Presidenziali Colombia: al ballottaggio sarà in gioco la pace
di David Lifodi (*)
Sarà il secondo turno, in programma il prossimo 17 giugno, a sancire chi sarà il nuovo presidente della Colombia. Al ballottaggio si giocheranno Palacio Nariño Iván Duque, candidato uribista del Centro democrático, e Gustavo Petro, già sindaco di Bogotá, della coalizione sociale progressista Colombia Humana. La posta in gioco è altissima. Se vince Duque le speranze di pace, già ora ridotte al lumicino con Juan Manuel Santos presidente, si spegneranno definitivamente. In un contesto caratterizzato dalla persecuzione e dagli omicidi mirati compiuti contro attivisti sociali, leader delle comunità indigene e militanti ambientalisti e nel mezzo di una vera e propria offensiva mediatica e politica contro la ex guerriglia delle Farc, di cui è responsabile l’uomo della “pace” Santos, che si è aggiudicato un Nobel in maniera del tutto immeritata, la vittoria dell’uribista Duque farebbe compiere un ulteriore passo indietro alla Colombia.
Tuttavia, per Gustavo Petro la strada resta in salita. Il candidato alla presidenza di Colombia Humana ha guadagnato un non disprezzabile 25% dei consensi, segnale che una parte del paese crede in lui come vero uomo di pace, ma il suo avversario, Duque, è ampiamente in testa con il 39% delle preferenze. Sarà decisivo il voto di coloro che al primo turno hanno scelto gli altri aspiranti alla guida del paese, da Sergio Fajardo (23% dei voti), sostenuto da un’eterogenea coalizione composta dai verdi e da una consistente parte della classe media a Germán Vargas Lleras, vicepresidente di Santos che ha ottenuto un misero 7%, fino al liberale Humberto De la Calle, mediatore dei negoziati tra i guerriglieri delle Farc e il governo, che non ha superato il 2% delle preferenze. Se Petro vincesse, si tratterebbe di un evento storico perché la presidenza della Colombia finora è sempre stata nelle mani del potere liberale o conservatore. Petro punta ad ottenere il sostegno dell’elettorato di Fajardo, quello a lui più affine, almeno per per quanto riguarda i militanti dei verdi e del Polo Democrático, ma il suo percorso non sarà dei più semplici per varie ragioni.
Innanzitutto non è escluso che le elites dominanti, per quanto si guardino in cagnesco, si pensi alla rottura, anni fa, tra Santos e Uribe nel campo della destra, puntino a far fuori Petro. In palio ci sono una visione ed un modello di paese del tutto diversi. Se vince Petro avranno spazio i diritti sociali e civili, la pace e le politiche di inclusione in un paese dove la violenza della borghesia imprenditoriale, delle multinazionali, dei paramilitari e del narcotraffico da sempre ha goduto di libero accesso alle stanze dei bottoni, ma se sarà Duque a salire a Palacio Nariño la Colombia diverrà, una volta di più, un paese dove la democrazia non ha cittadinanza.
In secondo luogo, non è escluso un tentativo di frode elettorale, già fortemente temuta al primo turno per estromettere Gustavo Petro dal ballottaggio. A differenza del sistema elettorale venezuelano, messo sotto accusa senza alcuna prova certa sui giornali di tutto il mondo, in Colombia la Misión de Observación electoral, aveva già messo in guardia, a proposito delle differenze nelle elezioni legislative dell’11 marzo scorso, tra il numero dei voti espresso e quello degli elettori abilitati. Erano in molti a pensare che si ripetesse quanto accaduto il 19 aprile 1970, quando Misael Pastrana Borrero si autoproclamò vincitore nonostante Gustavo Rojas Pinilla, dell’Alianza Nacional Popular fosse ampiamente in vantaggio. Inoltre, alle denunce di Petro sulla mancata revisione del software elettronico utilizzato per il voto aveva fatto seguito una dichiarazione della Sinistra unitaria europea (Gue/Ngl), in cui si esprimeva preoccupazione per il fatto che l’Ue avesse deciso di inviare in Colombia solo due osservatori alla missione europea rispetto ai novanta in occasione delle elezioni in Paraguay e Honduras, peraltro tutto fuorché trasparenti.
Sul voto colombiano pesa anche l’attuale situazione politica del Venezuela, poiché non bisogna dimenticare che Palacio Nariño ha sempre giocato un ruolo chiave nella destabilizzazione della rivoluzione bolivariana, e l’adesione della stessa Colombia alla Nato, formalizzata dal presidente uscente Santos a soli due giorni dalle elezioni presidenziali tra le proteste (in particolare, di Bolivia ed Ecuador, che intravedono il rischio di un’ulteriore crescita delle basi militari in America latina) non rappresenta certo un incentivo alla pace.
Infine, su questo primo turno delle presidenziali ha pesato l’assenza della ex guerriglia delle Farc, trasformatesi nel partito politico Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, che ha scelto di non partecipare al voto per la mancanza di garanzie elettorali e per i costanti omicidi di contadini e attivisti sociali. Gran parte degli esponenti delle ex Farc hanno ricevuto minacce di morte e attacchi verbali contro i quali il governo non ha mai preso posizione, senza contare le aggressioni di cui sono stati vittima gli stessi ex-combattenti, la quasi totale mancata ratifica degli accordi di pace e il recente caso di Jesús Santrich, uno degli esponenti più in vista della guerriglia incarcerato con l’accusa di narcotraffico e che rischia di essere estradato negli Stati uniti, oltre ad essere già divenuto vittima di una evidente montatura per assestare un altro colpo al già traballante processo di pace.
La Colombia che sceglie la pace si aggrappa a Petro, ma contro un estabilishment che scommette su Duque per mantenere lo status quo e preferisce di gran lunga il prosieguo della guerra per il mero profitto, per l’ex guerrigliero dell’M-19 che pure non ha preso una posizione netta sul caso Santrich e su altre questioni spinose, a partire da quella dei rapporti con il Venezuela bolivariano, pur di attrarre il voto moderato, arrivare a Palacio Nariño non sarà facile.
(*) tratto da Peacelink – 28 maggio 2018