Piccoli omicidi – di Mark Adin
Nell’inventario, spero definitivo, degli assassini che ho incrociato finora, ne ricordo alcuni più di altri, così come si rammentano viaggi o libri memorabili. Metaforicamente l’operazione è simile. Un omicida è parente di un viaggio, che porta con sè il rapimento del viaggiatore; oppure di un libro, con tutta la forza della storia che evoca. L’omicidio è un fatto piuttosto comune, connaturato all’uomo da sempre. L’istinto è congenito. Uccidere è andare oltre il proprio destino di uomo, è un tentativo inutile e maldestro di avvicinarsi a dio. Togliere la vita è l’azione i cui effetti sono definitivi. La frequenza con la quale le cronache si infittiscono di questa attività umanissima ce ne riflette, in un certo senso, la banalità.
Conti alla mano: pur non avendo – s’intende per il momento – frequentato galere o analoghe istituzioni ad alta densità umana, posso dire di averne conosciuti una decina, di assassini, soprattutto durante il soggiorno nella mia amatissima casa di ringhiera: se non dimentico nessuno, a un attento conteggio, ne risultano tredici. Avendo soprattutto frequentato gente comune, povera gente, posso dire che il movente sia stato spesso la passione, se non un malinteso senso dell’amore. Ma non li considero incidenti, o accidenti. Se mai gesti fuori misura, appartenenti a pieno titolo agli atti non troppo eccezionali tra esseri umani.
Degli altri omicidi ( attuati per soldi, per stupidità) non voglio parlare, mi rattrista pensare ai gesti, mi impegna inutilmente analizzarne le cause, valutarne il movente. E poi non interessa a nessuno una attività elencatoria, se pure attualmente trendy. Cosa pensare dell’istinto di uccidere? Come accettare la facilità con cui si può commettere un assassinio? Come negarne il potere seduttivo?
Non solo disperati, anche grandi uomini hanno ucciso, ma nessuno di loro valeva una madre nell’atto di dare la vita.
Rosa era stata uccisa dal marito impazzito. Non avevo ancora visto chiudere un uomo in una camicia di forza. Ero ragazzo. Richiamati dalle urla, ci affacciammo tutti alle finestre. In un accesso di follia, innescato da una gelosia patologica, Carmine voleva uccidere i figlioletti, sbattendone le teste contro la ringhiera di ferro. La paranoia aveva superato il livello di guardia: nei loro volti Carmine vedeva la somiglianza con gli amanti di Rosa. Lo portarono a Montelupo Fiorentino, al manicomio criminale. Dopo un periodo di internamento, durante il quale era stato bombardato di psicofarmaci, tornò gonfio e inespressivo. Carmine era folle a causa di lei, piuttosto che della malattia. Perché Rosa era una donna libera. Quando stendeva i panni, sul ballatoio del secondo piano, con addosso soltanto il soffio di una vestina leggera, noi ragazzi, in cortile col naso all’insù, ne ammiravamo la natura, quel triangolo scuro e ricciuto, che poi avrei visto raffigurato da un pittore che si chiamava Courbet.
Era stato il triangolo a spingere Carmine alla pazzia. Non un triangolo qualsiasi, dominato dalla scienza euclidea, era il triangolo nel quale dio aveva inscritto il suo occhio.
Ammirai quel triangolo, per la prima volta, apparire tra i fianchi del mio primo amore. Era crespo e sapeva del sapore del vivere. A quel triangolo rivolgo saltuariamente il pensiero, a quel triangolo che vede la gioia del primo vagito e la febbre dell’amore. Quel triangolo gli si era conficcato come una scheggia nel cervello e gli causava improvvise emicranie. Durante una di queste, faceva un caldo afoso e impossibile, osservato dall’indifferenza dell’occhio divino, Carmine trasse il coltello e sventrò Rosetta, ficcando più volte, mimando un’ultima decisiva penetrazione.
Non si scrivono ballate su queste miserie, non c’è nulla che possa esser detto con l’intento di fare poesia.
Mi chiedo solo cosa ci faccia dio, dentro quel triangolo.
Mark Adin