Quattro cosucce per volare su Marte(dì)
1 -Un nuovo, bel «Robot»; 2 – Clelia, pesatrice di anime; 3) – in arrivo «ALIA Evo»: 4 – Terre immaginarie con Avoledo
1.
Robot, Delos e dintorni . «Le cose non vanno bene» spiega Silvio Sosio nell’editoriale intitolato «La responsabilità dei lettori» e ci invita a comprare i libri e gli e-book. La buona notizia c’è: «Non chiude “Robot”, non chiude Delos Book». Però meno libri stampati e più digitale: non occorre essere meteorologi per capire dove soffia il vento. Magari approfittate subito dell’offerta per abbonarvi a «Robot» (33 euri versione stampata o 23 in digitale). Segnalo pure che «ogni due settimane su delosstore.it/ebook» a partire da 0,99 ci sono «i capolavori della fantascienza breve», a esempio due di Nancy Kress e ben tre di Robert Sawyer, Paul Di Filippo e Barry Malzberg nonché «La cosa» di John Campbell e il suo figlioccio letterario (incuriosisce assai che la storia venga raccontata dall’altro punto di vista) cioè «Le cose» di Peter Watts. Poche pagine dopo ecco un’altra offerta, sempre a partire da 0,99: in questo caso «Classici della fantascienza italiana»; nel primo sestetto cantano Catani, Pestriniero, Altomare, Giachino, Bordoni, Cerrino.
Dopo la divagazione passo al «Robot» numero 71: 192 pagine per i consueti 9,90 euri. Per una volta molto indigeno: ben 6 racconti contro i 2 di Mary Robinette Kowal che era finalista (meritatissima) al Premio Hugo 2014 e di Paolo Bacigalupi che è però di evidenti origini italiane. Del sestetto italico ne ho apprezzati 4: Luca Prati con genitori davvero insoliti, lo steampunk di Roberto Guarnieri, il vecchio (1963) «Troppo perfetto» di Pierfrancesco Prosperi e «Vivi» di Roberto Bommarito, premio Robot 2014 che mette sottospra gli Eden “canonici”. Meno convincenti, pur se ben scritti, gli altri due. A completare il numero le consuete rubriche che mi sono parse meno frizzanti del solito… sarà perché non ho mai amato «Neuromante» (ma ovviamente Salvatore Proietti scrive cose molto interessanti) e tantomeno Gianfranco De Turris.
2.
Sono contento di segnalarvi che esce «La pesatura dell’anima» n. v. – cioè nuova versione – di Clelia Farris, scrittrice tricontinentale (Sardegna, Egitto e Appalacchi ma questa se non la capite ve la spiego un’altra volta). A un primo sguardo capisco che l’autrice non ha riscritto il romanzo… ma quasi. Se capisco bene, è andata così: Francesco Verso, scrittore di fantascienza che prima collaborava con Kipple edizioni (dove anche Farris ha pubblicato), ha messo su una piccola casa editrice, Future Fiction, e ripropone «La pesatura dell’anima» in ebook. Io ne avevo parlato, assai bene, in blog tre anni fa (lo trovate qui: «Clelia Farris: da tenere d’occhio») e mi fa piacere che Clelia abbia rivisto il testo, chiarificando alcuni passaggi, spostando il glossario in cima, aggiungendo link interni (per approfondire aspetti storici, mitologici) e insomma immergendo chi legge ancor di più nel mondo delle Due Terre, un fanta-Egitto che a me continua a sembrare geniale.
E’ in vendita su Amazon. Sento già chi legge (fors’anche Clelia) digrignare, sibilare, sciabolare frasi del tipo: «come? la brutta e cattiva Amazon». Il motivo è presto detto: gli altri distributori di ebook non pagano! Sconcerta che uno squalo come Amazon sia corretto nei confronti dei piccoli editori o autori? Sono contraddizioni non nuove in seno all’editoria.
3.
Ed ecco la presentazione all’antologia «ALIA Evo» (che mi riprometto di presto leggere e… raccontarvi).
Lo Sguardo degli Altri
di Silvia Treves
Questo e-book è un’antologia. Una antologia di racconti fantastici. Ce ne sono tante, sicuramente meno che di romanzi, ma sempre tante. Questa antologia, poi, è scritta da diciassette autori diversi. E le antologie scritte a tante mani di solito sono ineguali, troppo eterogenee, prive – molti lettori ne sono convinti – di un centro di gravità. Di un filo rosso che permetta loro di non perdersi, di passare da un racconto all’altro raccogliendo sensazioni, percezioni, emozioni profonde, invece di farsele scivolare via dalla mente, sostituite da altre diverse che durano solo il tempo di poche pagine. Questa antologia è differente. Possiede il proprio filo, anche se gli autori hanno scritto seguendo le loro ispirazioni e senza accordi preventivi. È un filo profondo, quindi, frutto di una necessità intima di seguire una direzione comune, attraverso sentieri diversi. In questa antologia, come nella vera narrativa fantastica, è tutta una questione di sguardi. Sguardi di altri, diversi dai soliti noi che guardiamo allo specchio la mattina e incontriamo per le strade che conosciamo. Altri.
Alcuni di questi Altri, indossano i completi eleganti che vorremmo permetterci, o forse acquistano jeans e magliette come le nostre. Ci somigliano, e guardano un mondo che quasi si confonde con il nostro: forse un po’ più violento (L’arsenale dei cuccioli), o un po’ più corrotto (Segni di morte).
Qualche Altro si presenta con le sembianze di una persona amata (Lazzarella), ma è ormai troppo distante, il suo sguardo riflette un buio insondabile. Nel gioco di sguardi possiamo essere noi a sembrare distratti, incapaci di vederlo (Il misterioso diario del giovane Piotr).
Altri vivono in realtà ingannevoli, riflesso del riflesso di altri sguardi e di altri giorni (F come Frankenstein). Realtà attraversate da visioni indefinibili e inspiegabili (Avvistamenti) che ci inducono a confrontarci con sconosciuti profondamente umani.
Altri sono trasfigurazioni inquietanti e sofferenti di creature famigliari, compagni a cui guardiamo con affetto e fiducia (La solita spiaggia) o che, in un futuro lontano, potremmo usare senza scrupoli (La Farfalla e le zanzare).
Altri sono versioni egocentriche, capricciose e invecchiate di personaggi davvero grandi (Viale del tramonto).
Altri sono potenti e giocano partite di infinita durata e le loro mosse possono cambiare il nostro destino (La sindrome della locusta, La guerra degli dei). O ci chiedono, beffardamente e con ragione, conto della nostra irresponsabilità (Gran Dio, morir sì giovane).
Altri sono disposti ad aiutarci nonostante tutto (La clinica dell’arcobaleno, La residenza sicura Mikasa), anche se noi umani siamo ciò che siamo. E sanno vederci davvero, meritandosi il nostro amore e il nostro rispetto (Piena di grazia).
Altri sono noi, forse un po’ più avidi e più sciocchi (La piccola Blanche) ed è praticamente impossibili salvarli. Altri covano odio e vogliono vendetta perché nessuno ha avuto compassione di loro (La valle delle teste mozzate). Le tante versioni di noi che popolano questi 17 racconti vivono ignari davanti a questi osservatori: percorrono le vie delle nostre città, partono per luoghi di vacanza, svolgono lavori impegnativi, coltivano forme d’arte, cercano di sopravvivere, usano la violenza e l’inganno. Talvolta, nei racconti più ottimisti, diventano un po’ più saggi. E chi sta per girare pagina e cominciare «ALIA Evo»? Troverà domande, dubbi, manciate di inquietudini, visioni grandiose, piccole perle, occasioni per divertirsi e per divergere dalle solite strade. E nessuna rassicurazione, proprio come nella buona narrativa fantastica.
Un’ultima cosa.
Questo e-book, «ALIA Evo», è nato quasi esattamente un anno fa, per scommessa. A sfavore giocavano molte circostanze e convinzioni che potremmo riassumere con domande lapidarie: Chi mai vorrà leggere l’ennesimo libro di buona qualità qui e ora? In questo momento di passaggio incerto dalla carta stampata alla e-editoria, e proprio adesso che milioni di persone hanno veramente altro a cui pensare? Chi mai vorrà leggere questo libro, una antologia di racconti fantastici? A dispetto di tutto, autori, traduttori, curatori, editori hanno creduto che questo «ALIA», il primo ALIA virtuale dopo sei edizioni cartacee, avrebbe incontrato un numero di lettori sufficiente a premiare lo sforzo, la cura, il tempo necessari a produrlo. E magari a fare anche il bis. Buona lettura.
4.
«Non pensavo che con “Le radici del cielo” avrei incontrato un pubblico così diverso…». Sabato scorso «Alias» (supplemento del quotidiano «il manifesto») ha dedicato una pagina – curata da Francesco Mazzetta – alla «Trilogia mistica che incanta i giovani russi»; eccone una parte, l’intervista a Tullio Avoledo. Io probabilmente ho capito metà delle questioni connesse ai video-giochi… ma ho amici e amiche che mi spiegheranno (veeeeeero?) il resto, sempre che non riesca a incastrare mio figlio. Una pignoleria: che nella buona fantascienza sia assente una riflessione religiosa è assai contestabile; infatti ai 3 bellissimi testi citati – come eccezioni – all’inizio dell’intervista se ne potrebbero aggiungere altri 20, forse 30, altrettanto ricchi.
«Sono arrivato a Glukhovsky tramite il video-gioco Metro 2033» racconta Tullio Avoledo: «sia io che mio figlio eravamo accaniti giocatori, così quando ho saputo che la casa editrice Multiplayer portava Dmitry al Salone del Libro di Torino del 2010, ho contattato Multiplayer chiedendo se era possibile incontrarlo. Avevamo un intervallo utile di poche decine di minuti, fra un impegno e l’altro: un tempo più stretto di quelli che affronta George Clooney in Gravity… Siamo riusciti comunque a parlare. Ma non pensate che ci siamo messi a discutere dei massimi sistemi letterari, o di filosofia: quello che mi interessava era sapere se ci fosse qualche glitch nel gioco per trovare più munizioni. Dmitri mi gelò dicendomi che non aveva alcun controllo sul videogame… Così ci trovammo costretti a parlare di libri. E lui mi espose il progetto del “Metro Universe”, questa innovativa creazione multimediale aperta alla collaborazione di fan e professionisti di tutto il mondo. Dmitri mi chiese se non fossi interessato a partecipare con un libro a quell’avventura. Io ricorsi a tutta la mia diplomazia per tirarmene elegantemente fuori. Avevo già troppe cose in cantiere.
Poi però, quell’estate, lessi il romanzo “Metro 2033” e ne rimasi affascinato. Non era il solito romanzo d’azione. Aveva una profondità e una dirittura morale che fecero immediatamente presa su di me. Così io e Dmitri ci scambiammo alcune mail, e un pomeriggio ci incontrammo di persona a Venezia, e al tavolino di un bar davanti al teatro La Fenice gli raccontai la storia che avevo in mente di scrivere. La cosa è nata così. Non pensavo che scrivendo quel libro avrei incontrato un pubblico completamente diverso da quello dei miei lettori abituali. Nel 2012, quando presentai l’edizione russa del libro alla Biblioteca di Stato di Mosca, la vecchia Biblioteca Lenin, mi trovai davanti 500 ragazzi e ragazze, la gran parte sotto i vent’anni. Fu una folgorazione. Capii che con quel libro che tutti gli «addetti ai lavori» mi avevano sconsigliato di scrivere, parlandomi di un «suicidio letterario», potevo raggiungere un target nuovo, giovane, internazionale. Ho conosciuto persone straordinarie come Ilya, il giovanissimo illustratore delle copertine russe della saga, che ormai conta decine di titoli. Gente rapida nel pensiero e nell’azione. Ragazzi dalle domande interessanti, come lo sono i lettori polacchi del mio libro, i cui commenti e interrogativi mi hanno positivamente stupito. Sono davvero lieto e orgoglioso di essere uno dei due scrittori non russi che hanno collaborato alla saga, se mi è servito a incontrare un pubblico così».
La trilogia era già prevista all’epoca di “Le radici del cielo” o è un modo per rispondere e continuare il suo successo?
«Scrivendo “Le radici del cielo” avevo in mente un romanzo autocompiuto. Poi però ho capito che la storia andava sviluppata. Che per rispondere a tutti gli interrogativi suscitati in me dall’opera di Dmitri un libro non bastava. Così ho lasciato da parte altri progetti e mi sono concentrato sul seguito. Ora ho già in mente la scaletta del capitolo finale della «mia» saga di “Metro 2033”, che si svolgerà tra Firenze e Roma. Diciamo anche che la voglia di dare un seguito al primo romanzo è stata aumentata dai commenti dei miei lettori russi e polacchi, che mi hanno aiutato a focalizzare l’attenzione su quello che volevano, e che ho cercato di dare con “La crociata dei bambini”. In “Le radici del cielo” e ancor più in “La crociata dei bambini” è presente una forte riflessione religiosa, solitamente assente nella fantascienza».
Cosa ti ha portato a scegliere come tema per queste tue opere un’indagine sulla possibilità della fede oltre l’apocalisse?
«Beh, ci sono alcune grandiose eccezioni, personaggi di grandi romanzi fantascientifici che hanno una fede o addirittura sono preti, come il Padre Carmody protagonista di “Notte di luce” di Philip J. Farmer o padre Ramon di “Guerra al grande nulla” di James Blish. E poi c’è quel romanzo straordinario di Lester Del Rey, “L’undicesimo comandamento”, che avrò letto almeno sei volte. Ciò che mi interessava esplorare, nell’universo immaginato da Dmitri, era la possibilità della fede, una qualsiasi fede, non solo di sopravvivere ma di evolversi, in un mondo post-apocalittico. Questo secondo romanzo è incentrato sul concetto cabalistico di tsimtsum: lo svuotamento di Dio. Nel prossimo svilupperò una cosa affascinante che ho scoperto sulla chiesa aquileiese delle origini. Introdurre la religione all’interno della fantascienza dà possibilità narrative notevoli. La tematica religiosa, fra l’altro, è stata il motivo del successo del libro presso il pubblico polacco. “Le radici del cielo” è stato per diverse settimane in cima alla classifica dei bestseller di narrativa fantastica. E con la tradizione che di quel genere c’è in Polonia, è una cosa che mi ha davvero esaltato. In compenso in Germania i lettori hanno reagito negativamente alla presenza dell’elemento religioso e di certi voli di fantasia. Dovendo scegliere il pubblico da accontentare con il mio secondo romanzo ho deciso col cuore e non con la logica dei grandi numeri. Ho scelto i polacchi, insomma».
I tedeschi hanno reagito male per l’elemento religioso o perché uno dei «boss» in “Le radici del cielo” ha un nome tedesco?
«Tutte e due le cose, posso pensare. Gottschalk comunque è una citazione da un romanzo di John Brunner, “La Matrice Spezzata”. In generale le critiche su Amazon vertevano sul fatto che ci voleva più azione che metafisica. È il motivo per cui i polacchi non dichiarano mai guerra per primi e i tedeschi invece sì…».
Il Metro 2033 Universe comprende anche due videogiochi. Li hai provati? Quale preferisci? Se ti proponessero di realizzare un videogioco dalle tue opere quale proporresti e come vorresti che venisse realizzato?
«Ho adorato il primo gioco. Potente, realistico e mistico al tempo stesso. Il secondo ce l’ho ma non l’ho mai installato, essenzialmente perché il mio notebook non ha le caratteristiche tecniche necessarie. Questo dei requisiti di gioco proibitivi è un grosso limite per i due game. Mi piacerebbe poter giocare, come in Russia, a Metro online, alla cui presentazione ho assistito due anni fa. E attendo con impazienza Metro 2033 Wars che è annunciato per Android e IOS. E ovviamente non mi dispiacerebbe avere un videogame tratto dai miei due romanzi della saga. O da “Un buon posto per morire”, il romanzo d’azione che ho scritto nel 2012 a quattro mani con Davide Boosta Dileo dei Subsonica. Quello sarebbe perfetto, secondo me. Ma il tempo c’è. Vedremo».
Che “genere” di videogioco vorresti che fosse? uno sparatutto? un’avventura in terza persona?
«Vorrei fosse un gioco a esplorazione libera, con missioni principali e missioni facoltative, tipo Fallout 3, in cui il karma del protagonista varia a seconda delle azioni che compie».
Nel tuo articolo pubblicato su Wired «L’influenza dei videogiochi nei miei romanzi» critichi i “sapienti” delle «Terre della Letteratura» perché non sanno riconoscere le nuove narrazioni che provengono da fumetti, videogiochi, ecc. e ignorano le potenzialità del meticciato culturale fra i vari media. Però è anche vero che a partire dagli accademici ludologi per arrivare ai “semplici” appassionati di videogame c’è una nutrita schiera di sostenitori dell’idea che la narrazione sia un orpello inessenziale per i videogiochi, roba per vecchi incapaci di giocare e legati a cose come le cut-scenes che loro sistematicamente «skippano» senza pietà. Che peso può avere la narrazione all’interno di un videogioco?
«Molto o nessuno. Dipende dal gioco. Non sono un tecnico, pertanto non posso esprimere che opinioni superficiali, forse anche sbagliate. E poi appartengo a un’altra generazione, una che in gran parte i videogame li ignora o li fugge come la peste. Diciamo comunque che Fallout 3 o Bioshock Infinite sono una cosa diversa da, che ne so, Wolfenstein o Aliens, o altri FPS. Credo che un personaggio come Geralt di Rivia, per dire, abbia potenzialità maggiori di quelli di Assassin’s Creed. La sfida è quella di realizzare giochi che incantino il lettore nella trama. Mi piacerebbe moltissimo poter acquistare i diritti della saga di “Riverworld”, o di quel gioiello narrativo che è “Soldato, non chiedere” di Gordon Dickson. Che giochi fantastici ne verrebbero fuori. Ma temo che il futuro sia piuttosto Angry Birds o Temple Run. La pigrizia e i limiti delle piattaforme di gioco rischiano di rovinare tutto. D’altra parte l’onnipresenza dei fast food e il contemporaneo successo delle trasmissioni di alta cucina rappresentano lo stesso apparente paradosso. Ma non sono un programmatore o un progettista di videogame e infatti in quell’articolo parlavo dal versante della Letteratura, e non da oltre frontiera. Il fatto è che ci sono un sacco di talenti in grado di progettare un videogioco innovativo, e credo che imporre limiti tipo FPS o Adventure sia assurdo. I giochi del futuro saranno molto diversi da quelli attuali, come Fallout 3 sta a Pong…Certamente non è semplice progettare nuovi scenari, e infatti non mi ci provo neanche. D’altro canto Gibson ha inventato il cyberspazio su una macchina da scrivere…».
O l’intervista ad Avoledo è scritta in russo o sto diventando vecchio: non ci ho capito na mazza, non ci ho.
Forse è il caldo. Io l’ho trovata più interessante dei romanzi di Avoledo stesso. Su una cosa sono d’accordo: per uno scrittore progettare un gioco sarebbe una vera sfida, perché si dovrebbe inserire la trama all’interno dell’azione e non viceversa, come si fa di solito.
Ora mi siedo e pianifico una “Pesatura dell’anima” in forma di videogioco, Il vincitore è quello che resuscita più morti e per farlo bisogna conquistarsi il bonus Iside.
È la vecchiaia, Clelia.