«Potere al popolo»: verso…
… l’assemblea nazionale (26 e 27 maggio): riflessioni e proposte di Franco Astengo
“Potere al Popolo” nelle persone dei suoi originari promotori convoca un’altra assemblea nazionale plenaria con al centro, se non ho capito male il tema della strutturazione del soggetto politico.
Mi permetto allora di inviare ad alcuni interlocutori che ritengo interessati alla materia qualche osservazione destinata a un solo fine: quello di contribuire – appunto – alla formazione di una soggettività definita che mi ostino tenacemente a definire come “partito”.
In questa direzione ritengo di poter indicare due punti di premessa:
1) E’ necessario richiedere un atto di grande generosità politica da parte dei soggetti già organizzati che fin qui hanno partecipato a “Potere al Popolo”. Il patrimonio organizzativo, di consenso e di aggregazione di cui si dispone va messo a servizio di un progetto politico che traguardi l’esistente e lo superi nell’idealità e nella pratica quotidiana. Si tratta di un’affermazione che svolgo avendo ben presente una questione, quella dello “spazio politico” che ritengo debba essere analizzata al meglio proprio per adempiere a quest’atto di generosità politica che mi pare imprescindibile;
2) Non si può vivere di Assemblee Nazionali in Assemblee Nazionali e magari campeggi estivi, ma è necessaria una risposta di strutturazione sul territorio, magari attraverso un meccanismo di delegati che prefiguri una strategia organizzativa di tipo consiliare e che comunque presidi il “locale” in nome di Potere al Popolo con la corrispondenza verso un “Centro” che l’Assemblea appena convocata dovrebbe comunque, sia pure in via provvisoria, indicare. Passaggio successivo però un Congresso vero e proprio, non un raduno di una “folla” (tralascio citazioni sul termine “folla” e su quello “moltitudini” sul quale secondo termine nutro una sana diffidenza).
Passando ad alcune note di merito i temi da affrontare mi paiono essenzialmente questi:
1) Nella stragrande militanza delle donne e degli uomini che dichiarano di essere rimasti a militare a sinistra permangono le incrostazioni e le tossine accumulate negli anni dell’introietizzazione del gigantesco processo di rivoluzione passiva verificatosi almeno nel corso degli ultimi 30 anni. Emerge inoltre intorno a noi un pauroso arretramento culturale registratosi da un lato, attraverso l’abbandono degli strumenti di studio politico collettivo e secondo dell’affermarsi di un ceto intellettuale separato sul quale ha avuto grande influsso da un lato una scuola filosofica che definirei comunque destrutturalista (da Derrida a Negri, tanto per intenderci). Abbiamo subìto anche l’affermarsi di una scuola economica comunque anti-marxista e ve ne sono tracce anche negli interventi di compagni che si occupano di questa materia e che non possono essere certo definiti marxisti se non a parole. Manca insomma il rigore teorico su entrambi i versanti delle discipline che dovrebbero rappresentare i riferimenti e le fonti primarie dell’elaborazione politica di una possibile sinistra d’alternativa.
2) Chi è rimasto sul versante di una presunta ortodossia lo fa su schemi ormai superati e, comunque, interni a quel quadro di “conservatorismo morale” che rappresenta il vero e proprio freno allo sviluppo di un’idea e di un’ipotesi politica.
Scritto questo soltanto per segnalare l’esigenza di una ripresa sul piano teorico scendo nella parte più propriamente politica.
1) Sul piano internazionale, finite le infatuazioni movimentiste e globaliste dell’altro mondo possibile proprio la qualità degli scontri in atto ci dice che la sola parola d’ordine possibile è “socialismo o barbarie”, che non ci sono vie di mezze e che la via da percorrere è quella dell’internazionalismo.
2) Sul piano interno si sta filando a tutto vapore verso il fascismo, prima di tutto sul piano culturale che politico, praticamente senza colpo ferire. In questo caso siamo di fronte ad un gigantesco ritardo d’analisi anche e soprattutto sul piano sindacale perchè lì, nel mondo del lavoro, il fascismo è già operante mentre si sta programmando di trasferirlo sul piano più propriamente politico.
Mi permetto quindi di lanciare questa proposta: MANIFESTO PER UN SOGGETTO POLITICO
1) Emerge, in Italia e fuori d’Italia, l’esigenza di lavorare sia sul terreno teorico sia su quello immediatamente politico, per la ricostruzione di una soggettività di sinistra comunista, collegata a precise istanze che derivano dalla nostra storia, all’identificazione nell’attualità di precisi filoni culturali di riferimento, alla progettazione di adeguate iniziative politiche sia al riguardo della struttura del soggetto sia sul piano progettuale – programmatico. La qualità stessa della gestione capitalistica della crisi (che abbiamo tante volte analizzata come orientata nel senso complessivo della “ricollocazione di classe” ed espressione di una “nuova repressione”) impone un discorso di questo tipo;
2) Un lavoro da impostare seguendo filoni ben precisi di orientamento proprio sul piano teorico: partendo, ovviamente, dall’Italia perché qui siamo chiamati ad agire. Ripropongo, quindi, l’utilizzo – per quanto possibile – il filone della “sinistra comunista” italiana da Gramsci al sindacato dei Consigli. E’ evidente che, pur considerata tutta l’importanza dell’elaborazione portata avanti dalla sinistra comunista in Italia (che qui è presa in considerazione soprattutto per via della “capacità storica” di realizzare un’autonomia non di facciata dall’imposizione sovietica) occorra – anche sul piano dello studio – un collegamento con riferimenti internazionali posti sul piano più alto nella storia del marxismo. Senza cadere nel sociologismo della Scuola di Francoforte (origine, a mio giudizio, della mancata “incidenza politica” del ’68) e tenendo fermi due punti: il prevalere della tensione etico-politica sulla banalità dell’economicismo e la capacità, sempre e comunque, di un’espressione piena di “critica della modernità”. “Critica alla modernità” che deve essere espressa anche rispetto all’utilizzo di massa dell’innovazione tecnologica che sta verificandosi all’interno del filone del “consumismo individualistico” e dell’isolamento soggettivo;
3) Il primo orizzonte da scrutare riguarda la visione internazionalista nella lotta per la liberazione dei popoli. Senza offrire alcun modello (è questa la differenza con la lotta anticoloniale della prima metà del ‘900 fino agli anni’60 quando si compì la liberazione dell’Africa) è necessario mantenere questo tipo di tensione internazionalista rispetto alle grandi lotte popolari in atto, a tutte le latitudini, per l’affrancamento dalla gestione capitalistica della crisi e la fuoriuscita dai meccanismi di vero e proprio “soffocamento” della democrazia. Ognuno con le proprie specificità: senza cadere, quindi, nell’errore del considerare il tutto “movimento dei movimenti” e collocarsi acriticamente al loro livello (questo sì sarebbe semplicemente adeguamento a una presunta “modernità”);
4) Per quel che riguarda il “caso italiano” (dizione da rivalutare: in senso opposto però al significato che aveva assunto tra gli anni’60-’70) sono almeno tre i punti sui quali soffermarci prioritariamente: il primo riguarda l’omologazione culturale tra le forze maggioritarie del sistema politico, sulla base del quale si sta costruendo un vero e proprio “regime”, il secondo riguarda la degenerazione nella qualità della democrazia italiana, sia rispetto al tema europeo (che va affrontato specificatamente come non faccio in quest’occasione) sia rispetto alla logica della riduzione del rapporto tra politica e società in nome dell’eccesso di domanda; il terzo riguarda la difficoltà politica che ha investito tutta l’area della sinistra alternativa. Ma movimentismo e rivendicazionismo che appaiono essere, alla fine, l’altra faccia della medaglia (o forse la complementarietà degli elementi, davvero rozzi, che hanno portato al successo del movimento 5 stelle) debbono essere affrontati con rigore sulla base di un’analisi delle nuove dimensioni di classe e con la precisione dei riferimenti teorici e politici.
5) Il solo punto di partenza risiede nell’espressione piena di un’identità dalla quale è possibile far discendere una visione e una pratica di egemonia politica. Visione e pratica dell’egemonia politica che stanno alla base della necessità di una proposta di strutturazione che metta a frutto il lavoro di questi mesi, lo ponga all’altezza delle contraddizioni in atto e superi il rischio di una sterilità oggettiva dello “statu quo” anche sul piano organizzativo.
LE IMMAGINI – scelte dalla redazione della “bottega” – sono di Vincenzo Apicella.