Pniec, Europa, Green New Deal

due contributi di Mario Agostinelli e Roberto Romano

Credo che il tratto caratteristico di tutti gli innumerevoli Piani Energetici Nazionali che i Governi del dopoguerra hanno sottoposto al dibattito pubblico si riscontri nella determinazione con cui, di volta in volta, si è giustificata l’adozione di una particolare e specifica fonte energetica, cui si sarebbe dovuto adattare il sistema nelle sue articolazioni complesse, pur di assecondare equilibri geopolitici e rimpolpare bilanci delle società energetiche, anche a dispetto dei danni ambientali. Si sono così favoriti prima gli insediamenti di grandi poli carboniferi, poi gli usi improprio di oli combustibili, fino al nucleare, per arrivare, come sta accadendo negli ultimi lustri, al gas. Essa è l’unica fonte fossile residua ancora in grado di essere spacciata per limitativa di un eccesso di emissioni climalteranti. Ma – come vedremo in seguito – si tratta di una “virtù” che non regge a fronte dell’emergenza climatica in atto. Per la verità, la convenienza di un ampliamento delle infrastrutture portanti della combustione finale di gas in tutte le sue versioni sta soltanto nella presunzione ottimistica che una carbon tax, mai applicata e sempre rimandata nel tempo, venga all’evenienza compensata dal mantenimento di bassi prezzi sul mercato delle materie prime, come risultato dell’esternazione dei costi ambientali e delle competizioni geopolitiche tra attori sempre più numerosi e senza scrupoli (Emirati Arabi, Qatar, Turchia, Egitto, Russia e USA-post-shale-gas), che stanno scommettendo sul passaggio “meno sporco” dal carbone e dal petrolio al metano.

Esaminando l’ennesimo piano nazionale, ci troviamo così di fronte ad un malloppo di un numero assai considerevole di pagine, ma con un unico succo al fondo, che riassumo usando letteralmente il testo pubblicato: si annuncia “nuova capacità a gas per circa 3 GW, di cui circa il 50% sostanzialmente connesso al phase out dal carbone, coerentemente con la pianificazione e la regolamentazione (paesaggistica e ambientale) regionale; nuovi sistemi di accumulo per 3 GW nelle aree centro – sud, sud e Sicilia; rinforzo della rete di trasmissione nel Polo di Brindisi (dove è in corso il passaggio dalla produzione di energia elettrica da carbone a quello della produzione con gas metano); una nuova dorsale adriatica per almeno 1 GW di capacità di trasporto di gas; e infine, in correlazione con il phase out dal carbone in Sardegna “una nuova interconnessione elettrica Sardegna – Sicilia – Continente, insieme a nuova capacità di generazione a gas o capacità di accumulo per 400 MW localizzata nell’isola”

Questa volta il Piano Energetico si chiama “Piano Nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec)” e, quindi, ecco spiegato perché, per reggere il confronto con Bruxelles e la stessa presidente dell’UE Von der Leyen, non si sia dichiarato subito all’inizio delle 300 pagine pubblicate dal ministero dello Sviluppo e predisposto con i ministeri dei Trasporti e dell’Ambiente, che tra l’opzione rinnovabili e metano si puntava sul secondo. Insomma, l’Italia punta forte sul gas, che resterà la fonte primaria.

Nella transizione energetica la nuova capacità di generazione dal gas (con conseguente aumento temporaneo dei consumi) contribuirà nei prossimi anni alla copertura del fabbisogno. E, se non si fosse inteso, si va al sodo: “tenuto conto del phase out delle centrali a carbone, gli impianti a gas assicureranno la necessaria flessibilità al sistema, compensando l’incremento rilevante di produzione rinnovabile non programmabile e assicurando il mantenimento dei livelli di sicurezza, adeguatezza, resilienza e qualità del servizio”. Di conseguenza, l’eventuale phase out dal carbone – programmato entro il 2025 – avverrà “nei limiti e sempreché siano per tempo realizzati gli impianti sostitutivi e le necessarie infrastrutture, e una significativa accelerazione delle rinnovabili e dell’efficienza energetica”. Chiaramente, siamo ad un passo indietro sulla fuoriuscita dal carbone, prevista sì nel 2025, ma subordinata alla realizzazione di centrali sostitutive ed elettrodotti. Con un boom di utilizzo del gas naturale per la generazione elettrica che potrebbe frenare l’espansione di solare ed eolico. Tutto in linea con quel che prevedeva a suo tempo Calenda quando era al MISE e, poi, con gli incontri Salvini-Blair e il silenzio di Di Maio quando il governo gialloverde diede il via libera alla realizzazione del TAP e alla messa in opera della stazione di pompaggio in pieno Parco degli Abruzzi.

Attorno a questi nodi – aumento del gas nel mix energetico; TAP; metanizzazione della Sardegna; ritardato phase out dal carbone – occorrerebbe oggi discutere e misurare il consenso dell’azione dei governi in relazione alle richieste dei movimenti ambientalisti, degli studenti di Fridayforfuture, delle popolazioni locali ed anche delle impostazioni con cui l’Enciclica “Laudato sì” ammonisce riguardo al compito di “curare la Terra”.

Ci si potrebbe dire che si è tenuto conto delle osservazioni fatte da Bruxelles e delle novità incluse nel decreto-legge sul Clima, nonché di quanto previsto in tema di investimenti con la sottoscrizione del Green New Deal, già recepito dalla legge di bilancio 2020. Ma come fidarsi di così tante assicurazioni contradditorie? E’ vero che si parla di forte crescita dell’energia rinnovabile, di generazione flessibile, di reti e sistemi di accumulo, ma nel testo si precisa: “purché ciò avvenga di pari passo con la dimensione della sicurezza e dell’economicità delle forniture”. Il Piano conferma la necessità di accelerare la crescita delle energie rinnovabili (Fer), nell’ambito degli interventi complessivi (accumuli, reti, generazione flessibile, altre opere di rete) da realizzare entro il 2030, ma poi afferma che per la riduzione del gas serra al 2030 l’Italia prevede come obiettivo il 37%, mentre la Presidente della Commissione Europea Von der Leyen ha parlato di target al 55%, come è nella richiesta formale della legge di iniziativa popolare depositata in Cassazione per la cui validazione si sta organizzando la raccolta delle firme sul territorio nazionale (v. https://www.facebook.com/almenoil55percento/ )

Dopo aver confutato il privilegio offerto ancora ad una fonte fossile in una fase che dovrebbe investire in un sistema energetico decentrato e largamente partecipato, provo ora ad esaminare su basi il più possibile oggettive la questione dell’economicità delle forniture che, secondo il PNIEC, sembrerebbe dar peso e credito all’irrinunciabilità di un maggior apporto del gas nel mix energetico. Per farlo e per uscire dalla dimensione a volte angusta del dibattito nazionale, riporto di seguito una sintesi del confronto in corso negli Stati Uniti, ricorrendo a due recenti pubblicazioni che hanno avuto un forte riscontro oltreoceano e negli ambiento internazionali.

Sui web americani sono apparsi contemporaneamente due articoli molto informati e aggressivi: l’uno -di Anes Alic per Oilprice.com (v. https://oilprice.com/contributors/Anes-Alic ) – a sostegno del gas come pietra angolare in una transizione energetica che dà per scontata l’irraggiungibilità di zero emissioni di CO2 per la metà del secolo, l’altro – di Dan Gearino (dan.gearino@insideclimatenews.org ) – documentatamente convinto che il potenziale delle fonti naturali rinnovabili possa conseguire il traguardo di 1,5°C che l’IPCC giudica invalicabile.

1. Le “virtù” del Gas, col suo marchio “conservatore” e incompatibile con +1,5 °C

Anes Alic cerca di dimostrare sotto il profilo economico le convenienze per i proprietari dei pozzi fossili, detentori allo stesso tempo della rete energetica centralizzata e sostenuti da ingenti finanziamenti pubblici. I prezzi del gas naturale – afferma – sono diminuiti molto più rapidamente di qualsiasi altra fonte di energia. Nel 2018, il gas naturale è costato 1,72 volte in più rispetto al carbone mentre costava 2,2 volte in più solo nel 2014. Questa è la vera ragione per cui il gas naturale sta rapidamente sostituendo il carbone come combustibile preferito per la generazione di elettricità in centrale. La domanda di gas continua a crescere a un ritmo vertiginoso (4,9% nel 2018), mentre la spesa per infrastrutture di grandi dimensioni continua a fluire nel settore (~ $ 360 miliardi nel 2018). Anche i prezzi del GNL (liquido) sono diminuiti in media del 20% negli ultimi due decenni. (v. https://oilprice.com/Energy/Energy-General/Is-LNG-Actually-The-Future-Of-Energy.html ). Gran parte dell’effetto può essere dovuta ad una sovrabbondanza di approvvigionamento unita a una capacità delle condutture insufficiente per trasportare la merce. Anes suggerisce di creare subito possenti infrastrutture, fin che l’economia e la distrazione dei governi sull’applicazione della carbon tax lo consente Il blocco di interessi che ha fatto fallire qualsiasi accordo alla Cop 25 di Madrid (Usa, Brasile, India e Cina e Australia) sta nella convinzione che per due decenni, il gas a basso prezzo e finanziato da danaro pubblico – shale gas compreso – sarà la chiave del dominio dell’energia, se non dell’immenso potere geopolitico oggi più articolato e meno ostile agli USA. Infatti, il globo non deve più fare affidamento su un ristretto pool di produttori con una stretta nell’offerta, ma su addirittura su 21 nuovi produttori, con Stati Uniti e Australia che diventano importanti esportatori e con aumenti delle riserve accertate di gas naturale, mentre Il Qatar, sta diventando il più grande produttore mondiale di GNL, sottraendosi alle minacce di embargo dell’Arabia Saudita grazie ad un ammiccamento di Trump.

Il punto debole del risveglio del gas sta nelle inevitabili emissioni di CO2, ma il fatto che esse siano il 50% in meno rispetto al carbone e il 30% in meno rispetto al petrolio fa sì che venga sottovalutata una deprecabile e incontrollata crescita dei consumi: il gas finisce così coll’identificarsi con l’ossessione dello sviluppo, cementato in forme tecnologiche fortemente dipendenti e fortemente favorite dall’inerzia del sistema: ovvero il gas rappresenta oggi la reale resistenza al cambiamento.

2. Le Rinnovabili: competitrici più accreditate per un’innovazione sostenibile

La rete elettrica degli Stati Uniti, scrive Dan Geraino, è sulla buona strada per diventare molto più pulita già nel 2020. All’11 febbraio 2020, dei 42 Gigawatt di nuova capacità della elettricità da immettere nella rete USA proveniente dallo a Stato di New York, il 76% proviene già da energia eolica e solare, come si ricava dall’ultima serie di dati provenienti dall’Amministrazione dell’Energia USA ( https://www.eia.gov/ ).

Si tratta di una quota record, rispetto al 64% della nuova capacità aggiunta nel 2019. E lo sarebbe, nonostante la posizione ostile dell’amministrazione Trump nei confronti delle energie rinnovabili, comprese le tariffe sui pannelli solari importati dalla Cina e il rifiuto di estendere alcuni crediti d’imposta già programmati ai tempi di Obama, come afferma Joshua Rhodes, analista senior di Vibrant Clean Energy (v. https://www.vibrantenergymatters.co.uk/home/services/ ).

Ma il favore offerto al gas (in particolare al dannosissimo shale gas) fa sì che il mix di nuove centrali elettriche nel 2020 sia completamente dominato da eolico, solare e gas, con tutte le altre fonti di energia che si sommano a meno di un gigawatt, circa il 2%.

Ci sono tuttavia due impreviste novità: la prima sta nel fatto che la maggior parte della prevista crescita delle energie rinnovabili quest’anno – 18 Gigawatt – proviene da ben 107 progetti decentrati nei territori e sostitutivi di centrali fossili municipalizzate, i cui sviluppatori hanno iniziato la costruzione in tempo per beneficiare del credito d’imposta federale sulla produzione. La seconda è addirittura più sorprendente: i costi per lo sviluppo di parchi eolici sono diminuiti così tanto da essere le opzioni meno costose, anche senza sovvenzioni. Nientemeno che il Texas dei petrolieri, sorprendentemente, guida la nazione americana nella capacità di energia eolica e sarà anche il leader della nuova capacità eolica prevista nel 2020, con il 32% in totale.

Chi vincerà la sfida? Non ho dubbi che dipenderà dalla forza del movimento che combatte il cambiamento climatico. La tecnologia si adatta ai progetti sociali, oltre che alle convenienze economiche. Ci sono parchi eolici negli stati delle Pianure americane che operano ad alto livello per gran parte del giorno e della notte e ci sono impianti a gas che rimangono inattivi per la maggior parte del tempo. Poiché l’eolico e il solare continuano a rappresentare una grande percentuale di nuove centrali elettriche, gli operatori di rete dovranno adattarsi ai sistemi in esecuzione che dispongono di grandi quantità di energia intermittente. Google e l’utilità NV Energy stanno collaborando per un progetto di accumulo di energia solare ed energia che secondo le aziende è il più grande del suo genere al mondo.

Questo è il futuro e lo sarà, spero, anche da noi, al di là delle remore del PNIEC, forse già a partire dalla riconversione della centrale a carbone a Civitavecchia e dalla rinuncia alla metanizzazione della Sardegna.

Green New Deal: dinamica, occupazione e ambiente
di Roberto Romano (*)

Gli adeguamenti legati all’introduzione delle nuove tecniche di produzione sono fondamentali per il cambio verso un nuovo paradigma tecno-economico Green. E quindi è fondamentale riconoscere che ll’innovazione e la ricerca hanno un ruolo fondamentale nel determinare uno sviluppo che sia realmente sostenibile.

Preambolo

Quanto e come il green new deal europeo è un progetto capace di prefigurare un nuovo ciclo economico? Tecnicamente dovrebbero concorrere molti attori economici (pubblico, industria e servizi, consumi) e, soprattutto, sarebbe utile affrancarsi dallo schema causa-effetto. Infatti, “ la capacità di trasformare altri settori e attività risulta dall’influenza esercitata dai paradigmi tecno-economici ad essi associati, cioè da un modello di buone pratiche che definisce i modi più efficaci di uso delle nuove tecnologie dentro e oltre i nuovi settori. Mentre i nuovi settori si espandono per divenire motori della crescita per un lungo periodo, il paradigma tecno-economico che risulta dal loro uso guida una vasta riorganizzazione e una profonda crescita della produttività nei settori preesistenti” . I buoni propositi europei sono un inizio, ma la complessità del fenomeno sotteso necessità di un governo dei fini e dei mezzi.

La Commissione Europea ha delineato 4 propositi per le ridurre le emissioni e creare nuovi posti di lavoro: 1) diventare climaticamente neutra entro il 2025, 2) proteggere vite umane, animali e piante riducendo l’inquinamento, 3) aiutare le imprese a diventare leader mondiali nel campo delle tecnologie e dei prodotti puliti, 4) contribuire a una transizione giusta e inclusiva. Sebbene gli indirizzi siano condivisibili, lo schema “causa-effetto” europeo pregiudica l’interrelazione multisettoriale e l’intervento pubblico (addizionale). La comunicazione della Commissione Europea del 5 febbraio 2020, infatti, sottolinea che la finanza pubblica degli Stati membri deve essere orientata alla sostenibilità finanziaria.

Affrancandoci momentaneamente dalla policy europea, la statistica e la contabilità nazionale degli Stati non permette di interpretare le combinazioni possibili dell’output ambientale e sociale sostenibile. Per valutare e contemplare le opportunità per input e output ambientali servirebbe una matrice innovativa di R&S, investimenti, emissioni al momento indisponibile per l’insieme del sistema economico. In effetti, tanto più il green new deal diventerà paradigma, tanto domanda e offerta muteranno il contenuto tecnologico e il valore di beni e servizi.

Rispetto alla struttura e dinamica di PIL e CO2, precisamente la relazione che si osserva tra la crescita del PIL e la riduzione della CO2, occorre dare una spiegazione logica, uscendo dalla logica dei costi: dalla letteratura sappiamo che ciò che è un costo per una impresa è, in realtà, un reddito per un’altra impresa. Se una impresa realizza degli investimenti per ridurre CO2, oppure per risparmiare energia per unità di prodotto, la contabilità della società in esame registrerà questa operazione come un costo, ma un’altra impresa la contabilizzerà come un reddito. La macroeconomia è di grande aiuto: se serve un certo ammontare di investimenti per ridurre CO2, il PIL deve assolutamente crescere. In qualche misura la crescita del reddito è fondamentale per contenere e ridurre la CO2.

Cornice del green new deal

Sebbene la cornice europea del green new deal sembri puntuale nell’individuazione dei grandi settori di “struttura” e di “consumo”, la relazione tecno-economica che si instaura tra le diverse attività merceologiche non è puntualmente osservata. Al netto della dinamica dei consumi che non è mai uguale a se stessa (Legge di Engel), così come la dinamica del valore aggiunto per settore che emerge e declina assieme alla maturità del settore stesso, dobbiamo pur riconoscere che la ri-generazione dei settori considerati raramente è endogena. Semmai cambia la destinazione d’uso, se non addirittura la matrice della produzione, passando da bene di consumo a bene intermedio.

Analizzando l’impianto generale europeo relativo al green new deal possiamo categorizzare l’orientamento della Commissione.

La declinazione del progetto europeo permette di pervenire a due grandi insiemi, unitamente a un terzo insieme di supporto legato al ruolo della finanza che registra, ancora, dei deficit legati alla tassonomia dei titoli green. Il primo insieme attiene alla struttura economica in senso stretto; si tratta del 45% del valore aggiunto aggregato relativo all’Italia di energia, edifici, industria, mobilità; il secondo interessa la dinamica quali-quantitativa del “consumo” in senso ampio, più o meno il 30% del valore aggiunto aggregato. In generale l’Europa considera l’economia circolare, la quale è declinata dal produttore al consumatore, assieme a biodiversità ed eliminazione dell’inquinamento. Si tratta di “indicatori” di ben-essere “ambientale” correlati alla variazione quali-quantitativa della domanda di consumo. Rispetto all’impianto green new deal generale, dobbiamo considerare la così detta “digitalizzazione”, che la Commissione Europea considera come un fattore chiave per il new green deal; gli investimenti digitali (strategici) favorirebbero lo sviluppo e la diffusione delle migliori tecnologie digitali, delle soluzioni intelligenti, innovative e su misura per affrontare le preoccupazioni legate al clima. La digitalizzazione, sostanzialmente, veicola e trasferisce ricerca e sviluppo al mercato; è un fattore rilevante, ma presuppone un sapere e saper fare del che cosa, come e per chi produrre. In altri termini, la digitalizzazione senza “output e input” rimane una scatola vuota.

Primi risultati aggregati

La riflessione circa il green new deal necessita di un inquadramento generale. Utilizzando la statistica descrittiva per un arco di tempo abbastanza lungo (2004-2018) è possibile osservare quanto il mercato abbia:

  1. inglobato il processo di “de-carbonizzazione”;
  2. accentuato la profondità del così detto disaccoppiamento tra crescita del PIL, utilizzo di energia e riduzione di CO2.

Inoltre, possiamo comprendere se:

  1. l’occupazione ha beneficiato dal disaccoppiamento e in quale misura;
  2. gli investimenti siano o meno stati condizionati dalla riduzione di CO2 ed energia per unità di prodotto.

Sebbene il processo di disaccoppiamento non sia sufficiente per traguardare la neutralità climatica (europea), i segnali (di mercato) relativi al disaccoppiamento sono confortanti: la dinamica del PIL e degli investimenti non sono condizionati negativamente dalla costante riduzione di energia e CO2 . Semmai si osserva una qualche correlazione positiva. Ovviamente la crisi del 2008 condiziona l’analisi puntale; è stata una crisi “esogena” che non ha precedenti storici, se non nella crisi del ventinove. Nella crisi possiamo però intravvedere un paradosso: potrebbe avere delle inedite occasioni di sviluppo, più precisamente una opportunità per qualificare (ambientalmente) lo sviluppo. Anche l’occupazione non sembra condizionata della riduzione di energia e CO2. Non cresce quanto dovrebbe per recuperare i livelli del 2007, ma l’associazione più tutela ambientale uguale a meno lavoro è smentita dalla statistica . Il sospetto, invece, è quello di un potenziale occupazionale da consolidare; quando e se il nuovo paradigma tecno-economico (green new deal) si affermerà come tecnica superiore, ovvero quando domanda e offerta si troveranno a un livello sufficiente per affermarsi, sarà possibile creare tanto lavoro quanto se ne perde. Inoltre, dobbiamo considerare l’evoluzione della ricerca e sviluppo; la dinamica della R&S con il tempo è sempre più orientata alla soluzione dei fenomeni climalteranti , offrendo delle inedite occasioni di sviluppo per nuovi settori oggi non declinabili. Si pensi allo sviluppo di pannelli solari più performanti, alla capacità di stoccaggio dell’energia, allo sviluppo di nuovi materiali, allo sviluppo delle ricerche nel campo dell’aerodinamica, dell’edilizia che con il tempo abbandonerà le attuali tecniche di costruzione in favore di pre-fabbricati, alla bio-chimica e/o alla chimica verde. In effetti, nel tempo si è consolidata l’intensità tecnologica degli investimenti, contribuendo in modo significativo al disaccoppiamento tra PIL, uso di energia e riduzione di CO2 .

La stessa elettronica cambierà contenuto . Tanto più si integrerà nel sistema economico, tanto più sarà possibile modificare l’utilizzo di elettrodomestici, auto, mezzi pubblici, ecc. In questo senso, la digitalizzazione prefigurata dalla Commissione Europea potrebbe diventare uno strumento per velocizzare l’implementazione del nuovo paradigma tecno-economico.

L’analisi necessita anche di una riflessione puntuale sui servizi . Con il tempo non solo sono diventati sempre più “pesanti” nella contabilità economica, ma sono via via diventati parte integrante dei beni venduti e acquistati dai consumatori.

Struttura, green new deal e nuovo paradigma tecno-economico

Se la cornice interpretativa è sufficientemente solida, dobbiamo pur rappresentare questa evoluzione, ovvero spiegare come e quando è intervenuto il disaccoppiamento tra crescita economica e CO2, oppure tra crescita economica ed energia.

Proviamo a dare una rappresentazione delle implicazioni tecno-economiche relative alla rigenerazione della struttura produttiva. Infatti, se allarghiamo il significato economico di economia circolare all’industria, al netto degli interventi di modernizzazione delle industrie ad alta intensità energetica (acciaio e cemento), è inevitabile la sostituzione di materie prime con materie seconde, sebbene l’obbiettivo della Commissione sia sottodimensionato. Partendo dalle priorità indicate nel progetto europeo – prodotti tessili, edilizia, prodotti elettronici e plastica – abbiamo delineato come i settori oggetto dell’intervento europeo siano interessati da cambiamenti di struttura che superano, in meglio, gli orizzonti europei:

  • il tessile , nel nuovo tecno-paradigma, diventerà via via un bene intermedio e particolarmente utile in molti campi economici: edifici, automobili, sanità, sicurezza, ecc. Questa rappresentazione è utile per allargare la matrice interattiva degli obbiettivi europei;
  • l’edilizia sarà interessata da una “rivoluzione” nei materiali che modificherà in profondità il come e che cosa si costruisce. Non solo genereranno energia rinnovabile, ma le tecniche di costruzione e ri-generazione degli edifici esistenti saranno strutturalmente nuove rispetto al recente passato;
  • i prodotti elettronici realizzeranno valore aggiunto tanto più saranno integrati alle attività più o meno reali. Si pensi alla sanità, al controllo a distanza degli elettrodomestici e dei beni strumentali, al dispacciamento di energia, al governo delle città, ecc.;
  • la plastica diventerà un bene che attraverserà orizzontalmente tutta l’attività economica, dall’imballaggio, ai prodotti di catering, all’elettronica, all’elettricità, all’automotive, all’agricoltura, all’orticoltura, ai giocattoli, all’edilizia e al tessile, medicale, cosmesi, cantieristica, nuovi materiali, avionica, beni capitali (beni strumentali).

Queste esemplificazioni sono utili per delineare le potenzialità del green new deal se non adottiamo il modello “causa-effetto”. In effetti, le implicazioni sociali, ovvero gli effetti occupazionali, di reddito e salute e, non da ultimo, del patrimonio di conoscenze necessarie da mobilitare per creare i presupposti di uno sviluppo economico e sociale, coerente con le ambizioni europee, sono ben più ampie del risparmio energetico, di riduzione di CO2 e della ricerca e sviluppo necessari.

Conclusioni

L’innovazione e la ricerca hanno un ruolo fondamentale nel determinare uno sviluppo che sia realmente sostenibile. I Paesi che hanno aumentato in modo significativo la spesa in R&S durante questi anni, per stimolare la diffusione delle nuove tecnologie nelle industrie per lo sviluppo di nuovi prodotti e/o miglioramento di quelli esistenti, registrano anche un aumento significativo nei brevetti legati alle tecnologie ambientali. La maggior qualità di prodotti e servizi offerti ha portato a dinamiche di reddito e sviluppo differenti da paese a paese, con delle correlazioni coerenti tra riduzione della CO2 e crescita (innovativa) a seconda del settore analizzato. In un’economia non tutti i settori viaggiano di pari passo. La “Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata” e la “Manifattura” hanno giocato un ruolo primario nella diminuzione delle emissioni di CO2 e nell’attenuare gli effetti che ha la produzione sui cambiamenti climatici. Mentre questi settori hanno diminuito di una percentuale considerevole le proprie emissioni, i settori “Trasporto e magazzinaggio” e “Agricoltura, silvicoltura e pesca” non migliorano, acquistando un maggior peso nella bilancia complessiva.

Tanto più un’economia si sviluppa, tanto più sarà diversa la domanda nel ciclo economico successivo. Il settore manifatturiero ne è la prova. Questo avviene non solo per i consumatori che modificano la struttura della domanda al crescere del reddito, ma anche per i settori produttivi che domandano beni strumentali di nuova generazione caratterizzati da tecniche superiori. La legge di Engel in questo caso non viene interpretata solo come un fenomeno circoscrivibile ai beni di consumo, può invece descrivere un fenomeno che coinvolge l’insieme del sistema economico che cresce e si sviluppa anche in ragione della composizione del consumo aggregato.

Non tutto quello che permette di ridurre la CO2 viene sempre indicato come “Green”, ma spesso lo è, o per lo meno lo è in maniera superiore del bene che va a sostituire. Gli adeguamenti legati all’introduzione delle nuove tecniche di produzione sono fondamentali per il cambio verso un nuovo paradigma tecno-economico Green.

(*) ripreso da sbilanciamoci.info (pubblicato anche dal quotidiano ” il manifesto”)

LE VIGNETTE – scelte dalla “bottega” – SONO DI MAURO BIANI.

 

Redazione
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