Quante scarpe per Laila Wadia
Il 6 dicembre arriva in librería «Se tutte le donne» (Barbera editore) di Laila Wadia, scrittrice indiana, ma triestina da un ventennio: 14 racconti sulla forza (ma anche qualche debolezza e silenzio) femminile, con migrazioni e meticciamenti, ad attraversare le età più varie (Melissa ha 8 anni, Ginestra 55), diversi Paesi e molte classi sociali. Margherita è italiana ma vive in Pakistan e finisce insegnante alle ragazze di un campo profughi. Profuga è anche la palestinese Zahra che diventa folle (o forse finge). Anthea è una canadese emancipata ma tradita che a Venezia impasra più su se stessa che sull’Italia. Assunta con 4 figli pià uno in arrivo finisce per sbaglio a fare la telefonista “erotica”. Rajnigandha deve scegliere se salvare il padre o perdere l’unica figlia. Rosa gira con un passeggino vuoto. E ancora: può una prof sostituire genitori tanto ricchi quanto ignoranti? Nel gioco di due mogli vincerà la brutta contro la bella o si ritroveranno unite contro il destino che le vorrebbe nemiche?
Dopo la casa-mondo di «Amiche per la pelle» (E/O nel 2007) e le istruzioni in stile helzapoppin di «Come diventare italiani in 24 ore» (Barbera, due anni fa) Laila Wadia torna al piacere di raccontare muovendosi fra molti mondi, scoprendo vecchi-nuovi significati alle parole.
La bella copertina del libro mostra un ombrello abbandonato ma forse due scarpe sarebbero state più adatte perchè – scrive Wadia – «indossare le scarpe di un’altra persona significa farsi carico del suo destino». La prima domanda per l’autrice è qual è stato il cammino più faticoso dal punto di vista della scrittura?
«Amo stare scalza, sentire il battito della terra sotto i miei piedi, ma per amore delle storie del/dal mondo cammino incessantemente e cerco di cambiare continuamente scarpe. “Calzare” gli altri permette di vivere un’esperienza osmostica, di riflessologia. Amo indossarne belle, brutte, basse, alte. Le uniche scarpe che cerco di non mettere sono quelle fatte di indifferenza, l’unica strada che non vorrei imboccare è quella del solipsismo».
La dedica iniziale alle sorelle belle ma troppo silenziose e poi la frase finale del libro (ripresa dalla rivista Internazionale) dichiarano che l’empowerment delle donne è lontano?
«Empowerment significa una cosa diversa per ogni latitudine: ahimé, in certe parti del mondo le donne si accontentano di troppo poco. Bisogna trovare un’asticella comune per misurare la capacità di valorizzarsi e poi controllare che questa misura venga applicata in tutto il mondo. Per me non ha senso l’empowerment in Occidente se in altri Paesi le donne non possono fare cose semplici come guidare o recarsi alle urne».
«Fortuna, felicità e dio»: parole che dovrebbero essere vietate in tutte le lingue dice un tuo personaggio. Lo pensi anche tu?
«Rappresentano per me lo spartiacque fra Occidente e Oriente. Qui vengono considerati quasi dei diritti, in Oriente sono conquiste difficili, se non miraggi per tante e tanti. Sicuramente tre parole da vietare nella bocca dei politici in qualsiasi lingua».
Campi profughi: l’odore della disperazione ma anche ragazze e donne che si salvano. Due racconti che hai scritto per esperienze conosciute da vicino?
«Sono tutte storie vere, lette, sentite, conosciute, purtroppo sempre attuali. Soprattutto non sono singole persone, ma spesso esperienze di più donne. Quante sono le vittime di guerre insensate, di fanatismi che si sacrificano in silenzio giorno dopo giorno senza che nessuno se ne accorga?».
Freud mischiato a Cicciolina per la casalinga telefonista a luci rosse: a lei come ad altre si chiede di essere «medico, consigliere, puttana, mamma. amica»… Non sono troppe le scarpe?
«Non è forse quello che fanno le donne ogni giorno? Cioè cambiandosi, plasmandosi, stancandosi, lamentando, promettendosi che domani sarà diverso?».
PICCOLA NOTA
Questa mia intervista è uscita – al solito: parola più, parola meno – ieri sul supplemento libri del quotidiano “L’unione sarda”. (db)