Poveri oggi
articoli di Susanna Ronconi, Giuseppe Rizzo, Mauro Armanino
con le storie di Maria Teresa Giliberto, Alessia Episcopo, Marco L, Susmita, Patrizia Piras, Antonio Pretta, Carlo Mazzioli: raccolte da Claudio Reale, Alice Facchini, Luigi Mastrodonato, Monia Meli, Giuseppe Rizzo
Articoli ripresi da Internazionale, Comune-info, Diritti Globali
Sorvegliare e punire. Il controllo autoritario dei poveri
16° Rapporto sui diritti globali, la sintesi del Focus del secondo capitolo sulle politiche sociali
di Susanna Ronconi (*)
Dal 16° RAPPORTO I DIRITTI GLOBALI – Un mondo alla rovescia
2° Capitolo – POLITICHE SOCIALI
Il Focus – LA SINTESI
Odio, criminalizzazione, esclusione sociale non possono che essere le parole chiave necessarie nel 2018 per analizzare e capire quanto rapidamente sta andando avanti, nel nostro Paese e nell’Unione, un processo di “governo forte”, “disciplinare”, di questi temi sociali cruciali. Sul tema delle migrazioni l’odio razziale è stato sdoganato dall’alto, con un ruolo assai incisivo della politica. Non è diverso per le povertà. Quell’inclusione che, nel vecchio modello, valeva la pena perseguire a fini di coesione e pace sociale, oggi non solo appare troppo onerosa (il famoso o/o del liberismo dominante, o spendi in welfare o destini allo sviluppo o, meglio, al profitto), ma anche tutto sommato non dovuta. I poveri, siano loro a vergognarsi della loro povertà, e a esserne responsabili – colpevoli – individualmente. I poveri divenuti strutturali e non meritevoli di investimento, vanno tuttavia governati. Come noto e verificato, a meno welfare corrisponde più controllo disciplinare, e anche sanzionatorio. Il processo di controllo disciplinare e di criminalizzazione della povertà, il ritorno delle “classi pericolose”, è un processo in atto anche in Europa ormai da tempo. In più, l’ondata populista in Europa ha, nel suo discorso pubblico, un forte ancoraggio all’aporofobia, il rifiuto dei poveri, e si sta giocando la carta della produzione di normative antipoveri alla ricerca di consenso. La povertà, quella visibile soprattutto, instilla in chi povero non è un senso di incertezza e paura, e la paura è strumento tipico dei totalitarismi.
Escludere e punire in Europa. Divieti e sanzioni si stanno diffondendo in tutta l’Unione Europea, soprattutto attorno all’accattonaggio, come testimonia anche un’interpellanza al Parlamento Europeo presentata dalla rete delle ONG europee che lavorano con i senza dimora, a difesa dei loro diritti. In Ungheria, ad esempio, è in corso da otto anni il trattamento sanzionatorio dei senza dimora che segna una nuova, vergognosa, tappa nel giugno del 2018, con la proposta di Viktor Orbán di inserire nella Costituzione un emendamento che vieta di vivere nei luoghi pubblici. Formalmente il governo sostiene che sia un modo per garantire a tutti una casa o un riparo, in realtà i servizi sono insufficienti e sempre meno sostenuti dallo Stato. In quel Paese, inoltre, sono già in vigore norme di penalizzazione, e relative sanzioni, per chi dorme in strada: un programma obbligatorio di lavori socialmente utili, o, in alternativa, una multa. Se la persona non ottempera né all’uno né all’altro, scatta la sanzione penale, e alla terza volta si va direttamente in carcere. Il Regno Unito ha adottato una normativa secondo cui è possibile allontanare forzatamente i cittadini EU se trovati a dormire in un luogo pubblico, in quanto questo comportamento violerebbe le norme sulla residenza.
Senza dimora europei, l’escalation. Le cifre delle persone senza dimora nell’Unione Europea sono in drammatico aumento. I soli Paesi a non registrare un incremento significativo sono Norvegia e Finlandia. In tutto il resto del continente c’è allarme rosso: tra il 2014 e il 2016 +145% in Irlanda e +150% in Germania, con 860.000 homeless censiti e +20,5% in Spagna; +169% nel Regno Unito negli ultimi 10 anni; tra il 2008 e il 2016 +96% in Belgio e +32% in Austria; in Francia in un solo anno la crescita è del 17%. Questo trend riguarda anche i minori: sono 3.333 i bambini homeless in Irlanda nel 2017, +276% rispetto al 2014; in Olanda sono 4.000 nel 2015, +60% rispetto al 2013; in Francia, dove nel 2012 risultano più di 30.000 minori senza tetto, il 33% degli utenti di strutture per homeless sono under18, il gruppo più numeroso. In media, le persone restano nella condizione di senza dimora per più di 10 anni, e come conseguenza di un così prolungato periodo di deprivazione, l’aspettativa di vita è di 30 anni inferiore rispetto alla media della popolazione.
Anche contro i senza dimora è stato sdoganato il razzismo. Uno studio spagnolo segnala una percentuale del 47% delle persone senza dimora che sono state bersaglio di hate crimes, di cui l’87% non ha denunciato l’accaduto; tra le donne homeless il 26% ha subito qualche forma di violenza fisica. Secondo un’altra ricerca, ad agire discorsi o comportamenti di odio sono soprattutto uomini (l’87% dei casi), giovani (il 57% degli autori ha una età tra i 18 e i 35 anni); 10% dei casi è imputabile ad agenti di polizia e l’8% a persone dichiaratamente naziste. Un progetto valido di aiuto ai senza tetto che si sta diffondendo è Housing first, che separa l’accesso a una casa dalle altre forme di sostegno. Non è richiesto ai senza tetto di aderire a percorsi o servizi psichiatrici o per le dipendenze o per l’alcol, né devono dimostrare di essere astinenti, secondo un approccio di riduzione del danno. Housing First è orientato alla recovery, cioè sostiene e incoraggia le persone a non mettere in atto comportamenti che possano causare loro danno. Oggi è adottato in larga parte dell’Unione, soprattutto in Danimarca, Finlandia, Irlanda, Francia, Olanda, Portogallo, Austria, Regno Unito. Anche in Italia si sta diffondendo questa strategia: all’inizio del 2017, sono censiti 28 progetti in 10 regioni, dal Piemonte alla Sicilia.
Italia. Dal Pacchetto sicurezza al decreto Minniti. In Italia le regole contro i senza fissa dimora sono appannaggio delle città e dei sindaci, con l’ondata delle ordinanze seguite a una innovazione legislativa nazionale, quella legge n. 125 del 2008 che, all’articolo 54, attribuisce ai sindaci il potere di deliberare in difesa della incolumità pubblica e della sicurezza urbana. Nel 2017 arriva il decreto Minniti sul “DASPO urbano”. Il decreto è figlio dell’incattivimento dei tempi e di una strategia di governo delle città di lungo periodo, sancisce l’esclusione di gruppi sociali specifici che vivono in una condizione di marginalità, di disagio sociale, di povertà, o anche solo di “differenza” sociale o culturale. Prevede sanzioni e divieti per condotte specifiche: divieti di stazionamento e di occupazione di spazi, impedimento alla libera accessibilità e fruizione di infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano o extraurbano e delle relative pertinenze; e di chi sia in stato di ubriachezza, compia atti contrari alla pubblica decenza, eserciti il commercio abusivo, eserciti attività di parcheggiatore o guardiamacchine abusivo; sanzione amministrativa pecuniaria (100-300 euro) e ordine di allontanamento in violazione dei divieti di stazionamento, la recidiva comporta un divieto di accesso a una o più delle aree espressamente indicate per un massimo di sei mesi (il DASPO urbano, decisione del questore); in caso di reati, l’arresto in flagranza può avvenire in maniera differita, sulla base di documentazione video fotografica entro 48 ore dai fatti. Insomma, a gruppi sociali specifici tra i più svantaggiati viene applicato un sistema repressivo che si sottrae alle regole e alle garanzie del diritto penale e a questo si aggiunge, ampliando a dismisura l’area del controllo e della sanzione destinata ai poveri.
L’informazione indipendente fornisce i dati dell’applicazione del decreto: nell’arco del periodo febbraio-dicembre 2017 risultano 2.104 provvedimenti, l’85% sono ordini di allontanamento (1.781) 305 sono divieti di accesso in aree urbane e 18 divieti di accesso in esercizi pubblici. Il trend è in crescita nel corso dei mesi, soprattutto della misura predominante, che viene comminata soprattutto al Sud (il 64% degli ordini di allontanamento avviene in Sicilia, 546, Lazio, 530 e Campania, 495) e nelle grandi città (Palermo, Roma e Napoli); il 10% in Veneto (212), soprattutto a Venezia, il 4% in Calabria, a Reggio Calabria (86). Ai minimi, Trentino-Alto Adige (un solo provvedimento) e Marche (5). Le stesse tre regioni del Centro-Sud totalizzano la gran parte dei divieti di accesso urbano (il 73% del totale, 222 provvedimenti), seguite da Lombardia (13%, 39) ed Emilia-Romagna (8%, 20). La durata prevalente del divieto di accesso è di 5 giorni o meno (il 73%), ma non sono pochi i provvedimenti che arrivano a 2-3 mesi (18%) e c’è un 6% che arriva ai 6 mesi. Si tratta innanzitutto di senza dimora, nativi e migranti, colpiti per comportamenti quali bivacco (dormire), atti osceni in luogo pubblico (urinare), consumo di bevande in luogo pubblico, improprio utilizzo delle fontane pubbliche per lavarsi. Poi venditori ambulanti e giocolieri, parcheggiatori, persone rom che fanno colletta. Secondo gli ultimi dati ISTAT (che risalgono però al 2014) i senza casa in Italia sono 50.724, per circa il 60% stranieri, per l’85% maschi, per il 56% al Nord. E il 76,6% vive da solo. Si trovano soprattutto nelle grandi città e nei capoluoghi: Roma, Milano, Palermo, Firenze, Torino, Napoli, Bologna. Solo un terzo deve vivere di collette, ben il 62% trova lavori e lavoretti e accumula tra i 100 e i 500 euro al mese, il 14% ha problemi di alcol, droghe e disturbi psichiatrici. Secondo la Caritas (che ne ha censiti 26 mila nei suoi Centri d’ascolto), hanno una età media di 43 anni, ma ci sono anche molti giovani tra i 18 e i 34 anni, più di un quarto del totale. Una rilevazione del 2017 della Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora – l’organismo di coordinamento tra gli enti che si occupano di senza casa – mette in evidenza un trend di sviluppo della condizione homeless, secondo cui le categorie in aumento sono quelle dei più giovani (inclusi minori stranieri non accompagnati), delle donne, dei lavoratori poveri e di persone che hanno malattie gravi o terminali.
Le architetture “ostili”. Pensate per impedire il sostare, il sedersi, il dormire è una tendenza comune a tutte le città europee. La politica architettonico-securitaria è ormai dispositivo di governo delle povertà urbane. A Londra, ad esempio, è nata Camden Bench, una panchina di cemento che ha bordi arrotondati e una pendenza che fa sì che dopo breve tempo risulti scomodissimo restarvi seduti, tanto meno vi si può dormire o stazionare a lungo. La gamma è ormai ampia: panchine con braccioli nel mezzo; sedute curve, segmentate e inclinate; pavimentazioni irregolari e con sporgenze e aculei in ferro; muretti e gradini con spuntoni e aculei; angoli barricati; divisori stradali e dei marciapiedi. L’Italia non fa eccezione. Antesignana di tutte le panchine anti-sonno fu quella disegnata per il sindaco Flavio Tosi di Verona, già nel 2007, dotata di braccioli che ne dividono la superficie e impediscono di sdraiarsi. Panchine come quelle sono proliferate in tutto il Paese, accompagnate dalle “non-panchine” alle fermate dei bus, dove ci si può solo appoggiare e non sedersi.
A mano armata. I frutti violenti del securitarismo. Con la crescita dell’enfasi securitaria, dell’insicurezza percepita e delle retoriche giustizialiste, cresce la quota di violenza endemica nella società, i cui bersagli sono sempre più gli esclusi e i migranti.
Le ricadute sulla polizia municipale delle normative sulla sicurezza urbana hanno portato verso una sua maggiore militarizzazione e una centralità della sua funzione anticrimine. Il processo di armamento delle polizie locali è in crescita: tra i capoluoghi di provincia solo nel 12% dei casi la polizia non è dotata di armi. Nel restante 88%, 90 città, l’armamento è andato aumentando dal 2012, anno in cui era armato l’85% del personale, nel 2014 era l’87%, nel 2016 il 92%. Complessivamente, nei capoluoghi circolano nella polizia municipale 27.308 armi. Il Taser, la “pistola elettrica non letale” i cui impulsi elettrici (50 mila volt!) paralizzano momentaneamente (ma a volte definitivamente…), dal 5 settembre 2018 viene sperimentata come arma di ordinanza per polizia, carabinieri e Guardia di finanza. Inoltre, in base al decreto Salvini su sicurezza e immigrazione, sempre del settembre 2018, anche i Comuni oltre i 100 mila abitanti potranno dotare di Taser la polizia municipale, decidendolo con un semplice regolamento comunale. La logica dichiarata è quella di intervenire a mano armata limitando i rischi delle armi da fuoco, ed è una logica prettamente adeguata all’ordine pubblico sulle strade metropolitane, ma secondo molte associazioni per i diritti umani, guardando all’esperienza in USA e Canada, l’effetto sarà ben diverso: il Taser spesso non è utilizzato dalle polizie come alternativa meno pericolosa rispetto all’arma da fuoco, ma come alternativa più incisiva ad altri mezzi coercitivi come manette o manganelli. Dunque, con un possibile uso anche in ordine pubblico o, appunto, contro poveri o emarginati che “disturbino”. I casi di morti correlate all’utilizzo del Taser negli USA dal 2001 a oggi sono circa mille, il 90% erano persone disarmate, con problemi di salute dovuti anche all’utilizzo di alcol o droghe, o anche solo in stato di stress e fatica dopo una corsa. Amnesty International denuncia «la facilità con cui il Taser può rilasciare scariche multiple, che possono danneggiare anche irreversibilmente il cuore o il sistema respiratorio».
Il razzismo democratico. Il senso comune e lo hate speech contro poveri e diversi ha “liberato” la violenza contro gli ultimi. Hanno riempito le cronache gli attacchi razzisti a persone di colore, compiuti come veri e propri raid, armi in pugno. Ma nel 2018 c’è da registrare anche la pratica diffusa di “tiri al bersaglio” con armi pneumatiche ad aria compressa, su cui i responsabili hanno un atteggiamento superficiale e autoassolutorio, come si trattasse di ragazzate. Sono 11 i casi noti nell’estate 2018, tutti ai danni di persone straniere. La corsa al porto d’armi è già scattata da tempo. La Lega avanza sulla riforma della legittima difesa, mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha già onorato il patto con la lobby delle armi (un indotto di 2.264 imprese, un giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro, cioè lo 0,44% del PIL, 87.500 occupati). Il 10 agosto 2018 viene emanato il decreto n. 104 che porta da 6 a 12 le armi sportive che si possono detenere, arrivano a 10 le armi lunghe e a ben 20 quelle corte e cresce anche il numero dei proiettili, si allarga dismisura il numero delle tipologie di persone che possono detenere un’arma da guerra, grazie all’ampliamento della platea dei “tiratori sportivi”.
La politica degli sgomberi. Un altro esempio di questo spirito securitario sono gli sgomberi di abitazioni o luoghi occupati abusivamente. Le ragioni del moltiplicarsi di occupazioni di stabili sfitti sta tutta nei numeri, delle povertà in generale, e in quelli delle mancate politiche per la casa, in particolare. Secondo dati del ministero dell’Interno, nel 2017 sono state emesse 59.609 sentenze di sfratto, e di queste ben il 90% è per morosità incolpevole, che vuol dire impossibilità manifesta degli inquilini di poter far fronte alle spese dell’affitto. Occupare case sfitte o strutture in disuso, dunque, è l’unica alternativa per molte famiglie italiane, oltre che per molti migranti e richiedenti asilo. Il primo settembre 2018 Salvini ha firmato una circolare che, rifacendosi al decreto Minniti, valuta positivamente l’azione tempestiva per prevenire nuove occupazioni, ma invita a fare meglio: cioè, ad attivare attività info-investigative per prevenire possibili invasioni. Prende il via, dunque, il nuovo corso: vengono sgomberati rifugiati, migranti, italiani, rom, senza alcuna alternativa, tanto che seguono immediate nuove occupazioni, in un crescendo di tensione e conflittualità sociale.
I campi rom. In Italia 26.000 persone rom vivono in emergenza abitativa nei campi, 16.400 in 148 insediamenti formali e circa 10.000 in campi informali. Il 73%, 7.000 persone, è disseminato in cinque regioni: Campania, Lazio, Piemonte, Puglia e Lombardia. Le politiche municipali oscillano tra tolleranza di situazioni anche informali a cui non hanno soluzioni da offrire, e loro parziale regolamentazione, e politiche dello sgombero forzato, spesso senza alternative e dunque destinato a riprodurre e disseminare altri campi informali. Il 2017 si caratterizzano per un elevato numero di sgomberi forzati in molte città, condotti spesso in deroga alle tutele procedurali previste dal diritto internazionale. Gli sgomberi forzati sono stati 230, 96 nel Nord Italia, 91 nel Centro e 43 nel Sud; a Roma sono stati 33 e a Milano 25. Eguale tendenza si verifica nel 2018.
Le politiche sulle droghe. Nel 2014 la Corte Costituzionale boccia la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, e si ritorna al testo della legge 309 del 1990. Non una rivoluzione, ma almeno l’abrogazione di alcune tra le misure più afflittive. Con l’articolo 13 del decreto Minniti si ritorna indietro. Nei confronti di soggetti condannati (anche solo in appello) nell’ultimo triennio per reati di produzione, traffico, cessione e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, il questore ha il potere di disporre il divieto di accesso o anche stazionamento nei locali pubblici o nei pubblici esercizi. La violazione delle misure comminate è punita con una sanzione pecuniaria amministrativa (assai elevata, tra 10 e 40 mila euro) e con la sospensione della patente. E si torna al vecchio 75 bis della legge Fini-Giovanardi, che prevedeva appunto una serie di misure comminate dal questore verso persone con condanne anche non definitive per reati sugli stupefacenti e giudicate pericolose per la sicurezza pubblica. Le misure del decreto Minniti sono destinate alle figure minori, quelle di strada, spesso consumatori che spacciano su modica scala o comunque piccoli spacciatori. Come sempre, la gran parte dei dispositivi penali sulle droghe toccano i pesci piccoli e non intaccano il mercato nero e il grande traffico. Con il decreto Minniti riprende a salire la percentuale di chi entra in carcere per detenzione di sostanze, il 30% degli ingressi, 14.139 su 48.144, l’8,5% in più rispetto all’anno precedente, mentre coloro che sono incarcerati per traffico sono solo 4.981, e per associazione finalizzata al grande traffico 976. Le persone tossicodipendenti detenute sono una su quattro, 14.706 su 57.608, anche questo un trend di nuovo in ascesa dopo il calo seguito all’abrogazione della legge Fini-Giovanardi. Ma è il dato delle persone obbligate al colloquio prefettizio e sottoposte a sanzioni amministrative a dare il polso dell’aria che tira: per detenzione ai fini del solo consumo personale (art. 75), vengono sanzionate nel 2017 38.613 persone, con ben +18% sul 2016 e +39% sul 2015. I minori vengono colpiti quattro volte più del 2015, i consumatori di cannabis rappresentano l’80%. Le sanzioni comminate, 15.581 (+15%), colpiscono il 43% di quanti inviati dal prefetto, a fronte di un’irrilevanza degli invii a un percorso terapeutico, 86 in tutto. Sulla scia di Minniti, insieme al DASPO urbano per i pesci piccoli del mercato delle droghe, il nuovo governo gialloverde lancia un piano law&order per le scuole nella stessa logica di privilegio degli strumenti repressivi che tutta la politica del governo delle città esprime. Scuole sicure, direttiva del ministero dell’Interno che punta a debellare lo spaccio nelle scuole grazie a videosorveglianza, polizia e cani, investendo 2,5 milioni di euro di cui solo il 10% a favore di un lavoro educativo.
Hate speech, cresce il razzismo. La Mappa dell’Intolleranza, stilata da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, segnala per il 2017-2018 una decisa crescita dei discorsi d’odio on line, soprattutto per xenofobia, islamofobia e antisemitismo, tra le categorie analizzate (che includono anche donne, persone omosessuali e diversamente abili). Le analisi si basano sui messaggi su Twitter in due periodi, tra maggio e novembre nel 2017 e tra marzo e maggio nel 2018. I migranti sono il secondo target dell’odio: i messaggi xenofobi sono il 32,45% del totale nel 2017 e il 36,93% nel 2018, con un incremento in pochi mesi del 4%. Il contesto è quello di un aumento esponenziale dei casi di discriminazione rilevati, di cui il 69% avviene appunto per ragioni razziste, dai 540 del 2000 ai 2.652 del 2016, 5 al giorno. Gli italiani pensano per il 42% che gli stranieri siano troppi; sono in realtà poco più di 5 milioni (5.144.440 immigrati regolarmente residenti, corrispondenti all’8,5% della popolazione totale, secondo il XXVII Rapporto della Caritas sull’immigrazione), che portano l’Italia a collocarsi al 5° posto in Europa e all’11° nel mondo. Il 24% vorrebbe respingerli tutti, il 44% vorrebbe accogliere solo rifugiati. Se poi si parla di rom, l’Italia vanta il primato negativo degli haters: l’82% li odia, nessuno peggio di noi. Le grandi città sono le più razziste e xenofobe, Roma, Milano, Napoli, Firenze, Torino.
Tutti i bersagli dell’odio on line. Le donne innanzi tutto, poi gli islamici, verso cui cresce l’odio in tutto il Paese. Nuovo primato negativo, gli italiani antisemiti, il 21%, i peggiori in Europa. Ci sono 300 siti web antisemiti, di cui 20 negazionisti e 160 profili Facebook. Il 40% delle persone LGBT dichiara di aver subito nell’ultimo anno una discriminazione, soprattutto a scuola e sul posto di lavoro, sono il 60% gli italiani che vorrebbero “maggior discrezione” da parte delle persone LGBT, il 30% pensa sia meglio nascondere la propria omosessualità, il 41% non vorrebbe una persona omosessuale come insegnante. Soprattutto al Sud e in Lombardia permane l’odio verso i disabili. Le grandi città sono le più intolleranti: presi di mira sindrome di down e disabilità gravi. Infine, il barometro dell’odio cresce in tempi di campagna elettorale: in tre settimane 787 segnalazioni, un messaggio di odio ogni ora. Riguardano 129 candidati di cui oggi 77 siedono in Parlamento. Il 43,5% degli hate speech viene da leader politici, primato alla Lega (50%), 27% Fratelli d’Italia, 13% Forza Italia, 4% Casa Pound, il 3% L’Italia agli Italiani e 2% Movimento 5 Stelle. Il bersaglio privilegiato, il migrante (91%), ma ce n’è anche per persone LGBT (6%), rom (4,5%) e donne (1,8%). Il 7% delle dichiarazioni incita in modo esplicito alla violenza.
(*) Fonte: 16° Rapporto sui diritti globali
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Cosa significa essere poveri oggi in Italia
di Giuseppe Rizzo
Se nel 2018 le persone più ricche d’Italia avessero voluto incontrarsi, avrebbero potuto organizzare una cena. I 21 commensali avrebbero potuto contare su una ricchezza di circa 107 miliardi di euro, pari a quella del 20 per cento più povero della popolazione. Se gli italiani che vivono in una situazione di povertà assoluta avessero voluto fare lo stesso, l’operazione sarebbe stata un po’ più complicata.
Le persone che non riescono a permettersi un’alimentazione adeguata, una casa riscaldata e il minimo necessario per vestirsi o curarsi sono cinque milioni. È come se gli abitanti di Roma, Milano e Napoli dovessero trovare una città in grado di ospitarli tutti, o se i residenti in Sicilia decidessero di spostarsi in massa verso un altro luogo.
“La profonda disuguaglianza ha un pedigree estremamente lungo”, scrive lo storico Walter Scheidel, che nel libro La grande livellatrice ripercorre l’intreccio tra disuguaglianza e violenza dalla preistoria a oggi. “Duemila anni fa, nell’impero romano le maggiori fortune private equivalevano a circa 1,5 milioni di volte il reddito annuo pro capite medio, all’incirca lo stesso rapporto che intercorre oggi tra Bill Gates e l’americano medio”.
A metà del 2018 il 20 per cento più ricco degli italiani possedeva circa il 72 per cento della ricchezza nazionale. E nelle mani del 5 per cento più ricco c’era la stessa quota di ricchezza del 90 per cento più povero.
La situazione è peggiorata negli ultimi dieci anni a causa della crisi economica cominciata nel 2008. La ricchezza dell’1 per cento degli italiani più ricchi ha continuato a crescere – facendo registrare un calo solo tra il 2016 e il 2017 – mentre le persone in difficoltà sono aumentate.
Negli ultimi anni sono aumentati anche i minori che vivono in situazioni di povertà. Save the children ha calcolato che il loro numero è triplicato: “Nel 2008 appena un minore su 25 (il 3,7 per cento) era in povertà assoluta, un decennio dopo si trova in questa condizione ben 1 su 8 (12,5 per cento). Sono numeri che spaventano: nel 2007 i minori in povertà assoluta erano circa mezzo milione, oggi sono 1,2 milioni”.
A chi pensa che questa situazione sia circoscritta, l’Oxfam ricorda che in Italia una persona su quattro è a rischio povertà. Il confine tra chi ce la fa e chi non ce la fa è molto più sottile di quanto si creda. Le statistiche aiutano a scattarne una fotografia, ma da sole non bastano a misurarlo, a coglierne le sfumature, a capire cosa significa scivolare, o precipitare, da una parte all’altra. Le storie di chi è stato in difficoltà, o lo è ancora, aiutano a farlo.
Nei loro racconti ci sono sempre dei momenti in cui si sente un rumore, come di qualcosa che va in frantumi: un lavoro, una famiglia, una speranza. Spesso le persone sono lasciate sole a raccogliere i cocci, qualche volta trovano un aiuto che riesce a farle rimettere in piedi. Il reddito di cittadinanza ha restituito a tanti un po’ di ossigeno, ma non ha abolito la povertà, come prevedeva con enfasi il governo italiano nel 2018. Piuttosto, ogni tanto decreti sicurezza, daspo urbani e sgomberi hanno provato ad abolire i poveri. Le storie di sette persone in cinque città diverse aiutano a capire quanto queste risposte possano essere riduttive, inefficaci, spesso pericolose. E aiutano a infrangere la retorica che li descrive come un tutt’uno, a volte criminalizzandoli, a volte trattandoli con paternalismo, a volte descrivendoli con un lirismo ingenuo.
Le due famiglie che dividono l’appartamento a Palermo
Maria Teresa Giliberto, 46 anni, impiegata in biblioteca; Alessia Episcopo, 43 anni, insegnante.
Maria Teresa Giliberto Io sono impiegata in biblioteca, ho un contratto part-time con il comune di Palermo e due figli. Mio marito lavora per una catena di supermercati che sta vivendo una forte crisi. Riceve lo stipendio con moltissimo ritardo: alla fine di ottobre, per esempio, è arrivato lo stipendio di luglio. È per questo che abbiamo deciso di condivivere la casa con un’altra coppia di amici. Non riuscivamo a pagare l’affitto – 660 euro al mese – perché la busta paga arrivava con troppo ritardo e quasi mai per intero. Non potevo garantire la regolarità dei pagamenti al proprietario di casa, che fra l’altro è stato molto comprensivo. Andava avanti così dal 2014.
Alessia Episcopo Io sono una docente. Faccio l’insegnante di sostegno nella scuola dell’infanzia: sono di ruolo a Catania, ma ogni anno chiedo l’assegnazione provvisoria a Palermo per stare vicino ai bambini, visto che mio marito lavora qui come impiegato in un negozio. Noi abbiamo avuto problemi quando abbiamo deciso di comprare questa casa, nel 2017: durante i lavori i materiali per gli impianti sono stati rubati tre volte, così la ristrutturazione è durata molto più a lungo del previsto. Abbiamo dovuto ricomprare materiali per diecimila euro e oltre al mutuo abbiamo dovuto pagare affitti per circa settemila euro. Adesso siamo molto indebitati: un mutuo, due cessioni del quinto dello stipendio e un prestito personale. Condividere la casa ci permette anche di aiutarci reciprocamente.
Maria Teresa Giliberto Lo scorso giugno abbiamo deciso di provare a fare questa esperienza. Ci eravamo conosciute nel 2012 grazie a un gruppo su Facebook dedicato ai pannolini lavabili, perché volevo cominciare a usarli. Alessia era un’esperta e iniziando a frequentarci i bambini hanno fatto amicizia.
Alessia Episcopo Poi abbiamo cominciato a vederci anche a prescindere dai pannolini… Quando nel 2013 sono rimasta incinta avevo bisogno di aiuto e Maria Teresa, che era libera nel pomeriggio, mi ha accompagnato a fare le ecografie.
Maria Teresa Giliberto Già durante un trasloco fra il 2015 e il 2016 avevamo provato a condividere una casa, quella volta l’avevamo fatto per un mese. Chiacchierando, lo scorso giugno, ho spiegato ad Alessia che avrei voluto mandare i bambini in un centro estivo, ma che il costo, 750 euro, era troppo per noi. E allora Alessia mi ha proposto di portarli da lei, cioè in questa casa…
Alessia Episcopo Essendo un’insegnante, d’estate ho più tempo a disposizione. Le ho detto: “Tenerne con me tre o cinque fa poca differenza”.
Maria Teresa Giliberto Doveva essere una soluzione provvisoria, ma la situazione lavorativa di mio marito è precipitata: sembrava che a giugno dovesse risolversi, e invece è andata perfino peggio. Così ha deciso di mettersi in congedo parentale: era stressante lavorare e non ricevere lo stipendio, fra l’altro dopo anni trascorsi con il contratto di solidarietà. Alessia, nel frattempo, mi ha proposto di rimanere qua. Dal 28 settembre ho traslocato ufficialmente.
Alessia Episcopo Ovviamente non sempre è facile. Gli spazi ora sono più piccoli.
Maria Teresa Giliberto Abbiamo creato una camera da letto e abbiamo portato alcuni dei nostri mobili qui, quindi abbiamo un nostro spazio. Abbiamo imparato a convivere.
Alessia Episcopo Per esempio nella vita quotidiana, quando abbiamo un po’ di tempo, decidiamo insieme i menu e in base a quelli facciamo la spesa e poi dividiamo i costi. Dividiamo tutto, del resto: le utenze e quello che serve per vivere. Questa soluzione ci permette anche di ottimizzare i trasporti, per esempio per la scuola, e condividere una serie di compiti: alle riparazioni, per esempio, pensa mio marito, all’orto il suo. In questo modo sprechiamo anche meno risorse. Del resto è così che ci siamo conosciute, parlando di riuso dei pannolini.
(Storia raccolta da Claudio Reale)
La madre che ha portato il curriculum a tutti
Susmita, 31 anni, del Bangladesh, vive con la figlia di sette anni in una struttura del comune di Bologna.
Nove anni fa sono arrivata a Bologna dal Bangladesh per seguire mio marito, che aveva un lavoro stabile come metalmeccanico. Un anno dopo sono rimasta incinta ed è nata Rosmita: ero felice, non avrei mai immaginato quello che sarebbe successo dopo. Una mattina, la bambina aveva poco più di un anno, arrivano i carabinieri a casa nostra: mi dicono che mio marito è morto durante il turno, un infarto. Era il 30 luglio 2013, non lo dimenticherò mai più.
Avevo 24 anni e mi sono trovata sola, senza un lavoro e senza conoscere l’italiano. Mia madre voleva a tutti i costi che mi risposassi, ma io non ero d’accordo: cosa avrei fatto se il mio nuovo marito avesse rifiutato mia figlia? La mia famiglia e la comunità nel mio paese mi hanno voltato le spalle. Ho dovuto lasciare la casa, non me la potevo più permettere. Non potevo buttarmi giù perché avevo Rosmita, ma ogni sera mi chiedevo: come sarà domani?
Nel gennaio 2014 sono andata a vivere in una struttura di accoglienza delle suore, dormivo in una stanza con un’altra mamma e un bambino, poi mi sono trasferita in un edificio occupato dietro alla stazione: dentro eravamo 28 famiglie. La prima volta che sono entrata era tutto vuoto: abbiamo portato i materassi, i mobili, il forno per cucinare. Il gas non c’era, usavamo le bombole, e per sei mesi ci hanno tagliato anche l’acqua: io vivevo al quinto piano e ogni volta dovevo portare su per le scale l’acqua potabile che ci dava il comune. Mi dicevo: se può farlo un uomo, perché non può farlo anche una donna?
Andavo a tutte le manifestazioni per il diritto alla casa e una volta a settimana facevo anche il turno di notte di guardia al portone, per controllare che non arrivasse la polizia. A ottobre 2016 c’è stato lo sgombero: per fortuna un mese prima io e Rosmita ci eravamo spostate in un condominio gestito dal comune. L’anno dopo ci hanno trasferito di nuovo, questa volta in una casa tutta per noi.
Per trovare lavoro ho fatto un corso di italiano e ho portato il mio curriculum ovunque: dove arrivava l’autobus arrivavo anche io. Un pomeriggio è arrivata una telefonata: una cooperativa mi ha chiamato per fare una prova come donna delle pulizie in un hotel. Ero felicissima. Da quel momento ho sempre lavorato con loro: ora ho un contratto a tempo indeterminato e guadagno mille euro al mese.
Rosmita ha compiuto sette anni e va in seconda elementare, ha dei voti molto buoni. La vita è migliorata, eppure non possiamo permetterci neanche un monolocale. A Bologna sotto i 500 euro non si trova niente, e con le bollette, le spese condominiali e il costo della babysitter quando sono di turno non ce la farei. Ho cercato anche una stanza in un appartamento condiviso, ma è molto difficile: appena i proprietari sentono che sono straniera trovano una scusa e mettono giù il telefono. La convenzione per questa casa del comune scade il 31 maggio 2020. Poi vedremo: abbiamo sempre trovato una soluzione, la troveremo anche stavolta.
(Storia raccolta da Alice Facchini)
Il ragazzo in transizione
Marco L. , 41 anni, di Lecce, oggi vive a Torino in una residenza per persone transessuali.
Sono nato e cresciuto a Lecce, secondo di tre figli. I miei sono dipendenti statali, ma hanno anche qualche stanza al mare che affittano d’estate. Non sapevo, non sapevamo, che cosa fosse la povertà. Mi sono diplomato al liceo linguistico a pieni voti. Poi mi sono trasferito a Napoli per frequentare scienze politiche all’università L’Orientale. Ho fatto il servizio civile a uno sportello per immigrati, facendo anche dei corsi di inglese per lavoratori. Dopo la laurea ho fatto un tirocinio a Roma e poi mi hanno assunto per un progetto a Bruxelles al centro per lo sviluppo dell’impresa. Avevo uno stipendio vero, ma comunque tutte le volte che avevo avuto bisogno i miei c’erano stati. Superati i trent’anni sono tornato a Lecce proprio per loro, perché volevano che cancellassi quelle migliaia di chilometri che ci separavano. Ed è stato un errore.
Già da tempo ero a disagio con il mio corpo. A vent’anni, durante l’università, immaginavo di chiedere ai chirurghi di togliermi il seno, di cambiare sesso. Pensieri saltuari, finivano nel cassetto e la vita proseguiva tranquilla. È quando sono tornato a Lecce che la cosa è esplosa. A 32 anni sono caduto in una depressione profonda a causa della disforia di genere. Lavoravo nella segreteria di un’agenzia di spettacoli ma dopo otto mesi mi sono licenziato perché stavo troppo male.
Ho avuto un esaurimento nervoso, sono andato da alcuni psichiatri. Ho trascorso due anni chiuso in casa dai miei genitori. Era un dolore fisico, oltre che psicologico. Poi sono tornato a lavorare, ma trovare qualcosa non era facile: un anno ho lavorato in un call center, poi qualche volta ho fatto il lavapiatti, sempre per poche centinaia di euro. Quando ho cominciato il percorso di transizione, i miei genitori hanno reagito male. Non erano più disposti ad aiutarmi.
Sono dovuto andare a vivere da solo, sopravvivendo con i pochi risparmi che avevo. Cercavo un lavoro più stabile, ma il tempo passava e non cambiava nulla. Ero disoccupato per la maggior parte del tempo e i soldi presto finirono. Ogni settimana andavo in ospedale a Bari, ma la depressione non guariva e i medici decisero di interrompere il mio percorso di transizione. Mi venne imposto di tornare a vivere al femminile, un incubo.
A 39 anni ho trovato il coraggio di chiedere un aiuto ai miei, intanto con un impiego stagionale come lavapiatti ho messo dei soldi da parte. Mi sono trasferito a Torino nel settembre del 2018 per riprendere la transizione in un ospedale che mi era stato consigliato. Ho preso in affitto una stanza, ma pagata la caparra e le prime mensilità mi sono rimasti solo 200 euro. Non avevo un lavoro. Ho girato tutte le agenzie interinali, senza successo.
Dopo tre mesi, ho ricevuto la chiamata di un’azienda di pulizie per sei ore alla settimana. I primi mesi guadagnavo 200 euro, non bastavano per l’affitto. Poi lo scorso gennaio sono stato selezionato per una residenza per persone transessuali in stato di povertà, gestita dal gruppo Abele. Vivo ancora lì, pago un canone simbolico di cento euro al mese e intanto al lavoro hanno cominciato a chiedermi gli straordinari, una buona notizia.
Oggi guadagno circa cinquecento euro al mese, ma faccio comunque fatica perché i prezzi dei farmaci che devo prendere durante la transizione aumentano, prodotti che prima pagavo tre euro ora costano dieci. Un banale gel ormonale costa cinquanta euro. Per una persona in difficoltà economica questo è un problema. Quando arriva lo stipendio, so che due-trecento euro se ne andranno così. Pagato l’affitto non rimane quasi più nulla. Mi sono fatto degli amici, ma devo inventarmi scuse per non uscire. “Non sto bene”, “devo lavorare”. In realtà non posso permettermi neanche una birra. Mi vergogno a confessarlo.
Alla fine di questo mese non avrò più una casa perché il contratto che ho qui scade. Mi sono candidato per un’altra residenza. Se va male dovrò tornare a pagare un affitto vero, non so come. Sto cercando lavori più remunerativi, ma per una persona transessuale non è facile. Ecco perché sono grato all’azienda dove lavoro ora. In queste settimane però mi scade il contratto anche con loro. Intanto ho fatto domanda per il reddito di cittadinanza, spero che i centri per l’impiego possano aiutarmi. Devo stringere i denti, capire da dove far uscire i soldi. Un’idea ce l’ho. Lavorare nella consulenza del lavoro, quello in cui mi sono laureato. Ho preso un manuale, sto studiando. Vorrei trovare uno studio per fare il praticantato. Il problema è che i primi sei mesi non sono retribuiti, ma potrei compensare con un altro lavoro. Devo uscire dal tunnel in cui sono entrato dieci anni fa, costruirmi una vita normale, con un lavoro normale, che mi piaccia. La consulenza del lavoro è un sogno, quello che mi fa svegliare la mattina e mi dà forza quando sto male.
(Storia raccolta da Luigi Mastrodonato)
La coppia che ha avuto come residenza un binario
Patrizia Piras, 53 anni, di Dolianova, Cagliari; Antonio Pretta, 50 anni, di Cagliari.
Patrizia Piras Con Antonio ci siamo conosciuti dieci anni fa in un call center a Cagliari. È stata la mia unica esperienza lavorativa, prima facevo la casalinga. Tra l’altro ci ho lavorato tre mesi e non mi hanno pagato neanche un euro. In compenso ho avuto il colpo di fulmine. Da allora siamo inseparabili: siamo andati a vivere insieme, in affitto, sempre in città. Mia figlia allora aveva dieci anni ed è rimasta a vivere con il mio ex marito, a Dolianova, a venti chilometri da Cagliari.
Antonio Pretta Io ho provato a trovare altri lavori, ma per me è difficile: ho la scoliosi e due ernie al disco. I medici mi hanno certificato una disabilità del 40 per cento. Fino al 2009 – prima di conoscere Patrizia – lavoravo in una ditta di infissi, ma era un periodo complicato della mia vita. Durante un litigio con la mia ex moglie, lei mi ha dato una coltellata al petto che mi ha quasi ucciso e ho dovuto lasciare il lavoro.
Patrizia Piras Io cammino a stento. Ho la cartilagine del ginocchio consumata e picchi di depressione.
Antonio Pretta Nel 2012 per due mesi abbiamo dovuto dormire sulle panchine di piazza del Carmine a Cagliari. Non avevamo più un lavoro, né qualcuno che ci aiutasse. Ci erano rimaste solo le bollette da pagare e così ci hanno sfrattato.
Patrizia Piras Io dormivo con gli occhi aperti. Vicino a noi c’erano delle coppie di minorenni: una ragazza era incinta. Poi un giorno, un nostro amico – Alessandro, che è morto di aids – ci ha detto: “Venite nei vagoni merci dismessi alla stazione, è meglio”.
Antonio Pretta Lo abbiamo seguito, ma dopo la prima notte è arrivata la polizia ferroviaria. Però hanno visto che eravamo tranquilli e ci hanno lasciato dormire lì. Avevamo tutto: letto, dispensa, fornello e pure un lavandino fatto da me.
Patrizia Piras D’inverno quel posto era una ghiacciaia, mentre d’estate era un forno. I bisogni li facevamo in un secchio. Lasciavamo dei contenitori d’acqua sempre al sole, ma si riscaldava solo in primavera e in estate.
Antonio Pretta Un dipendente degli uffici di Trenitalia ha visto che andavamo a prenderla a delle fontanelle lontane dalla stazione e così ci ha permesso di prenderla da loro. In cambio spazzavamo il cortile.
Patrizia Piras Dopo un anno ci hanno dato la residenza. “Quarto binario vagone 21 riv”, c’era scritto nel certificato. Un giorno però è arrivata una ruspa per tirare giù i nostri rifugi. Ho detto all’operaio che mi sarei suicidata e lui ha mandato un fax ai capi a Milano per dire: “Fatelo voi”.
Antonio Pretta Da fine 2014 stiamo in una casa, con Stella e Zampa, cane e gatto. Ce l’ha trovata un volontario Caritas. Paghiamo 322 euro al mese per 17 metri quadri qui a Cagliari. Abbiamo un divano letto e un bagno, per arrivare alla doccia dobbiamo spostare le casse dove teniamo i vestiti. Le teniamo lì perché non abbiamo altro spazio.
Patrizia Pira Ricordo il primo Natale, era venuta mia figlia per qualche giorno. Non c’era ancora l’acqua! Ora ha venti anni: ogni tanto viene a trovarci, anche se meno. Il mio ex marito ha ancora un negozio di alimentari e mi dà 150 euro al mese, divisi in tre rate.
Antonio Pretta Io ora ho il reddito di cittadinanza e la Caritas ci dà 150 euro per aiutarci a pagare le bollette. Ogni sabato e domenica pulisco i bagni e le sale alla loro mensa e firmo le ore di presenza perché sono in affidamento al servizio sociale. Nel 2013 due conoscenti mi hanno lasciato una catenina da custodire, ma poi si è scoperto che era rubata. Io non lo sapevo, ma ci hanno creduto solo gli assistenti sociali, i giudici no.
Patrizia Piras Io l’ho sempre sostenuto…
Antonio Pretta Alla mensa andiamo solo se non abbiamo cibo o la bombola del gas per cucinare. Ogni domenica mia suocera, 79 anni, ci porta carne, pane, pasta, pelati. Mio cognato mi dà magliette nuove, scarpe, pantaloni… Viviamo così, sempre insieme.
(Storia raccolta da Monia Melis)
Il pittore che ha dormito ovunque
Carlo Mazzioli, 70 anni, vive in un centro della Caritas a Roma.
Se dovessi dire quando sono cominciate le difficoltà, direi che sono cominciate subito. Penso di esserci nato, nelle difficoltà. Era il 1947, eravamo in pieno dopoguerra e Monteverde Nuovo, a Roma, era un quartiere con intorno orti, casolari e campagna, dove vivevano molte persone povere. Mio padre e mia madre lo erano. Papà aveva fatto l’autista per i militari americani dopo che avevano liberato Roma, poi aveva continuato per qualche anno. Faceva avanti e indietro dall’ambasciata americana in via Veneto. Mamma faceva la casalinga. Io ero il primo di tre fratelli e i soldi non bastavano mai. Vivevamo in affitto e spesso cambiavamo casa.
Io ho cominciato a lavorare da ragazzo. Negli anni settanta ho lavorato alla Bottega dell’artista a Trastevere, preparando le tele e i colori per chi dipingeva. Tra i clienti c’era pure Giorgio De Chirico. Io stesso disegnavo e facevo acquerelli, cosa che non ho mai smesso di fare. Alla Bottega ci sono rimasto tre o quattro anni. Le cose nella mia vita sono peggiorate quando papà si è ammalato di tumore alle ossa. Ha sofferto tantissimo, un dolore davvero inimmaginabile. È morto poco dopo, e poi è morta pure mia mamma, per un tumore al fegato, e la loro perdita mi ha segnato per sempre. Io e i miei fratelli eravamo ragazzi e oltre che orfani ci siamo ritrovati senza una casa, senza niente.
Io non ho potuto studiare, mi sono fermato alla terza media, e trovare lavoro non è mai stato semplice. Ho fatto un po’ di tutto, ma senza mai riuscire a farcela davvero. E così, senza un posto dove dormire e senza un lavoro stabile, lentamente mi sono ritrovato per strada già negli anni settanta. Ho dormito ovunque. Nelle stazioni, nei parchi, sul lungomare di Ostia. E la vita di strada ti segna. Era così negli anni settanta ed è così ancora oggi. Si fanno delle amicizie, ma tante se ne perdono. Io non sento quasi più nessuno delle persone che ho conosciuto in giro. Molti si sono persi, altri non so che fine hanno fatto. Può succedere a chiunque, basta un divorzio, un licenziamento. E piano piano, se non hai chi ti aiuta, finisci per strada. Questa società non perdona nessuno.
Oggi ho una pensione sociale di circa seicento euro ma non ce la faccio lo stesso a pagarmi un affitto a Roma. Dormo nel centro Santa Giacinta della Caritas e di giorno ogni tanto vado a Binario 95. Grazie a Binario sono anche andato a Parigi perché ho vinto un concorso di pittura. Santa Giacinta e Binario sono posti tranquilli, con pochi ospiti, dove hai la libertà di entrare e uscire quando vuoi, entro certi limiti, e dove si possono fare delle attività. Proprio in uno di questi posti ho conosciuto la mia compagna, una decina di anni fa. Ero alla Caritas di Ostia, dove si trovava anche lei perché era in difficoltà. È portoghese e ora è dovuta tornare a Lisbona per dare una mano al padre di 91 anni. Ci sentiamo ogni giorno e io sono andata a trovarla due volte. Facciamo quello che possiamo.
(Storia raccolta da Giuseppe Rizzo)
Senza ricchezza non c’è povertà
di Mauro Armanino
Dove non c’è ricchezza non c’è neppure povertà. Detto così sembra banale e persino irritante. Uno dei tanti proverbi della tradizione Tswana, nell’Africa del Sud, ripreso a suo tempo da Gilbert Rist, autore critico dello sviluppo che diventa un mito occidentale. Dove non c’è ricchezza non c’è neppure povertà. Entrambe sono realtà e concetti relativi, ognuno a suo modo, e solo insieme si possono cogliere, interpretare e rendere pericolosi.
Un recente rapporto del Crisis Group (Gruppo sulle Crisi), riferendosi al Sahel, faceva riferimento ad un grande filone d’oro che lo attraversa da Est ad Ovest. Senza particolare sorpresa, rileva il rapporto in questione, i gruppi armati terroristi ne hanno fatto una delle fonti di finanziamento privilegiato per le loro attività ‘commerciali’ in vite umane. Hanno capito molto bene come funziona il Sistema e come si organizzano le guerre. Manipolando lo spirito umano, si può trasformare l’altro in nemico, sfruttatore, furfante, sacrilego, idolatra, insetto, simbolo da eliminare o indegno di vivere sullo stesso suolo. Alla base della giustificazione e della continuità delle guerre, nel Sahel e altrove, c’è il detto di cui sopra. Il resto non sono che abbellimenti religiosi o ideologici. Dove non c’è ricchezza non c’è neppure povertà, recita il proverbio.
In un giornale bisettimanale indipendente della capitale Niamey, si legge in prima pagina che al Ministero delle Difesa è in atto un concerto di ‘pentole’. L’articolo ricorda che, di fronte al faraonico bilancio destinato alla difesa del territorio, rimane la sconcertante domanda sull’uso che si è fatto di questi miliardi. Si parla di fatturazioni esagerate e probabilmente di fondi che hanno preso cammini diversi da quelli previsti dall’uso originario. Dove non c’è ricchezza non c’è neppure povertà, ripete a menadito il proverbio che destabilizza l’ordine neoliberale che su questo si basa.
Basta osservare lo spettacolo offerto dal recente Forum sulla pace di Parigi, promossa da Emmanuel Macron, che appare grande solo perchè trova gli altri in ginocchio. Nell’apertura dell’incontro, l’attuale segretario generale delle Nazioni Unite, elencava le sfide di cinque rischi globali. Il pericolo di una frattura economica, tecnologica e geostrategica che crea fessure nel contratto sociale e nella solidarietà. Antonio Guterres ricorda che ‘la paura dello straniero è utilizzata per fini politici’. ‘L’intolleranza e l’odio si banalizzano e le persone che hanno perduto tutto sono designate come la causa di tutti i mali’, ripete il Segretario. Dove c’è ricchezza c’è soprattutto povertà.
Lo sanno bene i rifugiati, gli sfollati, i migranti economici, climatici, sociali, politici, religiosi e in generale i nomadi, gli acrobati, gli spacciatori di utopie e i mercanti di polvere e di dune del deserto. Lo sanno i negozianti di bazar informali che il vanto di città pulite allontanano dal centro, salvo riapparire la settimana seguente poco lontano. Lo sanno bene i politici che su questo fondano la continuità nel potere. Lo sanno gli intellettuali che hanno venduto la parola ai trafficanti di non verità. Lo sanno i giovani ai quali l’amputazione del futuro non potrà mai essere compensata. Lo sanno le donne che tessono ogni giorno l’unica rivoluzione finora riuscita. Lo sanno i bambini che, profittando del vento, inventano aquiloni appesi ad un filo di sabbia.
Niamey, novembre, 2019
LE TRE VIGNETTE – scelte dalla “bottega” – sono di Mauro Biani