Proveremo a reinventarci, Gustavo
Il saluto di Comune-Info a Gustavo Esteva con un suo testo su crisi sociale e alternative dal basso
“Morire è l’unica cosa del tutto prevedibile nella nostra vita. L’arte di morire è parte centrale dell’arte di vivere. È inaccettabile venire privati della capacità di morire con dignità, come si fa oggi con coloro che muoiono negli ospedali”. Sono parole di Gustavo Esteva – intellettuale “de-professionalizzato”, come amava definirsi lui, autore di 40 libri, centinaia di saggi e migliaia di articoli, amico e allievo prediletto di Ivan Illich, consigliere degli zapatisti durante le trattative con il governo per gli Accordi di San Andrés, fondatore dell’Università della Terra nello Stato messicano di Oaxaca, dove egli stesso viveva in un piccolo pueblo zapoteco. Per noi e per i lettori di Comune, una perdita lancinante, incolmabile. Non solo perché Gustavo è stato uno dei primi e principali ispiratori della nostra piccola avventura e l’ospite più importante e amato della prima Festa di Comune, nel lontano 2014, ma perché ci mancherà in modo assurdo e definitivo il suo straordinario punto di vista su quel che accade nel mondo. Un mondo in cui non basta resistere ma bisogna re-imparare ad ascoltare e a imparare, un mondo in cui dobbiamo re-inventarci per sopravvivere, come scriveva lui, e per scoprire i mondi nuovi che già esistono. Ci restano i 150 articoli che abbiamo fatto uscire tra il 2012 e il 25 febbraio scorso, i libri – l’ultimo dei quali “Transitare le pandemie” scritto con Aldo Zanchetta, il suo amico più fraterno in Italia, cui noi dobbiamo la conoscenza dello stesso Gustavo. E ci restano i ricordi di grandi e appassionate discussioni, la sua incrollabile capacità di alimentare sempre e comunque la speranza. Non ha fatto in tempo, Gustavo, a mandarci i suoi auguri per la nuova campagna per i dieci anni di Comune. Lo aveva fatto in passato – per quella che chiamammo “Ribellarsi Facendo” – lui che ci aveva conosciuto tra i primi e in profondità, definendoci un esercizio di libertà, che al livello del suolo, impara dalla gente comune. Parole fin troppo generose, che restano scolpite nel nostro modo di fare e nei nostri cuori. Era già in ospedale, dove era stato trascinato proprio da quel virus su cui tanto aveva scritto e pensato. Solo due giorni fa la sua compagna, i figli e i nipoti avevano lanciato una campagna internazionale di sottoscrizione per contribuire alle spese per la riabilitazione, spese insostenibili per un uomo molto povero e straordinariamente ricco di persone che lo amavano nel mondo intero. Grazie, Gustavo, per quel che ci hai insegnato, fino alla fine dei tuoi giorni, con la tua vita e con la tua morte.
Leggi da qui.
Voci da Abya Yala – numero 1: testo della conversazione tenuta da GUSTAVO ESTEVA presso lo spazio pubblico autogestito Xm24
(testo non riveduto dall’autore)
a cura del gruppo «Camminar domandando»
Il paradosso di oggi
Si dice che siamo in una crisi globale. Vorrei cercare innanzitutto di precisare di che tipo di crisi si tratta. Prima di tutto è una crisi di quello che tecnicamente chiamiamo il modo di produzione capitalistico. Poiché questo modo è arrivato alla fine, si è trovato esausto, ha avuto bisogno di scappare via dall’economia reale, dall’economia produttiva, verso il settore finanziario. Questa fuga verso il settore finanziario ha creato innanzitutto un’illusione: l’illusione comune che il denaro possa produrre denaro. Ma il denaro non può produrre denaro. Gli enormi profitti speculativi del settore finanziario sono stati il frutto di un saccheggio sistematico dell’economia reale. E questo ha significato finire di prosciugare, di rovinare l’economia produttiva.
Poiché i capitalisti non hanno trovato una via di fuga all’in- terno del modo capitalistico di produzione, sono fuggiti verso un modo precapitalistico. Abbiamo ora il paradosso di trovarci in un mondo post-capitalistico con dinamiche precapitalistiche. Per essere precisi, diciamo che ancora una gran parte dei profitti del capitale si ottiene in forma capitalistica, con relazioni di produzione capitalistiche, ma la dinamica del sistema non è più lì. Il sistema non è più in grado di accumulare relazioni di produzione capitalistiche. È fuggito verso quello che possiamo chiamare accumulazione per via di spoliazione, di rapina. Questo implica che la dinamica del sistema sta lì: il sistema di saccheggio si realizza in una forma coloniale pre-capitalistica.
Un modello che richiede violenza
Questo è ciò che a suo tempo Marx ha chiamato accumulazione primitiva. La forma principale di questo sistema di rapina è il saccheggio del territorio. Farò un esempio molto preciso del mio paese. Il governo messicano ha venduto a corporazioni private, transnazionali, il 40% del territorio del Messico. Dà concessioni per 50 anni principalmente per attività minerarie. E il governo messicano ha assunto l’obbligo di ripulire questo territorio della gente che vi abita. Ed è quello che sta facendo, cercando di spostare la gente, fondamentalmente indigeni, da queste terre date in concessione. Dal momento che la gente non lo permette, resiste, il governo messicano ha organizzato una guerra, con il pretesto del narcotraffico, per spogliare la gente di questi spazi.
Questo è il modello generale che vorrei mettere in evidenza. Lo schema post-capitalistico richiede la violenza. Richiede l’eliminazione di tutte le forme democratiche. Viene alla luce il vero volto del sistema, che è quello di un dispotismo democratico. Così la notizia della fine del capitalismo, che è morto, non è una buona notizia, perché hanno preparato qualcosa di peggio da mettere al suo posto. Sarebbe molto lunga la dimostrazione tecnica che il regime capitalistico di oggi nel mondo non opera più sulla base della legge del valore e del lavoro astratto,1 che sono i due principi operativi del capitalismo, ma si può dimostrarlo, mettendo in luce che stiamo già vivendo in questa dinamica post-capitalistica. A ta- le scopo dobbiamo inserire un altro elemento nell’analisi, per- ché la parola ‘crisi’ non è più sufficiente.
Una civiltà al collasso
Ci troviamo di fronte al collasso della civiltà occidentale. E questo significa diverse cose. La prima è riconoscere (e questa è la cosa più importante) che si tratta di una civiltà patriarcale. Non ci troviamo di fronte soltanto alla fine di 500 anni di colonizzazione, ma anche alla fine di 5.000 anni di patriarcato. E questo collasso della civiltà occidentale patriarcale, con la
1 L’azione umana diventa lavoro astratto quando viene determinata dalla legge del valore (di scambio). In questo si distingue dallo sforzo speso per un risultato diretto di cui interessa il valore d’uso. Insomma, quando non è orientata direttamente al soddisfacimento di bisogni o desideri, ma è volta a produrre beni-servizi dotati di valore (merci), in cambio di un salario.
sua forma capitalistica in agonia, mette in pericolo la sopravvivenza della specie umana. Siamo di fronte a una distruzione sistematica e generalizzata di tutte le realtà naturali e sociali del pianeta.
Non rimane altro rimedio, come mezzo di sopravvivenza, che fermare questo orrore. Fortunatamente la gente se n’è resa conto e si sta dedicando a fare esattamente questo. Fino a poco tempo fa, un’immagine illustrava quello che voglio dire. È la vecchia immagine di una barca su cui viaggia tutta l’umanità; questa barca attraversa una tempesta perfetta, la peggiore. Poiché la tempesta è così grave, tutti i politici, tutti gli scienziati, tutti gli intellettuali, tutte le élite stanno nel locale delle macchine e discutono animatamente su cosa fare. I partiti politici litigano per il timone, ma il timone non si riesce a trovare. Impegnati in questa polemica, non si rendono conto che la barca sta affondando.
Ma la gente sta in coperta e vede che la barca affonda. Alcuni, con una reazione tipicamente individualistica, riescono a impadronirsi immediatamente dei pochi salvagente disponibili, e con questi si buttano in acqua e affogano. Il resto della gente in coperta si organizza, forma piccoli gruppi, comunità, che costruiscono zattere con il legno della barca, per allontanarsi dalla barca che sta affondando. Arrivano così a delle belle spiagge, da cui possono veder colare a picco la barca con tutti i dirigenti.
Resistere all’orrore
Questa era una bella immagine, ma ormai non funziona più. È vero che la gente, organizzata in piccoli gruppi, sta trovando le maniere di affrontare i problemi, ma il problema reale è che il sistema sta crollando, e ci sta crollando addosso. E lo sta facendo con grandissima violenza. Dobbiamo lavorare creativamente alla costruzione di alternative e resistere a questo orrore. Abbiamo il vantaggio che in questa avventura di fermare l’orrore e creare altre possibilità siamo coinvolti in migliaia di milioni di persone. Forse il problema principale è che continuiamo a usare gli occhiali del passato e non riusciamo a vedere quello che sta succedendo.
Una delle cose più importanti è che continuiamo a pensare il modello di rivoluzione tipico del secolo ventesimo, un modello che ebbe inizio con la concezione di papa Gregorio VII, che nel secolo XII tentò la prima riforma totale del mondo. Questo modello implica che si prenda il potere e dall’alto si tenti di fare la rivoluzione. Si mobilitano le masse, ma solo perché svolgano alcuni compiti, il lavoro del partito, mentre il lavoro di reale cambiamento si realizza in alto.
Essere consapevoli
Però abbiamo scoperto che così non si producono cambiamenti reali. Si produce un cambiamento delle strutture di potere, ma non cambia la condizione reale della gente. In una prospettiva storica possiamo constatare che i cambiamenti profondi, reali, rivoluzionari, avvengono quando è la gente comune, quando sono uomini e donne comuni a realizzare i cambiamenti.
Dobbiamo ricordare che i primi borghesi e i primi proletari sono morti senza sapere di esserlo. Era già stato creato il capitalismo, c’erano già le nuove relazioni sociali di produ- zione, ma nella loro testa avevano ancora il re e le relazioni feudali.
Nelle circostanze attuali non possiamo permetterci questo lusso. L’unica possibilità di resistere all’orrore e di creare qualcosa di nuovo è essere pienamente consapevoli di quello che stiamo facendo. La prima esigenza è liberarci delle bende della nostra mentalità precedente. Se i pilastri del sistema sono ancora l’individuo e la merce, questi sono i primi elementi da dissolvere per poter pensare e poi organizzare la nuova società.
Siamo un nodo di relazioni
Ci sono due buone notizie per quanto riguarda l’individuo. La prima è che queste persone individualizzate in tutte le società moderne si sono ormai stancate di questa individualizzazione. Stanno cercando droga, buddhismo, yoga o qualsiasi cosa che permetta loro di scappare dalla prigione individualistica.
La seconda notizia più importante è che possiamo credere di essere individui, pensare come individui, credere che stiamo lottando per quegli individui che siamo, ma non possiamo essere individui. Ci hanno costruiti come individui, imponendoci con violenza una modalità di essere che non è la nostra. Dietro a questa ‘pelle’, a questa ‘persona’ (usiamo questa parola nel senso classico di ‘persona’ come ‘maschera’), dietro a questa maschera di una fisionomia individuale di un mammifero, di un individuo biologico, c’è un nodo di una rete di relazioni. Siamo le relazioni. Non siamo individui, non possiamo essere individui. Siamo un nodo di relazioni.
Quello che oggi sta succedendo è che le persone cominciano a riconoscersi in queste relazioni e a costruire la nuova società a partire da queste relazioni.
Ci sono popoli e culture che hanno alcuni vantaggi in questo percorso. Il popolo Tojolabal, uno dei popoli zapatisti, non ha nella sua lingua né la parola ‘io’, né la parola ‘tu’. Non possono dire né ’io’ né ‘tu’. Se parliamo Irene ed io, parliamo come un ‘noi’. Se includiamo Aldo, usiamo un’altra parola per dire ’noi’. Se includiamo tutti voi, abbiamo ancora un’altra parola ‘noi’. Se parliamo di tutti i Tojolabales, c’è ancora un’altra parola, un altro ‘noi’. Loro parlano sempre con il ‘noi’. Per loro è molto facile costruire con questi ‘noi’ la nuova società.
Ma non è tanto difficile neanche per gli individui in cui siamo stati costruiti.
Amicizia
E qui vorrei introdurre un elemento che non suona come una categoria politica fondamentale, ma lo è. Per gli individui, per le persone ‘individualizzate’ della società moderna, il cammino della ricostruzione del ‘noi’ è l’amicizia. Tutti abbiamo migliaia di amici, ma i veri amici, gli amici amici, magari sono due o tre, o al massimo otto se siamo fortunati. Con due, tre, otto amici si può cominciare a costruire un ‘noi’ che sarebbe la ricchezza della costruzione della nuova società. È la nuova cellula che apparirà come una nuova formazione sociale, che non sarà più una società formata da individui, ma da queste cellule di ‘noi’.
È molto facile immaginare quali sarebbero le reti che così si creerebbero. Possiamo pensare che io abbia tre amici e che facciamo qualcosa insieme. Ma uno dei tre ne ha altri quattro, e i quattro ne hanno due o tre. Così si formano le nuove reti che configurano una nuova realtà sociale.
Dal ‘valore’ all’uso
Il secondo elemento è ancora più interessante. Sicuramente tutti ricordano che Marx ci ha insegnato fin dal primo capitolo del primo volume del Capitale (e questo è uno dei suoi con- tributi principali) che la merce ha due componenti: l’uso e il valore. Tutta la società capitalistica, che appare come un immenso arsenale di merci, dice Marx, è fondata su questi due aspetti della merce. La merce può essere merce perché ha un uso, e funziona in modo capitalistico perché ha un valore. Quello che oggi queste nuove cellule della nuova società stanno costruendo è una società di usi senza valori. E questo lo possiamo vedere, toccare, annusare in ciascuna delle sfere della vita quotidiana in tutto il pianeta. Senza aver letto Marx o Ivan Illich, la gente è impegnata in questa ricostruzione umana per motivi di sopravvivenza o in nome di antichi ideali.
Lo possiamo vedere in ogni sfera della vita quotidiana. Il sistema educativo è alla bancarotta. Non sta preparando la gente alla vita e al lavoro. Il 60 per cento dei bambini che entrano nella scuola primaria non potrà arrivare al livello della scuola dell’obbligo definito dalla Costituzione del suo paese. Chi non ha questo passaporto fondamentale per circolare nella società moderna sarà discriminato per tutta la vita. Il sistema educativo oggi è il maggior fattore di creazione di disuguaglianza fra tutti i fattori che la creano. E i privilegiati che arrivano alla fine della loro carriera educativa e hanno diplomi e lauree sanno che non faranno il lavoro per il quale hanno studiato, perché non ci sono posti di lavoro per loro. La cifra globale è spaventosa: il 28%, il che vuol dire che 7 su 10 non potranno mai lavorare in qualcosa che ha a che vedere con quello che hanno studiato. Ci sono ancora quelli che pensano di poter migliorare e riformare in qualche modo il sistema e lottano per la scuola pubblica e quant’altro, ma la gente nel suo insieme non è stupida, si è già resa conto. Sa già che, se si tratta di imparare, ci sono luoghi molto migliori della scuola per farlo. Pensiamo per un momento a che cosa significa passare dal sostantivo ‘educazione’ al verbo ‘imparare’. Se io penso che l’educazione sia una cosa buona, e che io e tutti ne abbiamo bisogno, accetto automaticamente la dipendenza da qualcuno, un’entità pubblica o privata che mi dia questo ser- vizio di educazione di cui sono carente. Se io penso in termini di ‘imparare’, recupero la mia capacità autonoma e ho bisogno soltanto di organizzarmi per imparare quello che ho bisogno di imparare insieme ad altri. Ci sono migliaia di milioni di persone che lo stanno già facendo oggi.
Paura della fame – paura di mangiare
Un’altra sfera in cui ciò si può vedere in modo spettacolare è la sfera del cibo. Eduardo Galeano, lo scrittore uruguayano, ha descritto con precisione una situazione terribile: in questo tempo di paura globale, chi non ha paura della fame ha paura a mangiare. Ci sono centinaia di milioni di persone che stasera andranno a letto con lo stomaco vuoto. Anche se ci sono tutti i mezzi tecnici perché non ci sia fame nel mondo, oggi c’è fame nel mondo. Però noi, che non abbiamo fame e non temiamo la fame, oggi abbiamo paura a mangiare perché ormai sappiamo che cosa c’è nei nostri piatti. Sappiamo che i corpi di quelli che sono in questa sala sono avvelenati, contaminati da quello che ci viene dato da mangiare.
Che fare di fronte a questo disastro? Aspettare che i governi dell’uno o dell’altro partito pongano rimedio a quello che loro stessi hanno creato? Aspettare che i governi dell’Unione Europea, che hanno fatto della fame il miglior affare del secolo, modifichino queste politiche? Aspettare che Monsanto o Walmart abbiano un’illuminazione morale e cambino doma- ni quello che da anni stanno facendo? Sarebbe stupido pen- sarlo, e la gente non è stupida. La gente si è messa ad assu- mere il controllo della questione e a risolvere il problema in maniera diretta. Tra le altre cose, ha costruito l’associazione umana più grande della storia. Si tratta di Via Campesina, un’associazione di cui nessuno sa esattamente quanti siano gli aderenti (ma in 140 paesi ne fanno parte almeno 600 milioni di contadini che stanno producendo il proprio cibo).
Sovranità alimentare
Gli aderenti a Via Campesina sono riusciti ad arrivare a un consenso su una ridefinizione della sovranità alimentare. Due principi:
1- dobbiamo essere noi, e non il mercato, la televisione o lo Stato, a definire che cosa mangiare;
2- dobbiamo produrre noi il nostro cibo. Ed è quello che si sta facendo.
In questo momento nel mondo intero c’è un’epidemia di persone che stanno cominciando a coltivare il loro cibo nelle città. Per ragioni particolari, il caso di maggior successo in questo momento è quello di Cuba. Con il collasso dell’Unione Sovietica, si scoprì che dopo 30 anni di rivoluzione i cubani importavano il 70% del loro cibo. Non c’erano dollari per comprare tutti questi alimenti né tutti i mezzi che avrebbe richiesto quell’agricoltura altamente industrializzata. Nel cosiddetto ‘periodo speciale’, i cubani hanno perso in media 10 chili ciascuno di peso. Per alcuni cubani molto grassi è stato il meglio che potesse succedere, ma c’è stata fame a Cuba. La gente in preda alla disperazione cominciò a seminare sui tetti delle case, nei cortili e negli spazi fra gli edifici. Per farla breve, oggi all’Avana si produce il 60% di quello che si consuma all’Avana. Questo dimostra la capacità di produrre alimenti nelle città e ci fa ricordare che Parigi, ad esempio, 100 anni fa esportava cibo.
Nuovi ambiti di comunità
C’è una gran quantità di esempi di come oggi si coltivano alimenti nelle città, e questo è completato da un’altra strategia molto intelligente. Si tratta di una strategia che è nata in Giappone, è passata per la Germania e si è diffusa ampiamente in Nord America: gli accordi fra consumatori urbani e produttori rurali. Il successo di queste nuove forme, che sono nuovi ambiti di comunità, implica che si riprenda il controllo completo di quello che si mangia e di come lo si produce. Il successo di questa ‘agricoltura sostenuta dalla comunità’ è stato tale che ora si stanno avviando esperimenti di ‘industria sostenuta dalla comunità’. E tutto questo corrisponde ai livelli di nuovi ambiti di comunità che sono stati creati. Per questi nuovi ambiti vorrei fare una piccola classificazione che ci aiuti a vederli. Questi nuovi ambiti sono soprattutto giochi di relazioni, sono un sistema di relazioni sociali con determinate regole di accesso. Si possono classificare in due grandi gruppi. Il primo è un gruppo di persone che possono essere amici fra di loro, una rete di relazioni fra amici, fra membri di una comunità che definiscono le regole d’accesso, per loro stessi, a qualcosa che hanno in comune. Vorrei sottolineare che, anche se la cosa più diffusa è avere in comune un bosco, un pezzo di terra o qualcosa di materiale, si può anche avere in comune un’idea o qualcosa di immateriale.
C’è poi un secondo tipo di ambiti di comunità. È di nuovo un gruppo di persone, è una rete di relazioni, ha regole di accesso, ma è anche aperto ad altri perché possano avere accesso con quelle regole a ciò che si ha in comune. Il modello classico è quello dell’oasi nel deserto. C’è una comunità che si prende cura dell’oasi: non è una questione di proprietà, non sono proprietari dell’oasi, ma responsabili di prendersene cura. Tutti i membri della comunità che si prende cura del- l’oasi hanno accesso all’acqua dell’oasi in base a determinate regole. Ma l’oasi è aperta a quelli che passano di lì ed hanno bisogno dell’acqua dell’oasi, purché rispettino le stesse regole d’accesso. Credo che il modello contemporaneo dell’oasi si applichi molto chiaramente a qualcosa che tutti conosciamo: Wikipedia. C’è una comunità che vigila sulla stessa Wikipedia, sull’esistenza dell’enciclopedia, ma Wikipedia è aperta a tutti, e tutti se ne possono servire. Questi sono esempi di questo nuovo mondo di relazioni non individualizzate e non mercantili che caratterizzano la nuova società.
Gratuità
Vorrei sottolineare tre elementi che mi sembrano centralmente importanti in questa esperienza, in questa avventura. Di nuovo il tema dell’amicizia. Ha detto una volta Ivan Illich: «Se in questa società tecnologica c’è ancora un qualche spazio per l’attività politica, quello spazio è l’amicizia». E nello stesso paragrafo diceva: «Ogni autentica amicizia, un’amicizia che si coltiva in maniera disciplinata, è un atto politico in questo mondo attuale». Ciò va oltre il discorso ideologico, si basa sulla gratuità fondamentale dell’amicizia, una gratuità che molte volte non si trova nella relazione d’amore.
Dialogo fra culture diverse
Un altro aspetto centrale è la necessità fondamentale oggi nel mondo di comprendere l’interculturalità. Per trascendere, per andare oltre il mondo violento attuale dovremo trascendere la violenza che sempre c’è stata fra culture diverse. Ma di nuovo il dialogo interculturale non è un puro discorso: la parola dialogo significa «trascendere il logos». Un autentico dialogo fra culture significa che da un lato si dice: metto da parte tutta la mia razionalità, il mio logos, e dall’altro lato si fa la stessa cosa, e poi si vede se si può intendersi da cuore a cuore. E questo avviene solo nell’esperienza, nella pratica, facendolo, non parlandone. Nello stesso modo in cui non può continuare a basarsi sui principi patriarcali, la nuova società non può continuare a basarsi sulla monoculturalità del pro- getto occidentale. E con tutti questi elementi (il ‘noi’ degli ambiti di comunità, l’amicizia, il dialogo interculturale) sta sorgendo fra noi la società conviviale di cui parlava Illich.
Gioia di vivere
Convivialità che, come spiegò Ivan, ha come fattore centrale l’austerità, che non è, ovviamente, l’austerità delle politiche neoliberiste. Con una frase un po’ maschilista, Ivan diceva che austerità non è rinunciare al vino e alle donne, ma significa rinunciare, essere a digiuno di tutta la tecnologia che intorpidisce l’interazione personale diretta.
Se mi permettete un breve aneddoto: qualche anno fa, un’amica mi ha chiamato per chiedermi se potevo aiutarla a distruggere il suo telefono. Le ho detto: «Non hai bisogno di me, puoi ballarci sopra e distruggerlo da sola». Mi ha risposto: «Voglio che tu mi aiuti a distruggere tutta la linea per evitare di poter reinstallare il telefono a casa mia». Questo mi ha incuriosito molto; sono andato di corsa da lei e le ho chiesto: «Perché vuoi farlo?». E lei mi ha risposto: «Per vedere i miei figli. Per anni hanno voluto che mettessi il telefono in casa, e io rifiutavo, sino a quando sono andata in vacanza e loro hanno approfittato della mia assenza per installarlo. È da un mese che non li vedo, tutti e cinque mi parlano tutti i giorni per telefono, ma io voglio vederli, toccarli e stare insieme a loro».
Questa brevissima immagine illustra quello che ci sta succedendo: con le tecnologie perdiamo la possibilità dell’interazione diretta e personale. Inoltre, dice Ivan, la convivialità esige pure una virtù più alta, che è l’eutrapelia, una parola greca molto elegante per definire qualcosa di molto semplice: il giocare piacevolmente la vita, che è vivere.
Un’ultima cosa voglio menzionare, con le parole di Paul Goodman, che anni fa disse qualcosa che è molto pertinente per il giorno d’oggi: «Immagina che la rivoluzione dei tuoi sogni sia stata realizzata, e che abbia vinto il tuo schieramento. Dopo averlo immaginato, avendo già tra le mani la società dei tuoi sogni, immagina quello che, uomo o donna, staresti facendo in questa società dei tuoi sogni. Non dovresti lottare per il salario, non dovresti lottare contro il capitale, non dovresti competere con altri. Se sei già nella società dei tuoi sogni, che cosa staresti facendo in questa società? Ora che l’hai immaginato, mettiti a farlo, domani mattina, subito. Chiaramente troverai ostacoli e rischi, dovrai passare sopra, sotto o di lato agli ostacoli per vivere come vorresti vivere nella società dei tuoi sogni. E allora la tua politica sarà concreta e pratica».
Aprire gli occhi
Questo sembra molto pertinente, oggi, perché forse la più grave di tutte le crisi di cui siamo succubi è la crisi di immaginazione. Continuiamo a vivere in una cassa, e dentro questa cassa continuiamo a battere la testa contro le pareti. Il peggio è che non apriamo gli occhi per vedere tutti i rivoluzionari che stanno già cambiando il mondo; dobbiamo smettere di guardare verso l’alto per guardare tra di noi, per vederci tutti mentre facciamo questo cambiamento.
È inutile riformare da capo a piedi le istituzioni se si mantiene l’orientamento ideologico dominante. Non serve a nulla cambiare l’ideologia di coloro che controllano le istituzioni o sostituirli con altri, di diverso orientamento ideologico, se queste restano intatte. Ciò di cui c’è bisogno è il cambiamento simultaneo delle ideologie e delle istituzioni. […] Si tratta di “con–muovere”...
Con–muovere è una bella parola. Suppone di muoversi con l’altro, come in una danza, e farlo con tutto, con il cuore e lo stomaco e l’intero essere, non solo con la testa. E la con–moción agisce per contagio.
L’insurrezione in corso non è una pura e semplice rivolta popolare, una esplosione improvvisa che può lasciare tracce durature, come la lava di un vulcano, ma scompare con la stessa rapidità con cui è apparsa […]. E neanche si può paragonare a episodi come quelli che si convertono in simboli di una trasformazione duratura, come la presa della Bastiglia o del Palazzo d’inverno.
Siamo chiaramente di fronte a una ribellione, al tipo di atti che costituisce la sostanza di ogni autentica rivoluzione. […] Come afferma Gilly, «non sono le élites, nemmeno quelle radicali, a dar corpo alla frattura dell’antico ordine e ad aprire la porta al nuovo. Sono altri, gli umiliati, gli offesi, i protagonisti dell’atto materiale e fisico della rivolta senza il quale non c’è rivoluzione, ma tutt’al più un cambiamento nel comando politico in essere».
L’aspetto innovativo di questa ribellione è la convinzione generale dei suoi protagonisti, che si basa sull’esperienza di tutte le lotte precedenti, di fronte alle quali sentono di non poter delegare ad altri le proprie capacità e responsabilità di comando nel condurre la trasformazione. […] Per non ripetere l’ esperienza storica, nella quale molte volte sono stati espropriati di quanto conseguito, cercheranno di mantenere il controllo del processo politico in corso. Hanno imparato a farlo in assemblee e coalizioni sempre più ampie, in cui si raggiungono accordi tra quelli che partecipano con una rappresentanza a termine e soggetta a mandati molto precisi, sempre sottoposti alla convalida da parte dei rappresentati. Niente di questo, che richiede immaginazione e creatività sociologica e politica, deve essere deciso in precedenza. Uscirà dal di dentro dello stesso processo politico, quando sarà il momento.
(da Antistasis. L’insurrezione in corso)