italiano  – peraltro determinante nell’elezione a presidente della Repubblica del democristiano Giovanni Leone.
Nel mirino di queste lotte vi era di più della denuncia della violenza squadrista delle formazioni eversive neofasciste, non di rado finanziate da esponenti del padronato italiano e, naturalmente, bresciano: un pezzo significativo – anche se non maggioritario – della società italiana dell’epoca contestava l’organizzazione stessa della società intorno al modello politico della democrazia liberale e alle coordinate economiche del capitalismo.

Il bersaglio delle bombe piazzate dai fascisti erano questi movimenti e le vittorie che andavano conquistando. Riprendendo l’efficace suggestione proposta da Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese nel loro ultimo lavoro La tigre e i gelidi mostri. Una verità d’insieme sulle stragi politiche in Italia (Feltrinelli 2023), i gelidi mostri della strategia della tensione volevano cavalcare la tigre delle lotte sociali.
Sulla spinta del biennio 1968-69, nel 1970 era infatti stato approvato lo Statuto dei lavoratori, il corpo di «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro».
Tra il 1973 e il 1974 erano stati emanati i sei decreti delegati della scuola che andavano a riformare l’istruzione non universitaria italiana su princìpi democratici. La vittoria del no al referendum abrogativo del 1974 aveva confermato la liceità del divorzio soltanto due settimane prima della strage di Brescia.
Il tutto in un clima generale di mobilitazione, di un processo di emancipazione di massa senza precedenti. Un movimento che non si limitava a difendere i valori della Resistenza e della Costituzione antifascista nata dalla Liberazione. Lottava perché quei valori non rimanessero parole sulla Carta, puntualmente smentite dalla violenza dei rapporti sociali regolati dal comando capitalista. Una parte significativa della società rifiutava il dogma dell’unità nazionale e ambiva a una democrazia reale, radicale, fondata sul potere di lavoratori e lavoratrici, a una vita libera dallo sfruttamento, al protagonismo delle donne, a un’istruzione diversa.

I padroni finanziavano i picchiatori fascisti per reprimere le mobilitazioni operaie che andavano oltre la linea concertativa del sindacato. Per fermare l’espansione di una partecipazione alla vita pubblica in termini sempre più radicali le istituzioni dello Stato italiano decisero di affidare ai servizi, alle strutture militari nazionali e internazionali e alla manovalanza dei gruppi neofascisti una risposta in grado di eliminare, o almeno ridimensionare, la minaccia comunista.
Non tanto perché questa fosse davvero in grado di portare alla vittoria un processo rivoluzionario in Italia, ma perché era in grado di danneggiare i profitti degli industriali, ottenere conquiste sociali invise a chi deteneva il potere politico, economico e culturale. In altre parole, questa grande mobilitazione sociale – in tutti i suoi risvolti socioeconomici, politici, culturali e intellettuali – disturbava concretamente lo status quo favorevole a istituzioni e classi dominanti.

Le stragi furono parte di una più ampia strategia, caratterizzata da differenti livelli, posizioni e ruoli, passata poi per una durissima repressione, per il compromesso storico e le politiche dei sacrifici imposti alle classi popolari.
Una strategia complessa e articolata che, colpendo l’opposizione sociale e facendo a pezzi la coscienza collettiva, ha spianato la strada all’affermazione del paradigma economico e politico neoliberista. Le classi subalterne e la sinistra rivoluzionaria italiana degli anni Settanta non furono in grado di affrontare un simile livello di scontro e bloccare il processo di erosione dei diritti sociali, aumento delle diseguaglianze, allontanamento generalizzato dalla partecipazione pubblica e diffusione di uno stile di vita sempre più individualista e acritico cui, in effetti, si è assistito dopo quella stagione.
Con la distruzione della capacità e della forza di proporre dal basso un’alternativa concreta e vincente, nei decenni sono diventate normali la precarietà assoluta sul lavoro, lo sfruttamento selvaggio in totale assenza di diritti, la disoccupazione. I diritti delle donne, quando non la loro stessa vita, sono costantemente sotto attacco.
Le scuole forniscono manodopera gratuita alle aziende con la scusa dei Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento. A capo delle università ci sono Consigli d’Amministrazione in cui siedono manager e delegati di multinazionali, di Confindustria. Nuove guerre affliggono le popolazioni di gran parte del pianeta e i più qualificati scienziati danno alla Terra una manciata di anni prima del collasso degli ecosistemi.

28 maggio 2024

E che ne è stato invece del ricordo, della memoria di quei fatti?
Cinquant’anni di retorica sull’importanza dello Stato e delle istituzioni democratiche come scudo contro «la violenza» e «il terrorismo» non hanno solo inferto un duro colpo alla coscienza politica collettiva dei movimenti che furono bersaglio dell’orrore stragista, ma hanno contribuito a creare una grandissima confusione intorno alle vicende di quegli anni tra le nuove generazioni.
Mentre si attendono i risultati della campagna di quest’anno, incombono quelli dell’indagine condotta nel 2014 all’interno delle scuole a cura della Casa della Memoria di Brescia e pubblicata in Piazza Loggia. Schegge di memoria viva della strage che segnò Brescia.
Le risposte registravano il preoccupante disorientamento degli studenti rispetto alla matrice delle stragi degli anni di piombo, prevalentemente attribuite alla mafia (37,1%), al terrorismo rosso (28,5%) o nero (26%). C’era però anche chi le attribuiva a ignoti (6,1%), al gesto di un folle (7,6%) o ai servizi segreti (8,2%). Se da un lato cinquant’anni non sembrano essere un lasso di tempo che concede alla memoria di diventare storia, osservando questi dati è inevitabile domandarsi se l’oblio altro non sia che il naturale esito di quell’operazione politica della memoria volta alla pacificazione tra Stato e società che entra in azione immediatamente.
Al funerale delle prime sei vittime di piazza Loggia presenzia Giovanni Leone, eletto con i voti dell’Msi, cui «la cittadinanza è grata di esser venuto», riporta in prima pagina il Giornale di Brescia il 1° giugno 1974, all’indomani della funzione. Una cittadinanza che «con la dignità composta del suo contenuto dolore» ha sfilato in silenzio di fronte alle bare come un’unica «immensa pacifica adunata che è stata esempio di civiltà». Certo, scrive il direttore Vincenzo Cecchini, «non tutte le parole si sono diffuse senza suscitare echi, espressioni impazienti, accenni di contestazione […] tuttavia l’argine della compostezza non si è rotto». Persino l’Unità minimizzò le proteste, definendole «inopportune interruzioni di alcuni gruppetti».

Se nel caso di Brescia a perenne memento della strage restano la colonna sbrecciata e il manifesto d’indizione della manifestazione antifascista, a Milano la lapide commemorativa posta nel 1979 in piazza Fontana ricorda invece il «criminoso attacco» recato «alla città e alle istituzioni repubblicane» cui aveva risposto la «determinazione unitaria» del popolo. Nessuna menzione alle circostanze, alle finalità, ai mandanti, agli esecutori. La stagione della strategia della tensione non si era ancora chiusa, ma già la verità dei monumenti ricalcava un copione ben preciso, quello dell’attacco al cuore dello Stato cui opporre una coesione sociale tesa a legittimare e proteggere le istituzioni.
È la logica dell’indiscriminato che porta nel 2012 all’inaugurazione a Brescia del Memoriale delle vittime del terrorismo e della violenza politica, un paradossale percorso di pietre d’inciampo che dalla stele di piazza Loggia conduce al castello sul colle Cidneo in cui le vittime delle stragi fasciste di Brescia e Milano si trovano di fianco alle formelle commemorative di fascisti come Sergio Ramelli e Ugo Venturini.

«Stringiamci a coorte», insomma, centosessanta anni dopo. Una coorte che si sfila così da qualsiasi responsabilità, riducendo a qualche «apparato deviato» la connivenza con le strutture neofasciste. E sull’altare di quell’unità, di quella coesione – unica speranza di salvezza – occorre sacrificare qualcosa: il conflitto sociale che fu elemento centrale di queste vicende.
Una tigre che non è del tutto sopita, se si osserva la storia da un’angolatura differente, come ha fatto Sergio Fontegher Bologna seguendo una tradizione diversa, inaugurata all’inizio del Novecento, che volge lo sguardo ai soggetti che animano la vita sociale e in essa interagiscono (Tre lezioni sulla storia, Mimesis 2023).
Una storia sociale che nell’Italia nata dalla Resistenza ha trovato terreno fertilissimo: la microstoria, la storia orale, la storia culturale sono tutte eredi di quella spinta, come lo è la tradizione operaista che ha ascritto come protagonista dello sviluppo storico un soggetto collettivo – la classe operaia – con il suo sapere e la sua esperienza. Sottraendo alle istituzioni il monopolio del discorso storico diventa infatti possibile una lettura non omissiva della storia, una lettura militante, che serva gli interessi del gruppo sociale che la interpreta, una storia tesa a osservare il futuro nel passato.

È in questo modo che diventa possibile riconoscere in quelle «inopportune interruzioni» una contestazione radicale dello Stato e dei suoi apparati, accompagnata da una forte tensione anti-istituzionale che era arrivata – come ha recentemente sottolineato nel convegno 1974-2014: Cinquant’anni dalla strage di Piazza Loggia Umberto Gobbi, redattore di Radio Onda d’Urto – «non dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare, il cui grande corteo forte di decine di migliaia di militanti era tenuto fuori dalla piazza dal servizio d’ordine, bensì dalla folla presente».
Una tensione che si è riproposta, anno dopo anno, negli anniversari della strage quando, tanto «più veniva data alle commemorazioni ufficiali una connotazione celebrativa e istituzionale, in modo direttamente proporzionale per le realtà di base e antagoniste la giornata del 28 maggio assumeva la valenza di un momento di sintesi dell’intervento politico in corso».

Alla ritualità liturgica, che ha svuotato la commemorazione del suo senso politico, si oppone quindi una forza concorrente che muove da memorie diverse di quel 28 maggio 1974. È la storia di una collettività, di una società, che ne definisce l’identità e la difende dall’oblio. Nei processi storici si intrecciano i legami sociali che la forza omologante del neoliberismo globale vuole spezzare. Ed è la storia che ci permette di guardare con uno sguardo lucido e consapevole al presente.

La memoria del 28 maggio 1974 non è una, e questo è un fatto. Quella giornata che le istituzioni hanno inteso trasformare in una giornata a difesa dello Stato dall’attacco di una generica violenza politica continua a essere terreno conteso, come lo sono la piazza e la memoria: cercare di pacificarla significa escludere il conflitto che fin dai giorni del funerale ha tracciato un discrimine tra visioni e risposte diametralmente opposte. Una di queste visioni è quella che resta incisa sulla pietra, e che come un macigno grava, l’altra è affidata a monumenti più caduchi – volantini, interviste, ricordi personali.
Come un cartello, lasciato la sera della strage in piazza Loggia, che recitava così:

Vennero
uomini e donne liberi
a testimoniare contro la mostruosa
oscurità del fascismo di oggi
non diverso da quello di ieri
né di esso migliore
non si chiamino vittime ma caduti consapevoli 
militanti partecipi dell’antifascismo internazionale 
quando la vergogna delle false tolleranze
e delle innominate connivenze ha albergato tra noi 
la dinamite diventa soltanto
per i militanti antifascisti
una malattia in più
di cui poter morire

Del cartello non c’è più traccia oggi, ma questo non significa che non sia mai esistito. Qualcuno lo ha trascritto e ci ha consegnato una lapide meno effimera di quanto si possa credere.

(*) Tratto da Jacobin Italia.
Michele Borra, laureato in Scienze filosofiche all’Università degli studi di Verona, è redattore di Radio Onda d’Urto. Nel 2022 ha frequentato il corso di perfezionamento in Teoria critica della società all’Università di Milano-Bicocca.
Anna Clara Basilicò è una dottoranda dell’Università di Padova e Ca’ Foscari. Si occupa di storia del carcere della prima età moderna con particolare attenzione alle carceri del Sant’Uffizio. Questo articolo prende forma dalle riflessioni collettive emerse durante la costruzione e lo svolgimento del convegno 28 maggio 1974-2024. 50 anni dalla strage di Piazza della Loggia organizzato da Radio Onda d’Urto lo scorso 11 maggio. La foto è di Gabriele Chiesa.
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alexik

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