Quando la dignità è più forte della paura: la lotta di 60 braccianti Sikh nelle campagne romane

(dal sito di Clash City Workers)

Questa è una piccola ma immensa storia di lotta. È la storia di 60 lavoratori impiegati in un’azienda agricola della campagna romana, nei pressi del litorale, che produce ortofrutta e aromi per i maggiori marchi della grande distribuzione e discount, da Coop a Conad, ad Eurospin.

I braccianti che lavorano per quest’azienda sono quasi tutti indiani Sikh provenienti dal Punjab, ad eccezione di qualche italiano che ricopre però mansioni di livello superiore. Anche la loro sarebbe, anzi lo è, una tra le innumerevoli odiose storie di sfruttamento che percorrono le campagne del nostro paese da nord a sud. Lavoratori che affollano la cosiddetta ‘zona grigia’ del mercato del lavoro, con l’esistenza di un contratto che però è pura carta-straccia, e che serve solo al padrone per tenersi al riparo da eventuali controlli a sorpresa in azienda. Rispetto ai lavoratori, invece, nessuno scrupolo a farsi beffa di quanto spetterebbe loro effettivamente in base a quello stesso contratto sottoscritto anche dal padrone.

Accade così che questi lavoratori sono costretti a paghe da fame di 4 euro l’ora e a giornate lavorative interminabili di 10 ore minimo al giorno, quando per contratto non dovrebbero lavorare più di 6 ore e mezza al giorno e prendere una retribuzione di 8 euro l’ora circa. Per non parlare delle condizioni lavorative: una sola pausa giornaliera di lavoro, quella per il pranzo, di non più di mezz’ora circa e con l’obbligo di portarsi da casa pasto ed acqua; un lavoro duro e insopportabile, esposti al freddo e alle intemperie di inverno o alle temperature infuocate delle serre in estate; sotto lo sguardo scrutatore e vigilante di un caporale autoritario e dispotico; obbligati a comprarsi in azienda le attrezzature di cui necessitano per lavorare, come ad esempio i guanti.

Come si fa a sopportare tutto questo? Per paura! Semplice quanto odiosa, la paura di perdere anche la più squallida miseria, piegati dal bisogno di portarsi a casa quel minimo che ci può assicurare la sopravvivenza. È quella stessa paura che abbiamo iniziato ad avvertire un po’ tutti e sempre più intensamente in questi ultimi anni di crisi, trasformata da padroni e loro ‘tutori’ istituzionali in un’occasione per renderci sempre più docili e mansueti mentre a colpi di riforme ci stanno spogliando anche dei più elementari diritti e tutele sul posto di lavoro. Ma, evidentemente, c’è un sentimento ancora più forte della paura. È quel sentimento che scatta quando si ha la sensazione di aver toccato il fondo, quando si percepisce che quando è troppo è davvero troppo, quando non c’è più nulla da cedere, quando non è rimasta che la propria dignità da barattare e quella no, non si tocca! È quel sentimento di rabbia e di voglia di riscatto che leggi negli occhi dei tuoi colleghi e che ti fa salire un coraggio di cui non sapevi di essere capace, anche quando in ballo c’è davvero tanto, non solo il posto di lavoro, ma insieme a questo, come succede a molti immigrati in questo paese, la possibilità di rinnovare il proprio permesso di soggiorno e quindi vedersi negati quel minimo di diritti che ti permette di percepirti ancora come un essere umano. È per questo che la piccola storia che riguarda questi braccianti sikh della campagna romana è in realtà immensa. Perché, nonostante le condizioni di profonda precarietà in cui si trovano a lavorare e a vivere, insieme hanno trovato il coraggio di lottare uniti e compatti per migliorare le proprie condizioni di lavoro.

Si sono auto-organizzati e sono entrati in sciopero, richiedendo l’allontanamento del caporale, la fornitura delle attrezzature a spese dell’azienda, un aumento della paga oraria e un’ulteriore pausa dal lavoro di 10 minuti la mattina per fare colazione. Il padrone è stato costretto a recarsi in azienda, che da tempo immemorabile ormai gestiva a distanza tramite l’intermediario scelto, e a negoziare con i lavoratori. Ha provato a fare la voce grossa, a non cedere, a ricattarli, dicendo loro che potevano anche andarsene, tanto ne avrebbe trovati chissà quanti di indiani disposti a sostituirli alle medesime condizioni. Il tempo di metabolizzare il colpo e riorganizzarsi e il giorno dopo è ancora lotta: i braccianti Sikh si recano sul posto di lavoro, iniziano la loro giornata lavorativa ma si fermano dopo 5 ore di lavoro e tutti insieme escono dall’azienda, e al padrone, costretto nuovamente a recarsi sul posto, gridano: ‘sarà così tutti i giorni finché non ci riconoscerai quello che chiediamo!’. E così vincono! I 60 lavoratori Sikh hanno vinto: hanno ottenuto dall’azienda la fornitura di attrezzature a suo carico; hanno costretto il datore di lavoro ad allontanare il caporale autoritario che li aveva gestiti sino ad allora, anche se poi sostituito da un altro ma meno dispotico ed odioso; hanno ottenuto un ulteriore pausa dal lavoro di 10 minuti la mattina e un aumento di 50 centesimi della paga oraria. Forse sembrerà poco, ma non lo è…quello che sono riusciti a costruire questi lavoratori è straordinario, hanno percepito la loro forza e l’hanno messa in pratica, e potranno farlo altre 100, 1000 volte. Ci hanno insegnato che non può essere la paura, che i padroni e i politici, loro amici, tentano di diffondere tra noi, a gestire le nostre vite. Abbiamo qualcosa di più prezioso che ci costringe a lottare: la nostra vita, che dobbiamo poter vivere con dignità!

 

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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