Povertà abitativa e privatizzazione delle case popolari
Povertà abitativa, il fastidio di governo e amministrazioni locali per l’edilizia residenziale pubblica
di Massimo Pasquini, ex segretario nazionale Unione Inquilini (*)
Dei poveri, precari della casa, che ne volete fare?
Cosa sta succedendo nell’edilizia residenziale pubblica?
Quasi sotto silenzio, e nell’indifferenza generale, nelle amministrazioni locali, da quelle di centrodestra a quelle di centro sinistra, fino al Governo, sta avanzando un pensiero unico, del resto un percorso partito già anni fa.
Che l’edilizia residenziale pubblica a canone sociale e l’esistenza di case popolari e di famiglie povere in graduatoria dia fastidio è ormai acclarato. Si sa i poveri non votano.
Per un primo quadro rispetto alla situazione, alla quale ci riferiamo, è bene citare alcuni dati, che, forse, non tutti conoscono.
In Italia le famiglie nelle graduatorie sono stimate in circa 650.000, famiglie che per partecipare ai bandi, mediamente, devono possedere un Isee al massimo di 20.000 euro, stiamo parlando di reddito complessivo famigliare.
L’Istat ci dice che nel 2022 le famiglie in povertà assoluta in affitto erano 983.000 con un aumento rispetto al 2021 di circa 100.000 famiglie.
Nel 2023 e per il 2024 il Governo Meloni ha pensato bene di azzerare i fondi morosità incolpevole e il contributo affitto, rischiando così di far finire nel baratro dello sfratto per morosità quelle famiglie che grazie a quei contributi, riuscivano a non andare in morosità incolpevole.
Quando erano finanziati, ai contributi affitto partecipavano 350.000/400.000 famiglie.
Cito un dato che si riferisce alla Regione Emilia Romagna, non certo tra le regioni svantaggiate, che ha visto l’ultimo bando per il contributo affitto chiudersi a fine 2023 (con risorse del 2022) con la partecipazione di ben 66.000 famiglie richiedenti, nel 2022 erano state circa 50.000.
A questo si aggiunga che, ad almeno 230.000 famiglie è stato tolto il reddito di cittadinanza, al quale era allegato un contributo affitto mensile fino a 280 euro, indispensabile per queste persone per non incancrenire la loro precarietà abitativa.
In tale contesto, quello che sta avvenendo nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica a canone sociale, unica infrastruttura strategica sociale in grado di rispondere al fabbisogno sopra descritto, ha dell’incredibile.
Da una discussione sulla necessità di superare l’intervento pubblico in materia di edilizia popolare a favore della fascia povera di popolazione (che cresce ogni anno) ora, si sia passati dal pensiero unico, all’azione unica, tesa a ridurre ai minimi termini sia le case popolari che i poveri che le abitano, e i poveri che avrebbero diritto ad entrarci.
Questo non può che essere preoccupante per la tenuta della coesione sociale in Italia.
Gli esempi sono lampanti.
A Milano siamo passati dall’assessore Maran, che predicava l’allontanamento dei poveri fuori dai confini della città, alla delibera che apre la strada al passaggio delle case popolari comunali ai fondi immobiliari, anche pubblici, questi oggettivamente, a meno di non essere ipocriti, hanno altri fini dal dare casa ai poveri.
La Giunta comunale di Milano, infatti, ha approvato una delibera che avvia il percorso di costituzione di fondi immobiliari gestiti da Invimit Sgr, società del Ministero delle Finanze, che però opera in ottica e con logiche di mercato, in cui far confluire progressivamente il patrimonio delle case popolari comunali.
A Milano quel patrimonio comunale, secondo gli ultimi dati disponibili contenuti nella delibera del piano annuale 2023 approvata dal Consiglio Comunale, è composto da 27.965 alloggi. Di questi 26.949 sono case popolari propriamente dette, affittate a canone sociale, mentre le altre sono affittate a canale concordato o affidate ad enti del terzo settore.
La maggioranza degli attuali assegnatari di case popolari a Milano sono in condizioni di difficoltà o disagio economico, in particolare 9.648 famiglie sono collocate nell’area della Protezione con ISEE inferiore a 11.000 euro, 4.932 sono collocate nell’Area dell’Accesso con ISEE inferiore a 17.000 euro, mentre solo 5.019 presentano ISEE superiori.
Inoltre sono presenti 10.306 famiglie con presenza di anziani over 65 e 3.317 famiglie con presenza di minori.
Aggiungiamo il “piccolo particolare” che, a Milano, ci sarebbero ben 17.000 famiglie in lista di attesa per una casa popolare e circa 10.000 case popolari (del Comune e dell’Ater) inutilizzate per mancanza di manutenzioni.
In tale contesto avviene la scelta del Comune di Milano di avviare il passaggio delle case comunali a Invimit che, certo, non ha la mission di fornire case popolari a prezzi bassi, ma quella di valorizzare il patrimonio pubblico e portarlo a reddito, in teoria, per ridurre il debito pubblico. Ovvio che Invimit ha una mission incompatibile con famiglie povere in case popolari e con affitti a canone sociale.
Nella Regione Lazio, amministrazione di altro tipo, rispetto a quella milanese, si parla apertamente di una nuova legge che preveda aumenti di affitti per assegnatari, l’istituzione del doppio bando, uno comunale e l’altro Ater, e addirittura lo spacchettamento delle attuali case popolari in tre: una parte da destinare a canone sociale (piccola eh per carità) per i poveri, una parte a social housing per coloro che possono pagare un affitto calmierato, una parte da destinare addirittura a libero mercato.
A Roma grazie alle “geniali e lungimiranti” scelte operate dalle giunte precedenti a quella attuale, di ogni colore, attualmente sono in vendita 14.000 case popolari, tutte ubicate nell’anello ferroviario. L’anello ferroviario di Roma è grande quanto Milano e il doppio di Firenze. Ebbene se andassero in porto queste vendite a Roma, nell’anello ferroviario non ci sarebbe più una casa popolare dell’Ater o del Comune che sia.
Quanto descritto appare una opera coordinata, che vede convergere anche opzioni politiche che dovrebbero essere alternative, con buona pace a Roma delle 16.500 famiglie in graduatoria, a Milano delle 17.000 famiglie richiedenti una casa popolare e delle 650.000 famiglie povere che alloggiano da decenni nelle graduatorie a livello nazionale.
Aggiungo, infine, il visionario Piano Casa a cui sta lavorando Salvini, non a caso con immobiliari, lobby economiche e associazioni di proprietari, che ha escluso tutti i sindacati inquilini dal Tavolo al Ministero delle infrastrutture e trasporti.
Per aumentare il numero di case popolari?
Macché! Per fare una bella operazione immobiliare di social housing perché il nuovo orizzonte, più lucroso, passa per cedere immobili e aree pubbliche a privati per offerte ad affitti “moderati”. Ma gli affitti “moderati” sono inaccessibili per i poveri e le famiglie nelle graduatorie.
Ci sarebbe bisogno di più case popolari, da realizzare senza consumo di suolo, riutilizzando e recuperando i milioni di metri cubi di immobili pubblici e privati lasciati in disuso a degradare, dei veri buchi neri nelle nostre città. I dati della povertà, almeno nella parte della politica e degli amministratori progressisti, dovrebbero indurre a politiche abitative inclusive, che tendano a rispondere al fabbisogno reale, anche per un “semplice” obiettivo di coesione sociale. In Italia si procede in direzione contraria e ostinata con politiche abitative che appaiono di esclusione sociale e di marginalizzazione dei poveri.
Lo chiedo a tutti: dei poveri che ne volete fare?
A quando la loro cancellazione dal genere umano?
(*) Tratto da Diogene.
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