Prosperare sul disastro. Cronache dall’emergenza sociale permanente/3
di Alexik
[A questo link il capitolo precedente.]
Nell’esperienza romana il disastro abitativo ha rappresentato, oltre che una benedizione per i palazzinari, un vasto terreno di espansione per la cooperazione sociale. Gli imprenditori del mercato della miseria ne hanno beneficiato nelle sue varie forme: gestione dei centri di assistenza alloggiativa temporanea (CAAT), centri di accoglienza per richiedenti asilo, nuovi ghetti per rom e sinti, servizi per i senza fissa dimora … Situazioni diverse definite sulla base delle differenti categorizzazioni di genti accomunate da una stessa condizione: la totale impossibilità economica di saziare gli immensi appetiti delle rendita immobiliare.
In tutti i questi casi, a ritagliarsi una fetta consistente della torta dell’assistenza ai senza casa (e di quale assistenza si tratti vedremo fra poco), ritroviamo i protagonisti dell’accordo di cartello venuto alla luce con l’inchiesta Mafia Capitale. O meglio … venuto a conoscenza dei più, perché è impossibile sia passato inosservato davanti agli occhi degli addetti ai lavori.
Le cooperative dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone1 e quelle affiliate all’Eriches 29 di Salvatore Buzzi hanno cominciato ad affermarsi nel settore abitativo a partire dall’era Veltroni per arrivare alla massima prosperità sotto Alemanno, dimostrando un’estrema duttilità di adattamento sia nei confronti delle politiche sociali così dette “buoniste” che di quelle “cattiviste”. Ma partiamo dall’origine delle loro fortune, da quello che, dopo la Pantanella, è stato il più grande sgombero di immigrati della storia di Roma. Quello che ha inaugurato il circolo “virtuoso” fra gli sgomberi delle occupazioni abitative e gli affari della cooperazione sociale, e la cui storia può considerarsi l’emblema di cosa si nasconda sotto tanta retorica sulla solidarietà.
All’origine fu l’Hotel Africa
Nell’agosto 2004 la giunta Veltroni procedette allo sgombero dell’Hotel Africa, gli ex magazzini ferroviari della stazione di Roma Tiburtina occupati da centinaia di profughi, prevalentemente etiopi, somali (molti dal Darfur) ed eritrei.
“Kerba”, come veniva chiamato dai suoi abitanti, era un villaggio2. Un villaggio di persone che i propri Stati di origine avrebbero voluto in guerra, e che invece, ostinatamente, vivevano in pace. Al suo interno c’erano ristoranti, un luogo di preghiera, uno per la scuola di italiano e le riunioni, i bar, il barbiere, la lavanderia. Servizi e spazi di socialità completamente autogestiti dagli immigrati, nel contesto di una situazione precaria, con la luce assicurata dai generatori, pochi bagni per tanta gente e l’acqua per lavarsi scaldata sui fornelli.
Tutto questo, secondo il lessico veltroniano, doveva essere trasferito (non “sgomberato”, per carità, che suona male), ufficialmente per assicurare una sistemazione più dignitosa ai richiedenti asilo. Ufficiosamente perché l’Hotel Africa andava demolito nell’ambito del progetto del nuovo snodo dell’Alta Velocità della stazione Tiburtina e di interramento della tangenziale est.
Il progetto definitivo della stazione venne approvato il 1° agosto 2004. La mattina del 18 si presentarono i funzionari del Comune con polizia e carabinieri, e iniziò il “trasferimento”, con solo otto ore di preavviso agli abitanti. Un delirio, con la gente che dopo aver passato tutta la notte a cercare di raccogliere le proprie cose, si ritrovò sbattuta in posti assurdi: “Quindici persone sono state accompagnate in un ostello nei pressi dell’aeroporto di Ciampino. Però li hanno dimenticati lì e per tre giorni non sapevano neppure dove fossero. Non avevano niente da mangiare. Altri sono finiti in un garage, dove un tubo di scarico della fogna rotto rende impossibile respirare. Altri sono alloggiati in una struttura in grado di accettare 70 persone, ma sono in 110”.3
Venne chiuso il capannone grande, con dentro gli averi di chi quella mattina non era presente. Lo sgombero era avvenuto infatti nel mezzo della stagione agricola, e molti profughi si trovavano al sud a lavorare come braccianti in nero. Da un magazzino più piccolo, centoventi sudanesi rifiutarono di spostarsi dopo aver visto il luogo di destinazione. «Neppure in prigione ci sono stanze così”: stanze con due letti a castello a tre piani, orari di uscita e di entrata obbligati4. “Gli altri gruppi sono andati via, solo noi sudanesi siamo rimasti. Hanno cominciato a minacciarci, ci volevano sbattere per strada”.5Nonostante le intimidazioni, per un altro anno tennero duro.
Tranne i darfuriani, la comunità del Kerba venne disgregata, in parte indirizzata verso i centri gestiti dalle cooperative, in parte semplicemente buttata fuori. Fra gli esclusi, chi si presentava nei nuovi centri di accoglienza senza il cartellino – di colore diverso a seconda della provenienza nazionale – veniva respinto dai piantoni della security, e rimaneva a dormire li fuori, sul marciapiede.6 Quelli “col cartellino” vennero indirizzati verso varie strutture: circa 200 nell’ex vetreria di via Cupa affidata in gestione al Consorzio Eriches di Salvatore Buzzi, altri in immobili gestiti dall’Arciconfraternita, come Grottarossa e via Casilina 815, altri al Fosso di Centocelle dall’ACISEL Onlus.
L’operazione di trasferimento, le cui modalità testé descritte furono coordinate da Luca Odevaine – all’epoca vice-capo gabinetto di Veltroni e oggi detenuto con l’accusa di associazione per delinquere aggravata dal metodo mafioso – riempì il sindaco di orgoglio: “È un risultato importante per la città, perché rappresenta un esempio di civiltà. Da oggi Roma realizza un modello innovativo d’ accoglienza”7. Peccato che “il modello innovativo di accoglienza” contrattato con le comunità dei migranti – quello che prevedeva nei nuovi centri piena libertà di movimento, la possibilità di cucinare e di gestire i propri spazi, e la “valorizzazione delle forme di autogestione sperimentate a Tiburtina”- si dimostrò ben presto carta straccia.
Nei nuovi centri, come quello di via Cupa (il Baobab) gestito dall’ Eriches, alle 9 del mattino dovevi essere fuori dagli stanzoni che ospitavano dai 10 ai 16 letti. Se non avevi un’attività, dovevi vagare per la città, con qualsiasi tempo, e tornare nel tardo pomeriggio. Una volta a “casa” non avevi l’uso cucina. L’unico pasto veniva distribuito di sera da una ditta di catering8. Col tempo il Baobab migliorò notevolmente diventando un centro di eccellenza, il fiore all’occhiello dell’Eriches da mostrare a politici e sponsor quando si trattava di chiedere soldi. Ospitò nel suo ristorante la tavolata di Buzzi, Alemanno e Poletti, quella immortalata in una foto salita recentemente agli onori della cronaca. Ma nell’agosto del 2004 la situazione degli alloggiamenti non era certo idilliaca.
Già dal primo ottobre un centinaio di eritrei scapparono dai centri e tornarono ad occupare una vecchia scuola in via della Bella Villa. Il perché lo spiega Manuel: “Come faccio a vivere con un pasto al giorno? Perché alle nove di mattina devo essere messo alla porta e tornare dopo le sei? Perché non posso cucinarmi una colazione? Perché devo andare in giro con un solo vestito senza la possibilità di fare niente?”.9
Nel settembre 2005 vennero trasferiti gli ultimi occupanti del Kerba (i sudanesi del magazzino piccolo) nel centro di via Scorticabove, gestito dall’Arciconfraternita tramite il Consorzio “Casa della Solidarietà”. Una palazzina a due piani in mezzo agli outlet di una zona artigianale a San Basilio, senza allaccio del gas, senza acqua calda e a volte anche senza quella fredda, perché collocata in un’area priva di un’adeguata rete di servizi. “Quando abitavamo nel magazzino – spiega Gazhim – l’acqua era sempre fredda, ma potevamo scaldarla nelle pentole”. All’interno della nuova struttura non era possibile per “motivi di sicurezza”10.
Passò il tempo, e qualche anno dopo la situazione dei centri, descritta dal Gruppo Richiedenti Asilo Roma, non sembrava molto migliorata: “È inverno e non c’è riscaldamento né acqua calda a Baobab in via Cupa e a via Casilina 815. In questi giorni nel centro di Centocelle abitano cinque famiglie e venti bambini pieni di tosse”…
Dicono i richiedenti asilo: “Il centro è la metafora della precarietà… Sei dentro e non sai per quanto tempo, sei dentro e non decidi niente: quando ti svegli, a che ora esci, quando e cosa mangi, quando torni, quando vai a dormire. Il tempo non è mai il tuo e non ce la fai a pensare al futuro…. Tra te e il mondo resta il regolamento. Le persone che dormono in un centro di accoglienza devono restare fuori tutto il giorno. Fuori perché? È il regolamento. Alle 8.00 fuori d’estate e d’inverno. A Grottarossa alle 9.00. A San Saba (un centro gestito dai Gesuiti) fuori entro le 10.00. Perché il regolamento ci manda fuori tutto il giorno? Per fare le pulizie, ci dicono. Non devo pensare io alla stanza in cui vivo. Dentro un centro non sono responsabile neanche del mio piccolo spazio. Devo aspettare che arrivi qualcuno che mi manda via per pensare al mio letto. Se sei fortunato hai un piccolo armadietto come in carcere per mettere tutto quello che hai. Il resto non è tuo, lo possono far sparire o buttare. Ho perso scarpe, magliette, libri. L’accoglienza in Italia è uno strano affare, ti tolgono tutto per farti aspettare di avere qualcosa”.
“Per mangiare è lo stesso. Il regolamento vieta di cucinare nei centri di accoglienza. Mangiamo alle mense dei poveri o per non mangiarci prendiamo cappuccino e tonno in scatola. Dentro non puoi preparare una tazza calda. Noi facciamo il tè di nascosto quando fa troppo freddo. Ci organizziamo ma per strada spendiamo sempre più di quanto abbiamo in tasca. Ci vediamo e a turno uno paga il cappuccino qua, l’altro là, l’altro un po’ di pizza e tutti ci possiamo sedere. Paga solo chi è riuscito a lavorare e lo stipendio se ne va presto. Trenta quaranta euro al giorno per mangiare niente ognuno” .11
Forse confidando in San Trifone, l’Arciconfraternita e i gestori degli altri centri speravano di compiere un miracolo: quello di trasformare persone adulte con tanto di lauree e figli, persone che avevano affrontato guerre e prigionie, attraversato mari e deserti, dimostrato di potersi autogestire anche nell’estrema difficoltà dell’Hotel Africa, in assistiti passivi, espropriati da ogni autonomia. Non gli riuscì del tutto. I rifugiati lottarono per il diritto al calore, alla cucina, alla libertà di movimento.
In via Scorticabove i sudanesi, a forza di proteste, ottennero dall’Arciconfraternita di non aver più orari di uscita e di rientro e di poter cucinare. Ci volle una lotta anche per il riscaldamento. “Funzionava al piano terra, ma non al primo piano. Domande, richieste formali, accordi e false promesse. Abbiamo chiesto e abbiamo ricevuto mesi di “domani” per risposta. Ogni giorno uguale all’altro ad aspettare e noi sempre più impotenti. Sapevamo che il regolamento vieta di introdurre nel centro stufe a gas e noi decidiamo di comprare delle stufe a gas. Le accendiamo. Arriva subito il responsabile, gli diciamo che se esplode una stufa e va a fuoco il centro con noi dentro la responsabilità non è certo la nostra. Inizia così la contrattazione. Contrattiamo otto stufe per dieci termosifoni elettrici che arrivano in meno di venti minuti. Ma fa ancora freddo, quei piccoli termosifoni non bastano, accendiamo di nuovo le stufe. La sera stessa l’impianto di riscaldamento del centro funziona alla perfezione anche al primo piano”.12
È già qualcosa, anche se non è tutto quello che volevano ottenere.
“Noi volevamo portare avanti un nuovo modello di accoglienza per rifugiati, gestito dai rifugiati stessi… Il problema è che dentro abbiamo trovato l’Arciconfraternita. Il Comune ci aveva fatto credere che quel posto lo avremo gestito noi e che a loro sarebbe toccata la parte legale. Ma sono loro che anche oggi comandano, in maniera completamente diversa da come vorremo. Tengono il centro sempre chiuso all’esterno e dicono di no a tutte le nostre iniziative. Per esempio abbiamo contattato dei medici volontari per fare delle visite, solo che non ci concedono le stanze e gli spazi per fare quest’attività…
…Un’altra cosa che non abbiamo capito è come funziona la convenzione tra Arciconfraternita (che prende dei soldi per la gestione del posto) e il Comune di Roma: abbiamo chiesto le documentazioni ma non ce le hanno mai volute far vedere… Non c’è nessuna attività sociale, quel centro d’accoglienza è un luogo morto. ”13.
Chi non ha accettato, da adulto, di vivere in collegio, è ritornato ad occupare col Movimento Exodus, con Action o con i Blocchi Precari Metropolitani. Da via della Bella Villa al Nazznet (“Libertà” in tigrino) sulla Collatina, dallo stabile di Porta Maggiore al Metropoliz di Tor Sapienza14. Perché è la lotta che rende liberi, non la carità pelosa (fatta peraltro con i soldi del Comune). (Continua)
Questo articolo è stato pubblicato su Carmilla on Line. Le foto di Lorenzo Pari sono tratte dal suo sito Lives in the shadows.
- Consorzio La Cascina, Consorzio Casa della Solidarietà, Cooperative Domus Caritatis, Tre Fontane, Osa Maior. ↩
- Kerba viene ricordato dai suoi abitanti nei racconti: La lavanderia, Il posto delle fave,Sempre aperto. ↩
- Roberto Bàrbera, Hotel Africa addio, Peacereporter, 24 agosto 2004. ↩
- Benedetta Scatafassi, Incubo di una notte di mezza estate, Peacelink, 24 agosto 2004. ↩
- Gasim, il Darfur è a Roma, in Fuori le Mura, Speciale Giornata Mondiale del Rifugiato, 2012. ↩
- Tiziana Barrucci, Dall’hotel Africa al marciapiede, Il Manifesto, 28 agosto 2004. ↩
- Spadaccino Maria Rosaria, Chiude l’ «hotel Africa», profughi trasferiti. Tiburtina: nuova sistemazione per gli immigrati. Veltroni: «Roma è un modello d’ospitalità», Corriere della Sera, 19 agosto 2004. ↩
- Tiziana Barrucci, op.cit. ↩
- Eduardo Di Blasi, Un pezzo di Hotel Africa finisce sulla Casilina. Un centinaio di eritrei ha lasciato i centri di accoglienza e ha occupato ieri sera una vecchia scuola abbandonata, L’Unità, 1 ottobre 2004. ↩
- Eduardo Di Blasi, Senza acqua e senza gas la casa dei sudanesi. I rifugiati africani che vivevano allo scalo Tiburtino sono stati trasferiti nella struttura il 7 settembre, L’Unità, 1 novembre 2005. ↩
- Gruppo R.A.R., Vita barbara. I Centri di accoglienza secondo chi ci vive, Roma, Italia, febbraio 2008, in Storie Migranti. ↩
- Gruppo R.A.R., op cit. ↩
- Gasim, il Darfur è a Roma, in Fuori le Mura, Speciale Giornata Mondiale del Rifugiato, 2012. ↩
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Eduardo Di Blasi, Porta Maggiore: rifugiati occupano palazzo. Ottanta persone provenienti da un’altra occupazione sulla Collatina entrano in uno stabile del Comune, L’Unità, 16 luglio 2005. Eduardo Di Blasi, Porta Maggiore, sgomberate 20 famiglie, L’Unità 20 agosto 2005. ↩