«Qualsiasi cosa vogliate credere che sia»: un racconto di Matteo Telara
Il meglio del blog-bottega /106…. andando a ritroso nel tempo (*)
L’oggetto lo trovarono a bordo strada. Era in ottime condizioni, come se fosse appena uscito dalla vetrina di un negozio e qualcuno lo avesse dimenticato lì per errore.
“Unica spiegazione possibile” aveva detto Luca. “Non c’è nessun’altra ragione, per qualcosa del genere, di trovarsi in questo posto.”
‘Questo posto’ era la strada in cui vivevano da quasi un anno.
Stavano guidando di ritorno a casa, nel silenzio quieto e funereo delle villette a schiera, quando l’avevano entrambi notato. Era sul marciapiede. Il marciapiede era sgombro e in giro pareva non esserci nessuno. “Un appoggia cose” aveva detto Sara. “Una scultura in plastica” aveva detto Luca.
“Scultura?”, aveva detto Sara, “e di cosa?” Si tenevano a braccetto. Sara aveva stretto Luca al suo fianco e si era messa a ridere. “A me non pare assomigli a niente.”
“Sembra un cane.”
“Sembra un gigantesco posacenere.”
“È buffo.”
“Magari è una lei.”
“Magari no.”
“Forse il proprietario non lo voleva più.”
Continuavano a stringersi nell’aria fresca. Si erano guardati attorno. Nulla a indicare che l’oggetto appartenesse a qualcuno.
“Cosa facciamo?” aveva chiesto lui.
“È un po’ kitsch.”
“Un po’ tanto.”
“Però mi piace.”
“Potremmo metterlo in soggiorno.”
“Potremmo metterlo nell’entrata.”
E lo avevano caricato in macchina.
L’oggetto era grande e in plastica laccata. Era colorato. Ricordava molte cose senza esserne nessuna in particolare. Arrivava ad altezza fianchi di una persona di media statura e aveva le medesime dimensioni di una sedia da cucina. Ma le forme erano stondate e l’interno pareva vuoto. A batterci sopra le nocche della mano non si sentiva altro che toc, toc, toc, un rimbombo ovattato. Come a lanciare un sasso in un pozzo di cui non si riesce a sentire il fondo.
Lo avevano messo in soggiorno di fianco alla porta della cucina. Posizionandolo, Sara aveva detto “tutti si chiederanno cos’è.” Aveva detto “movimenterà le nostre conversazioni.”
Si erano trasferiti da poco, il quartiere era di nuovo sviluppo. Case a due piani. Giardinetto. Garage. Mezz’ora di macchina dalla città. Il cartellone per pubblicizzare la vendita diceva PER INIZIARE LA TUA FAMIGLIA.
“Di sicuro movimenterà le tue” aveva detto lui.
“Cioè?”
“Non è che discuti di massimi sistemi.”
“I tuoi pensieri neanche con la bomba atomica si movimentano.”
“Perlomeno penso.”
“Chiamalo pensare.”
“Vuoi litigare?”
“Sei tu che hai cominciato.”
Avevano finito di sistemare l’oggetto e per un po’ erano rimasti a guardarlo. Poi si erano a loro volta fissati e avevano sorriso. E se ne erano dimenticati.
I litigi veri e propri cominciarono alcuni giorni dopo. E nelle settimane successive andarono inasprendosi. Si litigava per nulla, per una camicia, per un programma televisivo, per un’opinione. Le discussioni nascevano dal niente e crescevano nel niente. E nel niente morivano. Ma in quel niente qualcosa accadeva.
“Cosa sta succedendo?” chiedeva lui.
“Non lo so, non ci riconosco più.”
Da una parte c’era la sensazione d’essere giunti a un punto morto della propria vita. Un luogo dove l’aria mancava e chissà se mai sarebbe tornata a circolare. Crisi di mezza età. Infelicità coniugale. Ripensamenti sulle proprie scelte forse. Forse depressione da ceto medio. Poi nervosismo. Sempre. Troppo. In crescita.
Dalle parole si cominciò a passare alle mani. Si passò ai piatti che volavano, alle posate strette tra le dita. Una tazza di caffè gettata sul pavimento, poi sul muro, poi all’indirizzo dell’altro. I primi pugni vennero picchiati sul tavolino. Arrivarono le urla, le sberle. Le porte sbattute.
Ma sbattute le porte, FUORI, tornava la calma.
Tornava la pace, fuori. Fuori si riusciva di nuovo a ragionare. Si dialogava, si analizzava, si cercava di capire.
Finché a lei era venuta in mente questa cosa.
Era successo dopo l’ultimo litigio, mentre camminava per strada e sentiva la rabbia abbandonarla. Aveva estratto il telefonino dalla tasca della giacca e lo aveva chiamato. Aveva detto: “dobbiamo parlare. Ma non a casa. Vediamoci al Café Rossini. Tra venti minuti.” E una volta l’uno di fronte all’altra gli aveva detto “e se fosse colpa sua?”
Ci pensarono insieme a lungo. Davanti a due cioccolate calde. Ne ragionarono. Era un’idea assurda.
“Non può essere” mugugnò Luca con la tazza sollevata davanti alle labbra.
Eppure mezz’ora prima erano quasi arrivati a scannarsi, mezz’ora prima lui aveva sentito la collera risalirgli il braccio mentre stringeva un cacciavite con cui stava riparando una sedia. E lei lo aveva guardato torva, con un coltello da cucina a pochi passi da dove si trovava. Si stavano muovendo ogni giorno un poco più avanti. E ogni volta diveniva sempre più difficile fermarsi in tempo.
Avevano gridato. E lei era uscita piangendo in strada.
“Le cose non determinano i comportamenti” disse lui sorseggiando la cioccolata.
“Guardaci adesso, ci vogliamo bene adesso, non stiamo litigando…”
“No. Non stiamo litigando. Eppure mi pare tutto così assurdo.”
“Anche a me. Ma appena usciamo da casa siamo di nuovo capaci di parlare” valutò lei.
“Forse è la casa in sé. Forse è perché fuori ricominciamo a respirare. Siamo più rilassati…”
“Ci ho riflettuto. Anche quando siamo al piano di sopra, o in camera, o in cucina le cose vanno meglio. Pensaci. È quando siamo in soggiorno o nelle sue vicinanze che tutto succede.”
Lui ci ragionò. “Mi sembra folle” disse.
“Tutta questa situazione lo è.”
“È vero” confermò lui posando la tazza sul tavolo.
“Tentare non costa niente.”
Decisero che sarebbero tornati a casa. Sarebbero rientrati, avrebbero ricominciato a fare quello che stavano facendo. Avrebbero visto come il resto della domenica sarebbe passata. Si sarebbero monitorati a vicenda. Individuando ogni principio di rabbia, ogni scatto di nervosismo, ogni ragione d’insofferenza. E se avessero di nuovo sentito l’irascibilità montare, uno di loro avrebbe caricato l’oggetto in macchina prima che la situazione precipitasse, prima che entrambi perdessero davvero il controllo. E lo avrebbe portato via, lontano. Lo avrebbe lasciato da qualche parte, in qualche discarica, chissà dove.
Avrebbero poi visto se le cose miglioravano.
L’ispettore Spinetti aveva passato tutta la mattinata a cercare di tenerli calmi, quei due. Ma cosa gli era preso? Quando vide arrivare il commissario tirò un sospiro di sollievo. Almeno in sua presenza si sarebbero dati una calmata.
“È come mi è stato detto?”, chiese il commissario presentandosi sulla porta della villetta. C’erano volanti ovunque. Un’ambulanza con le luci spente davanti al vialetto dell’entrata. La solita folla di curiosi. Di giornalisti, per fortuna, nemmeno l’ombra.
“Non ho mai visto nulla del genere” rispose l’ispettore Spinetti. “Dentro è un mattatoio. Secondo il medico non hanno smesso finché hanno avuto fiato in gola.”
Il commissario lo fissò. Non disse nulla.
L’ispettore continuò “lui aveva un cacciavite, lei un martello. Il sangue è schizzato fino al soffitto. Non ho mai visto tanto accanimento in vita mia.”
“Sei ancora giovane” disse il commissario entrando.
Ma l’ispettore aveva ragione.
Pochi minuti dopo, in giardino, si stavano ancora trattenendo dal vomito. I fazzoletti umidi sulla bocca, gli sguardi volti verso il muro di cinta, gli occhi lucidi.
Cercarono di parlarne.
“Si sono uccisi l’un l’altro. Non si sono fermati finché i loro cuori non hanno smesso di battere. Alcune ferite sono molto profonde, altre appena accennate, scagliate quando non avevano praticamente più forza nelle braccia.”
“Senza più forza ma ancora a scannarsi” disse il commissario riponendo il fazzoletto nella tasca. Poi si volse verso la casa. Quelli della scientifica avevano ricominciato a litigare. “Digli di smetterla. Ma cosa gli ha preso?”
“Non lo so. È tutta la mattina che vanno avanti così.” L’ispettore si diresse verso la soglia. “Tonazzini!, Marchetti!, venite fuori a rinfrescarvi il cervello. Ecchecristo…” Poi tornò dal commissario. “Cosa sappiamo della coppia?” si sentì domandare.
Aprì il block notes. “Si erano trasferiti da poco. Tutta quest’area è di nuova costruzione. I vicini si conoscevano appena. Ma pare fossero una bella coppia, sempre insieme, sempre sorridenti. Nelle ultime settimane litigavano sempre più spesso però. Si sentivano volare i piatti… Anche ieri, a quanto pare. I vicini hanno sentito le grida, poi la signora è stata vista uscire da sola. Poco dopo è uscito anche lui. Pare siano tornati insieme dopo un paio d’ore… Il resto l’ha scoperto la donna delle pulizie stamattina.”
Il commissario scosse la testa. “Mio dio.” Si guardò di nuovo attorno. “È un mondo malato” disse poi, avviandosi verso la volante.
IN VENDITA.
Il cartello è legato all’inferriata della villetta. Sotto, c’è riportato un numero di telefono con di fianco l’intestazione IMMOBILIARE REALCASA. I tizi del camioncino stanno finendo di caricare le ultime cose sul montacarichi.
“Portiamo tutto al magazzino?”, chiedono.
La signora dell’agenzia fa cenno di sì.
“Anche questo?”, chiede uno dei tizi. Ha appoggiato a terra un grosso oggetto in plastica colorata. Il camioncino è già pieno, il suo collega sta chiudendo i portelloni, non accenna a smettere di lamentarsi e sbuffare.
“Cos’è?”, chiede la donna.
L’altro scuote la testa. “Non lo so, sembra nuovo.”
“Lascialo sul marciapiede” dice la donna. “Ritorneremo domani.” Sale sul veicolo parcheggiato di fianco al camioncino e aggiunge “altrimenti che se lo prenda chi vuole.”
Eccola:
una station wagon che accosta e due bambini che escono dalle portiere posteriori.
Corrono con eccitazione mentre dal lato del guidatore scende un uomo sui quarant’anni che dice “piano! Ma perché mi avete fatto fermare? Cosa avete visto?”
I bambini vengono raggiunti dall’uomo.
“Cos’è?” domandano.
“L’ho visto prima io” dice uno dei due.
“No, prima io” dice l’altro.
Il padre riflette qualche momento. Sta ancora ragionando. “Forse è qualsiasi cosa vogliamo credere che sia” dice poi.
“Allora è un robot” dice uno dei bambini.
“Allora è una postazione spaziale” dice l’altro.
“Possiamo prenderlo?”, domanda il primo.
“Possiamo prenderlo?”, gli fa eco il secondo.
L’uomo si guarda attorno. Sono solo di passaggio. Stanno rientrando da un fine settimana in montagna. Non conoscono la zona. Villette a schiera. L’oggetto come abbandonato a bordo strada. Nessuno in giro a cui domandare.
La portiera di fianco al guidatore si apre e dalla station wagon sbuca la testa di una donna, lo sguardo assonnato. Domanda “cosa state facendo?”
“Avete svegliato la mamma” mormora l’uomo ai bambini. Poi si rivolge alla donna e dice “resta in macchina amore, arriviamo subito.”
Guarda i figli e dice “ok, lo portiamo con noi. Ma voglio che fate i bravi per tutto il viaggio di ritorno.”
I bambini annuiscono.
“Si chiama super-robot” dice il primo una volta in macchina.
“È una postazione spaziale” dice il secondo.
Il padre si gira.
“Ve lo dico una volta e basta. Adesso stiamo tutti quanti in silenzio finché non arriviamo a casa. Non voglio sentire volare una mosca ok? Poi metteremo questa… postazione-spaziale o robot, o qualunque cosa voi decidiate che sia nella vostra cameretta. In mezzo, tra i vostri lettini.”
La donna si è già riaddormentata.
L’uomo mette in moto.
La station wagon riparte e sparisce in direzione autostrada.
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(*) Anche quest’anno ad agosto la “bottega” recupera alcuni vecchi post che a rileggerli, anni dopo, sono sembrati interessanti. Il motivo? Un po’ perché circa 12mila articoli (avete letto bene: 12 mila) sono taaaaaaaaaaanti e si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà: viva&viva il diritto alle vacanze che dovrebbe essere per tutte/i. Vecchi post dunque; recuperati con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più attuali o spiazzanti. Il “meglio” è sempre soggettivo ma l’idea è soprattutto di ritrovare semi, ponti, pensieri perduti… in qualche caso accompagnati dalla bella scrittura, dall’inchiesta ben fatta, dalla riflessione intelligente: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia, di rabbia e speranza che – speriamo – caratterizza questa blottega, cioè blog-bottega. (db)