Psicoanalisi in tv: i rischi del lettino-divano
di Fabio Troncarelli
Il meglio del blog-bottega /227…. andando a ritroso nel tempo (*)
«In treatment» o «Intrippment»?
E’ noto che quando Sigmund Freud nel 1909 stava per sbarcare negli Stati Uniti disse a Sándor Ferenczi e a Carl Gustav Jung guardando la costa: «Loro non sanno che stiamo portando la peste». La peste era ovviamente la psicoanalisi che avrebbe potuto sconvolgere la vita dei probi e laboriosi abitanti del Nuovo Mondo. Da allora è passato tanto tempo e gli psicoanalisti hanno cambiato atteggiamento: paradossalmente sono stati soprattutto gli psicoanalisti statunitensi che si sono sforzati in ogni modo per rendere fruibile la psicoanalisi al maggior numero di persone possibili, adattandola a contesti dove non era di casa, come ad esempio negli ospedali, e rielaborandola in molte forme, al punto da essere accusati a volte di snaturarla. Questo sforzo generoso, tipico di un Paese che ha un senso della collettività molto diverso da quello dell’Europa, ha stimolato una revisione dei concetti e della pratica psicoanalitica in tutto il mondo, a un punto tale che oggi difficilmente l’intervento dell’analista potrebbe essere paragonato a quello dell’Untore di manzoniana memoria.
Se questo è vero non possiamo meravigliarci che cinema, televisione e mezzi di comunicazione si interessino oggi in modo nuovo della figura dello psicoanalista e le dedichino uno spazio maggiore che nel passato. Un tipico esempio è la serie di telefilm (non format per favore: basta con queste parole-slogan di moda, usate a cavolo dagli Azzeccagarbugli, quando esiste un equivalente già in uso, perfino migliore) che è sbarcata da poco su Sky Cinema che si chiama In treatment. Si tratta di una replica di una serie che ha avuto molto successo negli Stati Uniti tra 2008 e 2010 che era però un’altra replica (non remake; diciamo la verità: plagio) di Bi Tipul, nato in Israele nel 2005.
La serie segue le sedute di terapia del dottor Giovanni Mari, che riceve nel suo studio dal lunedì al giovedì pazienti con problemi diversi, che vengono al ritmo di una seduta a settimana: tra loro ci sono anche un marito e una moglie che fanno terapia di coppia. Il venerdì Mari diventa a sua volta paziente, sottoponendosi a sedute con l’amica analista Anna, per affrontare i suoi problemi professionali e la sua difficile situazione familiare. Il dottor Mari è interpretato dal sempre bravo Sergio Castellitto. La regia è di Saverio Costanzo, figlio di Maurizio Costanzo, probabilmente afflitto da problemi edipici non comuni. Gli episodi sono stati scritti da Stefano Sardo, Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Ilaria Bernardini e Giacomo Durzi.
Dando per scontato che siamo davanti a una “ricostruzione” di sedute analitiche e che non dobbiamo cercare ingenuamente la “fedeltà assoluta” rispetto al modello imitato, va detto che la raffigurazione dell’attività dell’analista nella serie italiana (come già nella serie americana) è molto più credibile di quella deformante della psicoanalisi classica in retorici films hollywoodiani degli anni cinquanta, come ad esempio «La fossa dei serpenti». I pazienti del dottor Mari, dall’adolescente disadattata alla coppia in crisi, sono credibili ed emblematici, nella loro fragilità rabbiosa, della società attuale: e il dottor Mari, a sua volta fragile ma capace di reagire e di avvicinare gli altri con empatia, è a sua volta credibile ed emblematico della generazione degli psicoanalisti più giovani, che non vogliono più dare la peste ai loro pazienti, ma piuttosto un conforto. E tuttavia, anche se siamo in una dimensione meno enfatica e certamente più seria del passato, il pericolo della retorica non viene evitato e si ripresenta, strisciante, in una forma nuova. Infatti nella serie televisiva viene accentuato un lato della psicoterapia che è del tutto accidentale e che diviene invece un elemento fondamentale: una certa drammaticità del rapporto tra paziente e analista, che costringe a prendere posizione con una reazione immediata. Il dottor Mari interviene soprattutto sul “qui e ora”: i pazienti sono sempre sopra le righe e gli interventi sono sempre a botta calda; e questo incontro-scontro drammatico è reso ancor più evidente dal fatto che egli è seduto davanti al paziente, faccia a faccia, e non dietro al paziente sdraiato sul lettino secondo le regole della tradizionale seduta della psicoanalisi freudiana.
E’ stato giustamente osservato da Sarantis Thanopulos che una rappresentazione di questo tipo è necessaria per dare al film un minimo di vivacità1 (non a caso la si ritrova in molti altri film moderni quando compare l’analista, dall’orrido «La stanza del figlio»di Nanni Moretti al più profondo «Gente comune» di Robert Redford). Ciò è senza dubbio vero, anche se non va dimenticato che in altri tempi sono state tentate altre strade affascinanti per raffigurare l’analisi freudiana classica (si pensi a «Misteri di un’anima» del grandissimo Wilhelm G. Pabst). In ogni caso, il punto è che se il rapporto con l’analista è un batti e ribatti continuo, forse il pubblico si annoia meno, ma certo ha un’idea falsata e unilaterale della psicoanalisi. Ma ve lo immaginate un film su una coppia in cui marito e moglie litigano sempre, con la scusa che se facessero da mangiare o dormissero il pubblico si annoierebbe?
Comunque a prescindere da questo aspetto, su cui varrebbe la pena ritornare altrove, il problema vero è un altro: ammesso e non concesso che il regista cerchi di rendere più vivace la scena e per questo sottolinei gli elementi drammatici del dialogo e addirittura faccia innamorare il terapeuta della paziente (un vecchio trucco hollywoodiano su cui ci sarebbe molto da discutere), la terapia del dottor Mari, focalizzata sul “qui e ora” che razza di terapia è? Si fa fatica a rispondere a questa domanda perché Mari, pur essendo in senso lato freudiano, fa tutto e il contrario di tutto. Da un lato alterna tecniche psicoanalitiche diverse con la scusa che deve affrontare situazioni diverse, senza però porsi il problema della difficoltà di far convivere metodi di differente ispirazione; dall’altro lato fa semplicemente casino e mescola allegramente all’interno della seduta tecniche e stili discordatni che possono portare a risultati dissimili. Si lancia nell’analisi di un’adolescente disadattata, accettandone i tipici sbalzi d’umore e le reazioni borderline, come farebbe Searles, psicoanalista di tradizione statunitense2; ma nello stesso tempo abbandona senza battere ciglio questo atteggiamento e passa con disinvoltura all’analisi di una coppia, utilizzando un’altra tecnica di approccio, che è stata sviluppata da Dick e Main, esponenti della psicoanalisi oggettuale britannica3. Con gli altri fa quello che gli capita con gli altri, alternando metodi che sarebbero adatti al counseling psicodinamico4 con metodi adatti a una terapia breve ispirata alla psicoterapia psicodinamica5, giungendo fino al punto di abbracciare commosso una sua paziente o di picchiarne un altro, seguendo i suoi umori piuttosto che un qualunque metodo terapeutico. Nell’insieme dà l’impressione di procedere a casaccio. Per carità: è una brava persona. Ma a volte sembra più un amico che ti dà una pacca sulle spalle che un analista. I suoi commenti sono sensati, onesti, impegnati, ispirati a una metapsicologia freudiana e in senso lato bonariamente psiconalitici, a volte anche utili, ma in generale sembrano dettati più dal buon senso che dall’analisi del transfert e del controtransfert. E poi sono sempre commenti verbali, interpretazioni, spiegazioni: qualcosa di molto razionale, che può essere accettato da un Io cosciente che non sia autolesionista o rifiutato da un Io cosciente che non vuole cambiare. Non ci sono silenzi carichi di significato, esitazioni, lunghe attese, ironia, spiazzamenti, illuminazioni. Non c’è quello che si chiama in gergo lo “working trough”: il lavoro lento e misterioso con cui affiorano le rimozioni e si sgretolano le difese edell’Io. Oltre all’esibizione sensata e ragionevole della pura e semplice capacità di riflettere, non c’è nulla. E ciò non viene riscattato dai noiosi scrupoli di coscienza che Mari esibisce di fronte a un’analista che gli fa una “revisione”, per di più incongruamente davanti alla moglie cornificatrice: anche in questo pasticcio, a parte le lacrime di coccodrillo, siamo sempre nell’ambito della riflessione, dell’autocoscienza, del “sentirsi in crisi”. Non dello scoprire quale sono le pulsioni segrete che stanno dietro la crisi: il significato latente che sta dietro il significato apparente del discorso monotono che viene balbettato con monotona angoscia.
Se le cose stanno così, a mio parere c’è qualcosa di fallimentare in questo genere di terapia: le manca la sostanza stessa della psicoanalisi, l’inconscio. E’ questa la “peste” che può sconvolgere l’Io, facendogli capire, come diceva Freud che «il soggetto non è più padrone a casa propria». Il dottor Mari, con la sua buona volontà, tutto questo non te lo fa sentire. E i suoi pazienti non lo lasciano trasparire. Sono tutti molto consapevoli di quello che sentono e non fanno nessuna fatica a far emergere le loro parti sgradevoli. Ma se non c’è conflitto tra conscio e inconscio a che serve l’analista? Francamente, la parodia caricaturale di In treatement che si chiama Intrippment (prodotta dalla Fandango e visibile sempre su Sky) è involontariamente molto più efficace nel rivelare un simile conflitto del ritrattino agiografico dell’analista probo e diligente di In treatement. Il dottor Johnny Palomba che, dopo un’interminabile serie di lamentele di uno sfigato, risponde acido «Sti cazzi!» riesce, in una forma burlesca, a dare un’idea dello spiazzamento che le parole di un analista provocano in un paziente. Non fraintendetemi: non sto sostenendo che chi usa il turpiloquio o lo sberleffo è più bravo di chi cerca di essere serio. Sto solo dicendo, provocatoriamente, come ha fatto notare Lacan, che la verità dell’inconscio è quella del naso di Cleopatra: casuale, imprevedibile, sfuggente, misteriosa. L’inconscio – lo ha detto ancora una volta bene Thanopulos – è ciò che non si vede. Ciò che si manifesta in modo indiretto, attraverso lapsus, omissioni, sogni, associazioni di idee che sembrano fortuite, emozioni improvvise che sembrano inspiegabili. Mettere in scena questo, al cinema o a teatro, è veramente difficile e ancora più difficile è pretendere di farlo in un faccia a faccia altamente drammatico: una situazione in cui i personaggi si scontrano e si contrappongono frontalmente come nel teatro greco classico Un simile “psicodramma” permette forse di far emergere le passioni represse (o le nasconde meglio?), ma questo è solo il preambolo della comunicazione analitica. E’ senza dubbio essenziale cercare di “dire tutto” come sostiene Freud. Ma “dire” ciò che in fondo si sa da prima, anche se è soffocato dall’autocensura, non è una grande scoperta. E’ molto più significativo dire quello che non si sa. Quello che si teme di dire, quello che ci fa orrore. Sì, certo, esprimere ciò che è represso ci fa bene. Ma, tutto sommato, passato il momento di sfogo, ci trasforma spesso in un Marlon Brando di periferia, in crisi di astinenza per mancanza di applausi. Non siamo a Broadway o all’Actor’s studio. Siamo in mezzo ai misteri di un’anima e i misteri si celebrano nel segreto. E se invece provassimo a rappresentare quello che succede spesso in una vera seduta analitica: il silenzio? Pensate un po’: due persone che non si guardano in faccia e che non parlano per un’ora. Qualcosa di simile al celebre Empire State Building di Andy Wahrol. Si obietterà: ma il pubblico si stufa. E se fosse questo l’obiettivo da raggiungere? Che il pubblico si esasperi e cerchi di capire, invece di prendere le parti dell’uno o dell’altro come se fossimo a Ballarò o peggio a uno scontro tra ex-fidanzati esibizionisti davanti a una pervertita come Maria De Filippi?
In ogni caso, a parte le mie deliberate provocazioni, le critiche precise e circostanziate degli piscoanalisti al programma non mancano. Basta andare sul sito web della Società Psicoanalitica Italiana (Spi) di orientamento freudiano. Contrariamente a quanto sostiene con leggerezza un articolo di Stefania Rossini sull’Espresso6 non è affatto vero che la serie Tv sia stata “promossa dagli specialisti” e in particolare dagli “analisti della Spi” (pag 65). E’ vero il contrario, anche se le critiche sono state fatte con garbo, con tatto e con un atteggiamento di comprensione e di simpatia verso l’operazione televisiva. E’ certo una bella novità che gli psicoanalisti di oggi non siano più arroccati a difendere l’ortodossia com’erano quelli del passato. Ma non si può scambiare il loro interesse per un’approvazione senza riserve. Prendiamo ad esempio la recensione di Basilio Bonfiglio e Anna Maria Nicolò al quinto episodio della terapia di coppia di Lea e Pietro: «Ancora una volta Mari…ci stupisce. Arriva a studio con la sua aria triste e seria e incontra nel cortiletto all’aperto Lea che lo aspetta. “No, questa volta Pietro non c’è”. Lea comunica che Pietro stesso l’ha invitata a venire da sola alla seduta. C’è perciò un’altra variazione di setting. Sarà possibile che in una seduta di coppia si veda uno dei due da solo?… Ma in generale Mari ha un atteggiamento abbastanza easy, e perciò non si stupisce, ma accetta, non si interroga, non è per lui un’eccezione. Infinite sono le variazioni di setting che osserviamo in questo nostro intrattenimento, quasi dimenticandoci che il setting è una delle invenzioni più straordinarie che Freud ci ha lasciato e che è uno dei presupposti per la costituzione di una “situazione psicoanalitica”. Intorno al setting, in effetti, assistiamo a comportamenti contrastanti e opposti di Mari che vanno dal far aspettare Lea fino allo scoccare del tempo di inizio della seduta, fino alla preparazione, che egli stesso fa, del caffè per un altro paziente…Guardiamo adesso il dr. Mari, anche perché tifiamo tutti per lui. Possiamo confessare che ci dispiace, ma tante cose ci rendono perplessi. Ci sembra, ad esempio, che sul piano dell’analista venga meno proprio quella neutralità che preserva la libertà e lo spazio di movimento del paziente che viene intruso se il terapeuta indirizza il paziente con una netta presa di posizione. Si perde così l’opportunità di indagare le problematiche profonde che spingono Lea alla ricerca di un altro. Lo spettatore resta confuso nell’avere davanti agli occhi una Lea incoerente, cattiva, forse ‘pazza’ secondo la visione del senso comune..Può darsi che l’effetto sia di rendere l’esperienza meno inquietante e più accettabile, ma banalizza fortemente soprattutto la figura del terapeuta. Viene meno quella tensione legata allo spazio analitico che non è solo una invenzione degli analisti per apparire più misteriosi, ma fa parte integrante dei vissuti che accompagnano vicende misteriose e imprevedibili, quali sono quelle analitiche. Siamo confusi. Da una parte riconosciamo l’interesse di questo spettacolo che d’altronde sta spopolando dagli Stati uniti alla Russia, ma dall’altra ci chiediamo quanto esso raffiguri una ‘situazione psicoanalitica’ (Masud R. Khan)».
Anche altri si sono espressi allo stesso modo. Prendiamo per esempio l’inizio del commento di Luca Caldironi al quinto episodio dell’analisi di Sara, bella e cinica: «E’ un po’ buio in sala, o meglio nella stanza ed un dottor Mari sempre più invecchiato si guarda allo specchio. Ci chiediamo, ma si sta veramente osservando, riesce a vedersi? Da come inizia la seduta si direbbe proprio di no ed il suo richiamo ad una certa … ‘tempistica’ (riferendosi alla fine dell’analisi) di certo non appartiene al modo di procedere della terapia. Appare sempre fuori tempo, dall’incipit ad i successivi tentativi di intervento. Ma perché infierire su di lui, cerchiamo anche un po’ di capire, d’altra parte non è quello che tentiamo di fare tutti i giorni nel nostro lavoro con i nostri pazienti e si spera non solo con loro? Giovanni non differisce dall’essere umano in generale e ci offre un ritratto, forse fin troppo onesto, di come si possa essere, nel medesimo tempo, una persona sufficientemente solida ed anche estremamente ferita. Questo era ben emerso in diversi momenti e lui stesso l’aveva espresso nella sua ultima supervisione con Anna, ‘mi sento solo’! Il ricordo dei tempi all’istituto e poi … la frustrazione, l’isolamento lavorativo e quando, come ora, anche gli affetti familiari più intimi fanno acqua da tutte le parti, non gli rimangono che i pazienti. La sua famiglia adottiva! Ma sappiamo anche che quando si ricrea qualcosa di ‘familiare’ e questo qualcosa di familiare procede senza essere da noi riconosciuto, anche antiche e pericolose dinamiche interne lo accompagnano. E la ‘frittata’ è fatta! (questo lo vedremo poi). Giovanni (mi viene sempre di più da chiamarlo Giovanni, faccio fatica ora a vederne la componente professionale), con alcuni pazienti può navigare a vista, ma con altri e Sara è una di questi, perde il respiro, va in embolia, gli sudano le mani. Non è sufficiente il racconto che gli fa Sara della ragazzina che quasi rischia di morire in ospedale per offrirgli la possibilità di meglio cogliere quel nucleo di sofferenza profonda ed antica che vive la sua paziente. Lo coglie un po’, tenta di portare Sara attraverso collegamenti associativi alla sua adolescenza, ma poi qui si ferma. Non ce la fa ad andare oltre, ad avvicinare quel vuoto materno, non ce la fa a vedere quella bambina ancora prima che divenisse una ragazzina/adulta precoce ed anche lui come Humbert Humbert rimane sedotto e con-fuso. Il dottore fa fatica a vedere oltre quel … ‘ ho fatto tutto io … sono stata io a sedurlo … ‘ della sua paziente, è troppo arrabbiato nei confronti di quel ‘pervertito’ di Davide (suo alter ego del desiderio?, quel Davide con la pancetta … ) per tentare di inseguire più in profondità le tensioni che hanno fatto muovere Sara. Egli, aggrappandosi ad un seppur giusto richiamo alla responsabilità, rischia di perderne il senso più profondo. Così come non aveva colto l’opportunità offertagli da Sara quando commuovendosi, nella seduta precedente, gli aveva parlato proustianamente del ‘profumo del ciambellone’ che le preparava sua madre, anche ora fa un’altra ‘frittata’.».
Come si vede sono in molti ad avanzare riserve su In treatment. Quale può essere allora il valore di una simile serie? Non quello dichiarato dai suoi realizzatori o reclamizzato dalle interviste ai settimanali e ai giornali. E’ piuttosto il valore, indiretto e involontario, di rendere chiaro ed esplicito ciò che pochi hanno la lucidità di riconoscere. Lo stato di confusione dei nostri tempi e le attese ingenue dei nuovi pazienti nei confronti di un’analisi sempre più problematica. Come ha scritto Thanopulos: «Ciò che va… in scena è l’immaginario collettivo della cura psichica legato all’emergenza di emozioni difficili da riconoscere e gestire che cercano un luogo sufficientemente accogliente e affettivo per essere dispiegate. I pazienti che arrivano all’analisi la vedono, il più delle volte, con occhi vicini alla visuale di In treatment, secondo aspettative confuse e disorientate le quali ignorano cos’è una seduta analitica (anche quando coesistono con la sua cognizione). Queste aspettative l’analista deve accoglierle nel dispositivo del suo lavoro (che fa dialogare il tempo pressante della realtà oggettiva con l’inattualità dell’esperienza soggettiva) sapendo che se per il paziente che è dentro la seduta il lettino (che sospende il contatto visivo) è una condizione di emancipazione del proprio vissuto da una percezione del mondo prigioniera dei fatti, per il paziente che guarda da fuori il divano da salotto è più plausibile e familiare».
Detto questo vorremmo concludere con un’osservazione. A parte l’uso che ne possiamo fare noi, se consideriamo la serie in sé e le intenzioni di chi l’ha scritte e diretta, dobbiamo ammettere che certe forme di divulgazione possono scadere facilmente nella banalizzazione se non sono frutto di autentica passione, ma solo della capacità di fiutare quello che c’è di nuovo nell’aria. Ma se questo è vero, allora è preferibile la reazione più istintiva e sincera di un artista che sa poco di psicoanalisi e molto dell’animo umano. Quella di Bergman in «Scene di un matrimonio», così diversa dalla terapia di coppia politically correct. Anzi: quella di Raoul Walsh, uno dei registi più ignoranti della storia del cinema, che ha saputo girare un western profondamente psicoanalitico, lo straordinario, selvaggio Notte senza fine»7 in cui c’è di tutto: Incesto, Edipo, Trauma, Rimozione, Ritorno del rimosso, Perturbante e soprattutto Robert Mitchum, che mormora con aria smarrita alla sua ragazza che lo odia, ma finge di amarlo con gelida indifferenza: “Com’è cambiato tutto…Noi stiamo qui seduti …come se fossimo persone normali… Ma è meglio spararsi urlando nella strada …”.
1 Sarantis Thanopulos, L’analisi vista dall’esterno, «il manifesto», 20 aprile 2013.
2 Harold F. Searles, «Il paziente borderline»,Torino, Boringhieri, 1988.
3 Tom F. Main, «La comunità terapeutica e altri saggi psicoanalitici», Roma, Il Pensiero Scientifico, 1992.
4 Andreas Giannakoulas, «Il counselling psicodinamico», Roma, Borla, 2003.
5 Glen O. Gabbard, «Introduzione alla psicoterapia psicodinamica», Milano, Cortina, 2005.
6 Stefania Rossini, «Con Sergio sul lettino. Intervista al protagonista di “In treatement”», in «L’Espresso», numero 18, anno LIX, 9 maggio 2013.
7 Cesare Secchi – Paolo Vecchi, «Lampi e speroni danzanti. Temi e atmosfere del western psicologico», Torino, Lindau, 2000, pp. 119-135.
(*) Anche quest’anno la “bottega” ha recuperato alcuni vecchi post che a rileggerli, anni dopo, sono sembrati interessanti. Il motivo? Un po’ perché oltre 17mila e 700 articoli (avete letto bene: 17 mila e 700) sono taaaaaaaaaaanti e si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà: viva&viva il diritto alle vacanze che dovrebbe essere per tutte/i. Vecchi post dunque; recuperati con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più attuali o spiazzanti. Il “meglio” è sempre soggettivo ma l’idea è soprattutto di ritrovare semi, ponti, pensieri perduti… in qualche caso accompagnati dalla bella scrittura, dall’inchiesta ben fatta, dalla riflessione intelligente: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia, di rabbia e speranza che – lo speriamo – caratterizza questa blottega, cioè blog-bottega. [db]